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“Tutta mia la città”, il documentario sui senza tetto di Roma. Matteo Dell’Angelo: “Abbiamo scoperto una grande umanità”

Immagine di copertina

Le strade di una Roma deserta per le restrizioni del Covid, l’ormai famoso lockdown del 2020, diventano “di proprietà” degli emarginati. Degli ultimi. Persone invisibili che diventano visibili. Un mondo parallelo che è stato raccontato nel documentario “Tutta mia la città” diretto da Matteo Dell’Angelo e scritto con Danno, pseudonimo di Simone Eleuteri (Roma, 27 ottobre 1974), membro dei Colle der Fomento dal 1994.

S&D

Storie molto diverse e percorsi eterogenei hanno portato i protagonisti (13 persone) a trovarsi nella condizione di homeless, un’umanità la cui esistenza scorre parallela alla nostra sempre alla luce del sole anche se spesso si fatica a vederla e comprenderla.

In questo documentario il Covid fa soltanto da scenografia per il racconto delle vite di questi personaggi dalle storie così diverse ma accumunati dal fatto di non avere una casa e di passare le loro giornate in una Roma deserta. Tutti descrivono la loro dimensione sia da un punto di vista intimo e psicologico e sia da un punto di vista più concreto legato alla vita quotidiana. Ne abbiamo parlato con il regista del documentario Matteo Dell’Angelo.

Come è nata l’idea di girare questo documentario?
“Quando è scoppiata la pandemia noi stavamo girando una pubblicità in Canada. Siamo quindi rimasti bloccati varie settimane fuori dall’Italia. Quando finalmente siamo riusciti a tornare a Roma, per paura di portare il Covid a casa, mi sono affittato una stanza di un B&B a Trastevere. Complice anche il jet lag, uscivo al mattino presto per prendere un po’ di luce senza creare particolari problemi. Una mattina ho incontrato Karen Di Porto, una regista romana che conoscevo e con cui ho studiato in passato. Durante una passeggiata abbiamo visto Ercole, uno dei protagonisti del documentario, che faceva ginnastica. Nel pomeriggio Karen mi ha chiamato e abbiamo deciso di andare a filmare. Io avevo fatto uscire un altro documentario dal titolo O’Cumpagn Mij, che seguiva la vita di due pugili di Marcianise, una storia di riscatto. Karen l’aveva visto e mi ha detto: andiamo! Giriamo”.

Ercole, quindi, è stato colui che, in qualche modo, ha fatto partire tutto?
“Sì, Ercole è un senza tetto del Labaro, è molto aperto. Lui molto simpatico e spaesato dalla circostanza assurda che stavamo vivendo, desideroso di contatto con altri, ci ha raccontato la sua storia. Ci ha detto che è stato a casa fino a 40 anni, che lavorava ad una pompa di benzina e che ha litigato con i genitori, a cui – ha voluto chiarire – non ha mai fatto del male. Fino a quando un giorno d’inverno la situazione è diventata insostenibile e ha deciso di andarsene di casa. E’ uscito allo sbaraglio. Nonostante conosceva bene Roma, ci ha raccontato che si è perso… Ha girato per i vari quartieri della Capitale fino ad arrivare, non sa bene come, a Trastevere dove c’è la Vo.Re.Co, associazione volontari che lavora con i senza tetto e dentro il carcere. Lì lui tutte le mattine va a mangiare e a fare ginnastica”.

Un personaggio molto interessante.
“Si tratta di una persona molto particolare: parla di alcuni senza tetto, quelli più legati all’alcol o alle sostanze, come “gli altri”. Lui invece ci tiene molto ad essere pulito, ha paura della violenza e frequenta solo alcuni posti. Ha sempre bisogno di muoversi, non gli piace stare nei posti chiusi”.

Il documentario vuole trasmettere un messaggio preciso? Se sì, quale?
“No, è un documentario nato in maniera molto spontanea. Abbiamo scoperto una grande umanità. Poi abbiamo anche visto cose bruttissime… Abbiamo assistito ad un omicidio che è avvenuto sulle sponde del Tevere. Un ragazzo è stato ucciso al termine di una rissa tra i famosi “altri” che vivevano lì sotto”.

Nel documentario sono ripresi gli autori della rissa e dell’omicidio?
“Sì, per qualche secondo si vede il gruppo di senza tetto mentre si trovano proprio a bordo fiume. Quella scena è stata ripresa prima della rissa. Eravamo lì quando è successo. Ovviamente abbiamo immediatamente chiamato la polizia. Sono scesi 30 poliziotti che l’hanno arrestato subito. Il fatto è successo davanti a tanti altri testimoni. Tante altre persone erano lì e ripresero tutto con i cellulari. I video uscirono”.

Nel documentario però si raccontano storie di persone più tranquille.
“Sì, noi abbiamo deciso di raccontare le persone molto aperte e gentili con cui abbiamo scelto di passare del tempo. Poi certo in strada ci sono anche altri mondi, come ad esempio a Termini o lì sotto sul Tevere, dove ci sono persone molto più violente e aggressive. “Gli altri” citati da Ercole”.

Qual è la storia che l’ha colpita di più?
“Ognuno di noi si è affezionato a una storia. A questo progetto ci abbiamo lavorato in tanti. Il vero lavoro è stato tagliare e montare le ore e ore di girato. Con Simone Eleuteri (Danno, ndr) abbiamo scritto tutto e selezionato il materiale e trovato la formula per raccontare tutto”.

