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Home » Spettacoli

ESCLUSIVO – Il regista Oliver Stone a TPI: “Siete schiavi dell’odio Usa contro Mosca”

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L'autore del documentario su Putin: “Mi accusano di subire il suo fascino, ma non è così. Joe Biden? Spero non mi deluda ancora”. L'intervista sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 22 luglio

«Putin? Molti mi hanno accusato di subire il suo fascino, mi hanno visto completamente soggiogato da lui, ma non è così. Gli Usa? Hanno una politica estera aggressiva e militarista. Spero che Biden non mi deluda ancora. La guerra? Gli unici felici di questo stallo sono i nazionalisti russi e la legione di odiatori della Russia: Pentagono, Cia, Ue, Nato, media mainstream e i neoconservatori di Washington, che finalmente hanno ottenuto quello che sognavano da anni. Credo che tutta questa situazione si ritorcerà contro di noi, lo vediamo già adesso con l’inflazione. E no, non vedo nessuna strada per tornare indietro».

S&D

Oliver Stone, 75 anni ben portati, non si sottrae alle domande più scomode, e del resto non lo ha mai fatto, nonostante il suo difficile rapporto con i media. Fermamente anarchico, come ama definirsi, il regista premio Oscar si lascia andare ad una lunga chiacchierata in cui ci risponde con la consueta schiettezza. Dopo aver girato The Putin Interviews, il documentario-intervista al presidente russo Vladimir PutinStone è stato accusato di essere filo-putiniano. Un’idea cui lui si oppone fermamente: «Putin spiega sé stesso con grande abilità. Non ho preso posizioni, non ho interpretato quello che dice, le sue risposte, mi hanno diretto dandomi la possibilità di vedere dentro la sua mente».

È molto duro verso l’America, che vede «guidata dal denaro» e chiama in ballo Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia e Siria. «Si può mettere in confronto Bush con quello che ha fatto Donald Trump», sostiene. «Entrambi hanno agito senza il permesso dell’Onu, infrangendo l’ordine di guerra». Per Stone Biden è troppo «concentrato sulla Russia», mentre «Kennedy è stato il più grande presidente della storia» perché «parlava di pace». La sola guerra concepibile, per lui, è quella «contro il cambiamento climatico», che ritiene «l’unica in cui tutti i Paesi dovrebbero impegnarsi».

Diretto, controverso, senza peli sulla lingua, con Stone, che incontriamo ad Ostuni ospite dell’Allora Fest – International Festival of Cinema Art and Music, non si può che avere un rapporto borderline, esattamente come quello che ha con la stampa e la critica mondiale, che a volte lo ama fino a idolatrarlo e altre volte lo odia, lo bastona ferocemente, come è accaduto ultimamente per le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina.

«Non ho mai giustificato l’aggressione di Putin in Ucraina. La Russia ha sbagliato a invadere, anche se ha ricevuto molti torti, ma questi non fanno una ragione e poi ha commesso troppi errori. Ha sottovalutato la resistenza ucraina, ha usato le bombe sui civili con armi a grappolo e ha distrutto intere città. Ha sottovalutato le reazioni dell’Europa, e il potere dei social media in tutto il mondo».

Le sanzioni non serviranno a nulla?

«Non credo. Per l’Occidente è un rischio usare le sanzioni per ferire gli interessi di altre nazioni. Non ha mai funzionato. La nostra energia e le nostre forniture di grano dipendono molto dalla Russia. Tutta questa situazione credo che si ritorcerà contro di noi, lo vediamo già adesso con l’inflazione».

Nessuna strada da intraprendere per tornare indietro?

«Non la vedo. Gli unici felici di questo stallo sono i nazionalisti russi e la legione di odiatori della Russia che finalmente, hanno ottenuto quello che sognavano da anni. Mi riferisco al Pentagono, Cia, Ue, Nato, media mainstream e i neocon di Washington. Far notare la tossicità della loro politica aggressiva (Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, espansione della Nato, censurare e omettere fatti cruciali dalle cronache, etc.) sarà quasi impossibile».

