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L’amore sublime per Kobe Bryant

Immagine di copertina
Kobe Bryant. Credit: Ansa

Il senso del sublime Kobe Bryant me l’ha trasmesso tanto in vita quanto nel disgraziato evento della sua morte. Il sublime, nella sua traslazione sportivo-agonistica, per come l’ho vissuto io è un’emozione ritardata, una forma di “odio” o di cinismo che si trasforma a ritmo lentissimo in amore incondizionato.

Ma quell’amore lo comprendi solo dopo, a bocce ferme. Monta al di sopra dello strato della coscienza quando gli eventi sono ormai alle spalle. Tanto in vita quanto nel momento della morte.

Per chi come me da Bryant è stato cestisticamente svezzato, che si è appassionato alla pallacanestro negli anni dell’epopea gialloviola, il Mamba ha rappresentato l’incarnazione del nemico perfetto.

Certo, se per un colpo di fortuna avevi scelto di tifare Lakers, lo sforzo “idolatrico” era minimo. La tensione sportiva andava quasi ad annullarsi nel Nirvana fattosi Mamba: il finale già lo conoscevi, i canestri delle squadre avversarie venivano puntualmente crivellati al momento opportuno.

Per antitesi, Bryant era per gli anti-Lakers la scaturigine di tutte le frustrazioni sportive. Gli isolamenti del 24 (prima 8), le triple a difesa schierata che balenavano dal nulla, i giochi a due con Shaq, erano modulazioni, sfumature di quell’avvilimento assoluto che non lasciava scampo.

Kobe sembrava essersi impegnato per diventare allo stesso tempo totem e tabù. Si era alleato, almeno formalmente, col gradasso Shaq, il gigante che schiacciava i lunghi avversari come moscerini per poi sbeffeggiarli con un balletto. Due diverse espressioni della medesima onnipotenza cestistica, un binomio sportivamente illegale, che quella famosa tensione per il risultato la annientava completamente.

Kobe, molto semplicemente, non si poteva marcare. Shaq, molto semplicemente, non si poteva marcare. La somma di due infiniti è emotivamente non matematizzabile, è solo rabbia che monta, se ti sei accomodato dalla parte sbagliata della storia.

I gialloviola erano una teocrazia, i loro tifosi dei devoti costretti (sai che fatica) al politeismo. Noialtri protestavamo contro i potenti, per giunta pure arroganti.

Chi è sottomesso è sempre convinto che l’ingiustizia della sua sorte sia moralmente riscattabile. Quelli erano aiutati dai poteri forti, ci dicevamo. O, in mancanza dei poteri forti, dal culo.

Nell’ultimo minuto delle Finali di conference del 2000 Shaq fece un fallo grosso come una casa sul play di Portland. Ce lo ricordiamo tutti, l’abbiamo visto tutti. Che importa se i Lakers erano a più quattro a 20 secondi dalla fine, per noi frustrati quel mancato fischio degli arbitri era la partita, Kobe e Shaq due ladri molto più che due fenomeni.

E quell’altra finale di Conference, contro Sacramento nel 2002? I Kings avevano quel quintetto da sballo, c’era Mike Bibby, esploso dal nulla, c’erano Peja Stojakovic e Vlade Divac, orgoglio serbo e quindi europeo. Quelli avevano classe e cultura cestistica, altro che il duo di gradassi.

E i gradassi furono pure protetti dagli arbitri. Su Shaq fischiavano pure i sospiri, ci furono mezze ammissioni di sudditanza psicologica dei fischietti anni dopo, inchieste sportive partite e poi abortite.

Le risate sarcastiche di Divac quando gli veniva impedito di provare a marcare un tizio già di per sé immarcabile, che dopo una partita lo sbeffeggiò dicendo che il lungo serbo era buono solo per la NBA femminile. Arrivarono persino a menarsi, qualche tempo dopo.

Non erano solo gli arbitri, era pure il culo. In gara 4 Robert Horry raccolse un “rimpallo” e a 1 secondo dalla fine sganciò una tripla insensata che decise la partita, salvando la serie e i Lakers. Se il pallone fosse stato spazzato anche solo mezzo centimetro più in là il Mamba quel titolo non l’avrebbe mai vinto. Ma i potenti hanno pure culo, si sa.