Storie di persone che avevano un lavoro, una vita “normale”. Poi qualcosa è andato storto.
“Tutti hanno storie motivi differenti. Chicca, la ragazza del Guatemala, parlava un italiano perfetto che ha imparato lavorando tanti anni in Italia. Lei ha raccontato, in maniera molto precisa, la sua storia. Ha lavorato 13 anni a casa di alcune signore. Poi le signore sono morte e lei ha iniziato a vivere in alcune case occupate. Quando è arrivata la notizia che era morta sua madre si è persa. Mi ha colpito molto una sua frase. Mi ha detto: “Mi sono fatta una bella bottarella e lì non né pianto né riso, ma qualcosa si è calmato in me”. E poi? “Poi ti toglie tutto. Perdi la dignità, i soldi. Diventi una scimmia”. A causa della droga ha perso i figli e si è ritrovata per strada. “Ora sto vivendo come se non avessi il cuore”, ci ha detto. Ora abbiamo intenzione di fare un libro con le trascrizioni di questi incontri che abbiamo avuto per completezza e dare valore alle loro storie. Ci piacerebbe riportare tutto quello che ci hanno raccontato le varie persone incontrate. I ricavi poi vorremmo devolverli alla Vo.Re.Co”.

Nel documentario parlate con senza tetto italiani e stranieri. Avete riscontrato delle differenze di mentalità o di approccio alla vita in strada?
“Noi abbiamo trovato persone molto diverse tra loro. Con colori molto forti e distinti. Se dovessi cercare delle somiglianze tra loro le troverei solo nel contesto in cui vivono. La città. Roma. Tutti diversi ma che vivono nello stesso posto. Il Covid ha reso più visibili le città nella città. Il loro mondo in quel periodo era più visibile”.

Un altro personaggio che colpisce è “Il Professore” autore di massime filosofiche come “L’unica realtà è il futuro” e “E’ più ricco Berlusconi o un ragazzo di 14 anni senza un centesimo?”.
“Mi ha incuriosito come queste persone vedono la vita in un altro modo. Dalle sicurezze, agli affetti. Dalla casa, al cibo. Il professore era molto interessante. Penso che soffrisse di una forma di Alzheimer”.

Tutta mia la città documentario

A suo avviso, il loro modo di pensare giorno per giorno è frutto della condizione in cui si trovano o, in alcuni casi, viene da prima?
“Prendiamo tre esempi: Ercole, Milord e il Professore. Sono tre storie diverse. Il Professore nel documentario dice che nel vivere per strada non ci sono lati positivi. Lì si capisce che c’è una storia drammatica, di escalation della malattia che l’ha portato a rompere i ponti con la famiglia e a vivere per strada. Ercole invece ci dice che se avesse saputo prima dei posti che ha scoperto per mangiare sarebbe andato per strada ben prima rispetto a quando l’ha deciso e fatto. Infine Milord: lui viene da una famiglia poverissima di Caserta, il padre in carcere, ha usato le droghe fin da giovanissimo, ha sempre vissuto per strada. Per lui è sempre stato così. “La ricchezza è noiosa. Meglio vivere così”, ci ha detto”.

Avvicinare queste persone è stato semplice? Erano diffidenti o avevano bisogno di raccontarsi?
“Parlare con loro è venuto molto spontaneo. Sia per il Covid che aveva costretto all’isolamento, sia perché avevano voglia di raccontare le loro storie. Siamo stati accolti a braccia aperte. Quando li andavo ad incontrare era come andare a prendere un caffè con degli amici più grandi che hanno cose da raccontarti. Io e Karen eravamo mossi da grande curiosità. Su tutto. Anche sul come si vive, dove si mangia, ci si lava e così via”.

La scelta di usufruire dell’autobus in numerose riprese è stata voluta?
“Quando piano piano è montato il desiderio di fare un film, mi sono reso conto che altre persone in quel periodo avevano avuto la necessità di documentare quello che stava succedendo. Guido Gazzilli, leggenda della fotografia romana, era andato in giro con l’autobus e aveva filmato questo percorso in bianco e nero. Quindi gli ho chiesto di darmi il girato. L’autobus è tornato utile come metafora del viaggio”.

I 13 protagonisti hanno avuto modo di vedere il documentario?
“Nel tempo sono riuscito a farlo vedere a tre di loro. Solo Ercole l’ha visto in sala. Bernard, ad esempio, l’ha visto sul pc e le cuffie per strada. Ci abbiamo messo diverso tempo per farlo uscire e nel frattempo la città è stata nuovamente invasa, inondata, e molti di loro sono scomparsi”.

Ercole come ha giudicato il vostro lavoro? Gli è piaciuto?
“Ercole è venuto in sala e mi ha detto cose bellissime. Mi ha detto: “Matteo, nel prossimo dobbiamo metterci più ginnastica”. Mi ha raccontato che era andato solo un’altra volta al cinema quando aveva 14 anni. Non ricordava il titolo del film. E’ venuto con noi. C’erano 200 persone. Non è voluto salire sul palco, mi ha chiesto dove poteva mettere il suo zaino. Quella era la sua principale preoccupazione. Era sinceramente emozionato. Quando, alla fine della proiezione, ci hanno chiamato a discutere del film, abbiamo preso la parola e lo abbiamo salutato dicendo che era lì, seduto in sala. A quel punto il pubblico ha avuto un sussulto di sorpresa e lui si è alzato e ha fatto un inchino a tutti sorridendo. Era sinceramente commosso. Ho visto tutto il film accanto a lui. Era sereno e contento”.

E per te come è stato vedere il film accanto a lui?
“Io i gironi prima stavo malissimo… Avevo paura di offenderlo in qualche modo. Mentre montavamo il film l’idea era quella di fare una proiezione collettiva dove alcuni di loro fossero presenti, ma i giorni prima dell’evento temevo che qualcosa potesse andare storto. Quando ho visto che se l’è goduta sono stato felicissimo”.

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