L’hanno definita filo putiniano, rimproverandole anche i toni leggeri nei confronti di Putin in The Putin Interviews.

«Vorrei precisare che The Putin Interviews non è un lungometraggio, ma un documentario dove ho fatto delle interviste in cui Putin spiega sé stesso con grande abilità. Non ho preso posizioni, non ho interpretato quello che dice, non ho imposto le risposte, in qualche modo sono loro che mi hanno diretto dandomi la possibilità di vedere dentro la sua mente. Ho trovato Putin molto attento alle parole, era disposto a rispondere a tutto, ma nessun agio, mi ha dato 3-4 ore al giorno per rispondere alle mie domande».

Cosa pensa di Putin, è stato tanto a contatto con lui.

«Quello che so di Putin è quello che si vede nel documentario, non ci sono state cose al di fuori di quei momenti. Ho cercato di mostrare l’uomo, di raccontare la sua quotidianità. Molti mi hanno accusato di subire il suo fascino, mi hanno visto completamente soggiogato da lui, ma non è così».

Ha un rapporto molto controverso con la stampa. Sono tutte fake news?

«Le notizie false esistono da secoli. Quando si vuole spostare l’attenzione su qualcuno e screditarlo, si creano fake news. Dicono chi è il cattivo, s’inventano fatti. Gli spartani facevano così con gli ateniesi. Sono sempre notizie false, cosa c’è di nuovo? Sono d’accordo che l’incitamento all’odio non è una buona cosa e che dovrebbe essere bandito. Ma la censura è sempre molto pericolosa. L’unica difesa è l’informazione di qualità, farsi un’opinione personale, revisionare la storia, è solo così che ci si può difendere dalla disinformazione».

Come considera il processo a Julian Assange?

«Il caso Russiagate è un’invenzione, Assange ha ottenuto le informazioni da un insider del comitato nazionale del partito democratico e l’Fbi non ha mai investigato su questo. Lo hanno accusato di aver passato le informazioni alla Russia ma non è vero, tecnicamente non regge. Trump voleva dargli la grazia, ma solo se avesse rivelato il nome della sua fonte. Assange non ha stretto quell’accordo perché è un uomo onesto e non rivela le sue fonti».

Adesso rischia grosso. Il governo britannico ha accolto la richiesta di estradizione avanzata dagli Stati Uniti.

«Assange è odiato dai sostenitori di Hillary Clinton per aver danneggiato la sua candidatura e la possibilità di essere eletta. Premetto che Bill e Hillary Clinton sono dei personaggi molto negativi. Lui non era un moderato ma un opportunista. Ha distrutto il Partito democratico. Purtroppo, Assange è odiato anche dai repubblicani perché è visto come un piantagrane. Snowden e Assange sono degli eroi per me. Noi cittadini abbiamo bisogno di sapere come opera il nostro governo, dobbiamo sapere cosa stanno facendo a nostro nome. E non credo stiano facendo cose buone.»

Non ha molta fiducia nel suo Paese.

«L’America è guidata dal denaro, il nostro armamento costa più del 50% per cento delle nostre spese, la situazione è completamente fuori controllo. La storia americana non è mai stata messa in discussione e spesso è stata distorta, a partire dalla guerra nel Vietnam. Possiamo essere un Paese con rapporti decisamente migliori con il mondo, ma per la nostra storia sembra che non sia possibile».

A cosa dovremmo prepararci, quindi?

«Ad una guerra contro il cambiamento climatico. L’unica guerra che approvo, l’unica in cui tutti i Paesi dovrebbero impegnarsi. Per come stiamo ignorando concretamente il problema, ce ne renderemo conto solo quando sarà troppo tardi. L’America sta perdendo tempo e sprecando una quantità enorme di denaro in altro. Dobbiamo trasferire le risorse economiche sulla ricerca di soluzioni per l’emergenza climatica. Sono preoccupato per Biden perché è così concentrato sulla Russia. L’unico problema che ho con lui riguarda la politica estera, anche se avevo festeggiato quando ha ritirato le truppe dall’Afghanistan. Credo che la sua politica interna sia progressista, speriamo non mi deluda ancora».