I Kings per giunta erano una squadra europea. Noi frustrati siamo anche puristi: ci piace il basket europeo come ci piace il welfare state, l’idea di collettività che c’è dietro, l’anti-americanismo, il tatticismo degli allenatori, l’agonismo di ogni singola partita contrapposto ai ciccioni che trangugiano hot dog mentre i giocatori passeggiano in campo negli incontri di regular season.

Cosa c’è di più antitetico all’Europa di Los Angeles, della costa ovest, della Silicon Valley? Kobe poteva almeno decidere di giocare nei Celtics (ah, quanto è europea Boston!) ma no, ha voluto farsi odiare davvero fino in fondo.

Si prendeva 30 tiri a partita, viveva di isolamenti, la passava solo se costretto: l’essenza dell’anti-basket, per noi europeisti, puro individualismo americano, cannibalismo che scalpiccia su un parquet. Dove sono gli schemi? Dov’è la stato assistenziale?

Ce le aveva tutte, Kobe. Ma il sublime è una potenza soverchiante, è l’estetica che schiaccia la morale. L’onnipotenza cestistica puoi detestarla per ragioni etiche, ma ti entra comunque sottopelle, si nasconde nel subconscio.

Il sublime può lasciarti frustrato ma, proprio come lo descriveva Kant, in un secondo momento genera consapevolezza della propria finitezza. La conseguenza, inevitabile, è l’ammirazione per quello spettacolo che ti ha trascinato in una dimensione sovrasensibile.

Avviene a scoppio ritardato, è il ricordo di qualcosa che eri convinto ti avvilisse, ma che in realtà ti stava appagando mentre ti avviliva. Le memorie si ricompongono un pezzo dopo l’altro e di colpo ti rendi conto che quella frustrazione ti manca maledettamente.

Anche il senso morale ti chiede il conto: ma non avevi mai realizzato, chiede, che quel signore non solo è una leggenda, ma è pure cresciuto nel tuo paese, parla perfettamente la tua lingua, ha l’humour di un consumato  guascone?

Tutto questo è avvenuto durante la vita di Kobe, ma anche nell’evento della sua morte. La notizia era troppo assurda per poter essere realmente assorbita. Ha colto alla sprovvista chiunque, ma su di me ha avuto per l’ennesima volta l’effetto ritardato tipico del sublime.

Stavolta l’odio agonistico si è tradotto nell’impossibilità di star dietro con le emozioni all’enormità di quanto accaduto. C’erano le elezioni, quella sera, c’era da lavorare, c’era da far finta che in fondo tutti moriamo, c’era da armarsi di fatalismo, c’era da derubricare le bacheche degli amici piene di foto e post commemorativi al consueto esibizionismo social.

È andata avanti così per qualche ora. Poi, arrestatosi il caos, vai a casa e capisci che qualcosa dentro di te protesta, lo verbalizzi grazie a Flavio Tranquillo, che citando Alberto Moravia ti ricorda che “quando muore un poeta è un dramma per tutti”.

Torni sulle bacheche degli amici e metti “mi piace”, trasportato dalla commozione e dall’empatia. Il sublime ha rifatto capolino, un’altra volta. Sei agito dall’impossibilità di fregartene, l’idea che tu sia cresciuto e che santificare uno sportivo in punto di morte sia una roba da ragazzini ora ti ripugna.

Non è un obbligo rituale verso la comunità di appassionati di basket di cui pure fai parte. Ed è amore, non è rispetto. Il rispetto è anche quello un sentimento rituale, costruito. Lo devi ai nemici cui riconosci delle doti, ma ti ci sforzi, è una maschera. Per il Mamba limitarsi al rispetto sarebbe una roba da vergognarsi. Col Mamba arriva sempre tutto in ritardo, ma alla fine arriva.

Amare Kobe in vita e soffrire perché Kobe non c’è più. Sempre dopo, sempre a bocce ferme.

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