Lei fu affascinato anche da Ronald Reagan.

«Si, lo ammetto, ma Reagan era molto seducente, grande affabulatore, un attore vero. Mi sono ricreduto presto. Ho capito che era un uomo senza alcuna remora, molto oppressivo. Ha foraggiato la guerra fredda, i regimi di destra del centro America, però era differente per esempio da Trump che ha un lato disumano, ha chiuso le frontiere, ha negato il cambiamento climatico, solo per citarne alcune. Trump è uno dei peggiori presidenti della storia».

Anche per George W. Bush non ha molta considerazione. In W (2008) che ha presentato all’Allora Fest, il presidente è dipinto come un uomo superficiale, megalomane e terrorizzato dal confronto con il padre.

«È importante che questo film sia visto dopo tanto tempo da una platea di giovani, perché parla della nostra storia. Sono qui per questo. Si può mettere in confronto Bush con quello che ha fatto Donald Trump. Entrambi hanno agito senza il permesso dell’Onu, infrangendo l’ordine di guerra. Tutto quello che si vede nel film è stato realmente detto da Bush, magari in tempi diversi, ma lo ha detto».

W. non ha avuto grande successo e fu bandito in molti Paesi appartenenti al blocco filoamericano, compresa l’Italia.

«Bush non era popolare e la distribuzione non è stata perfetta. La critica non l’ha amato. Un film partito già con delle difficoltà. Josh Brolin mi aveva detto no, non si vedeva nei panni di Bush. Ho dovuto faticare parecchio per convincerlo. Durante la lavorazione ha avuto problemi cutanei per il nervosismo e stava per lasciare il film, aveva come una paresi al viso. Abbiamo spostato tutto di tre settimane e il budget si è ridotto. Prima nessun altro attore è stato così titubante nell’accettare un mio ruolo! Ma il film è valido».

W. fa parte della serie di film dedicati ai presidenti, iniziata con JFK -Un caso ancora aperto (1991) con Kevin Costner nei panni del procuratore distrettuale di New Orleans, Jim Garrison.

«Sono molto attratto dalle figure dei presidenti. Kennedy per me è stato il più grande presidente della storia, parlava di pace, proprio come il Santo Padre. Quando uscì JFK creò molto scompiglio e non fu per niente amato dalla stampa e dalle alte cariche politiche statunitensi. Addirittura, un mese prima che uscisse nelle sale, fu lanciata una campagna denigratoria che lo faceva passare come un film falso, basato su riferimenti storici distorti e non reali. Ma non riuscirono a danneggiarlo».

JFK, infatti, ha avuto un successo enorme e ha fatto riaprire il caso sulla morte di Kennedy. Il cinema che fa la differenza?

«Certo, il cinema è potente. Pensi che fu creata una task force di civili che ha fatto riaprire quel dossier di migliaia di pagine e indagare ulteriormente sulla vicenda. Purtroppo, la Cia è la peggiore, alcuni documenti essenziali non sono mai stati visionati. C’è un livello di segretezza nel governo americano altissimo. Più è grave il fatto e più ci sono segreti. Sono passati 30 anni, quel film si basava su fatti noti. Per il doc JFK Revisitet: Through the Looking Glass (2021) ho avuto modo di visionare migliaia di documenti che sono stati resi pubblici dal 1998, ma la Cia ha distrutto diversi dati come quelli del viaggio di Kennedy in Florida e a Chicago. Trump aveva promesso di dare il via libera alla desecretazione di altri documenti, poi non lo ha fatto. Oggi abbiamo Biden che è cattolico. Ci sono almeno altri 20mila dossier da rendere pubblici. Vediamo cosa fa. Ma nessuno ha il coraggio. Nessun presidente».

Di recente ha pubblicato una autobiografia dal titolo “Cercando la luce” (Nave di Teseo) in cui racconta i primi quarant’anni della sua vita. Non è andato oltre. Perché?

«I miei quarant’anni sono stati come uno spartiacque fra prima e dopo. Parto dalla mia serena infanzia, passo per la mia esperienza in Vietnam e arrivo a Platoon. Fino ai 40 anni è stato un viaggio impervio, ci sono state tante difficoltà. È stata una lotta veramente dura anche se in quegli anni ho imparato a vivere, a sopravvivere, ho imparato a scrivere, a finanziare i miei film, sgomitando, inventando espedienti pur di realizzare un film e portarlo nelle sale. Ho superato tanti fallimenti e ho raggiunto delle belle vittorie. Sto pensando di scrivere il sequel, ci metterò 5 anni così arrivo agli 80 anni. Voglio raccontare tutto quello che abbiamo attraversato dal punto di vista politico e sociale».

All’età di 20 anni si arruola volontario nell’esercito e dal settembre 1967 al novembre 1969 viene mandato in guerra in Vietnam, dove è rimasto ferito due volte in combattimento. È stato anche decorato con la Air Medal per aver partecipato a 25 assalti con gli elicotteri. Perché ha fatto questa scelta?

«Ero giovane, stavo attraversando un periodo di crisi personale molto forte, e poiché sono sempre stato fatalista, mi sono detto: bene, se sopravvivo alla guerra, vuol dire che sono diventato forte, che la vita ha un senso e che tutto quello in cui credevo non ha valore».

Gran parte di questa sua terribile esperienza è raccontata in Platoon (1986) con Willem Dafoe, Charlie Sheen e Tom Berenger.

«Ho trascorso 15 mesi della mia vita in quell’inferno, non so come ho fatto a resistere. Ho visto tutto il male possibile, la violenza, l’ingiustizia, la follia, i commilitoni ammazzati dagli stessi commilitoni perché in quella giungla non capivi più niente, ho visto l’orrore sui civili.  Un’esperienza sconvolgente. E tutto quello che ho vissuto, l’ho messo nel film. Nessuno prima di me si era mai azzardato a raccontare il Vietnam, era un tabù. Infatti, mi ci sono voluti quasi vent’anni per realizzarlo. Avevo cominciato a scrivere la sceneggiatura non molto tempo dopo essere rientrato dal Vietnam, ma all’Inizio nessuno voleva investire in un regista sconosciuto, e in una storia così scomoda. Solo dopo i primi successi, sono riuscito a metterlo in piedi».

Platoon è diventato un manifesto antimilitarista e le ha regalato quattro Oscar, tra cui miglior film e miglior regia.

«Un film piccolo che ha avuto un grande impatto. Molti giovani, dopo aver visto il film, non sono stati più gli stessi. Non sapevano quanto la guerra fosse cattiva. E di questo sono molto orgoglioso. Qui ad Ostuni mi hanno chiesto cosa avrei cambiato se l’avessi realizzato oggi. Sicuramente avrei raccontato di più, avrei eliminato le scene troppo violente e niente altro, anche perché non è cambiata la mia posizione. Un no assoluto alla guerra e alla politica militarista americana».

Sempre nel 1986 ha diretto Salvador, il suo primo successo da regista, in cui narra la storia di un giornalista in crisi, (James Woods) che insieme all’amico fotoreporter Rock (James Belushi) si reca in El Salvador per realizzare servizi sulla guerriglia, e invece si trova invischiato nell’atrocità della guerra civile. È con questo film che inizia a costruire la sua fama di regista controcorrente.

«Dico solo quello che penso e che vedo, perché anche Salvador è costruito su esperienze che ho vissuto. Dopo il Vietnam andai in Salvador insieme a un giornalista che voleva raccontare quei territori e indagare sulla guerra civile, che contrapponeva la guerriglia popolare alla guardia nazionale di estrema destra, armata dagli Stati Uniti di Reagan. Gli americani crearono un vero disastro, alimentando la guerra civile e gli squadroni della morte. Mai vista tanta ingiustizia e violenza perpetrata sui civili, donne e bambini e contro chiunque provasse e mettersi contro, ad aiutare la popolazione, facendola scappare o portandola in salvo. La guerra è un orrore, sempre».

Ha in preparazione il suo ultimo lungometraggio White Lies, un film che racconta le tre generazioni di una famiglia americana.

«Purtroppo, ho abbandonato il progetto per mancanza di finanziamenti, ora ne ho un altro ma non ne parlo finché non avrò maggiori certezze. Continuo a lavorare malgrado non ci sia molta ricettività. Voglio fare il mio ventunesimo lungometraggio e spero di riuscirci presto».

Il cinema è in grave difficoltà. Eppure Top Gun: Maverick, con Tom Cruise, attore sul quale lei ha creduto in modo importante, affidandogli il ruolo di protagonista in Nato il quattro luglio (Oscar miglior regia e Golden Globe miglior attore) è l’unico film che sta avendo un successo straordinario. Cosa ne pensa?

«Tom (Cruise, ndr) è un talento naturale ed è incredibile la sua capacità di trasformazione. Ha deciso di intraprendere una carriera di carattere commerciale anche se ci sono dei bellissimi momenti nel suo curriculum, come il film di Steven Spielberg, Minority Report o Magnolia di Paul Thomas Anderson. Per quanto riguarda Top Gun: Maverick è chiaro che ha successo perché fa appello ad un pubblico ampio su cui il militarismo americano continua ad avere il suo appeal. Non per me, penso che sia orribile e che l’America sia sulla strada dell’autodistruzione se non rinuncia all’idea della supremazia militare».

Il suo ultimo lavoro, che vedremo prossimamente, è il documentario Energy. Di cosa si tratta?

«Energy è incentrato sull’energia nucleare. Sono ormai due anni che lavoro su questo documentario. Abbiamo girato in Francia, in Cina mentre l’Italia si è tirata indietro. Siamo andati in questi Paesi incoraggiando risposte e studiando la situazione. Abbiamo cercato di capire tutto quello che le istituzioni, la politica, i cittadini, pensano sull’energia rinnovabile».

Che tipo di approccio ha avuto con questo tema?

«Il metodo per realizzare questo documentario è stato lo stesso che ho usato per JFK Revisited. Due anni di lavoro basato sui fatti, sulla ricerca, su un ampio ventaglio di opinioni, di documenti etc. C’è dentro quello che sappiamo del nucleare, quello che dicono gli scienziati, le paure della gente. Il nucleare è una forma di energia che viene respinta dalla maggior parte delle persone, in Italia il suo uso è stato abrogato da un referendum, giusto? E invece andrebbe ripreso in considerazione. Mi piacciono le rinnovabili, ma costano troppo, bisogna pensare anche all’aspetto sociale, e poi richiedono spazi, dipendono dalle condizioni atmosferiche, non offrono certezze e grandi volumi».

È mai sceso in piazza?

«Sono un drammaturgo, racconto storie, non vado a protestare. Credo sia importante farlo ma, non è il mio ruolo. Io devo raccontare delle storie che possono provare a svelare misteri, a creare una certa identificazione e seguire questo filone. Raccontare la nostra storia in modo che i politici non possano più prenderci in giro, perché la conosciamo, e i documentari, in questo senso, possono aiutare moltissimo».

Ama molto i documentari. Chi segue fra i documentaristi?

«Ho amato tanto i documentari di Robert J. Flaherty, sono quelli che ho visto a scuola. Lui ha dedicato tutta la sua vita e il suo lavoro a raccontare i margini della civiltà. È stato il primo a parlare di cinema della verità. Ultimamente ho conosciuto il lavoro di Sabina Guzzanti, che ha una personalità molto interessante e non le manda a dire».

Come vede l’America dopo due anni di pandemia? Girerebbe un film sul Covid?

«La pandemia è uno di quei temi che non affronterei mai, anche perché è ancora in corso. L’America ha reagito in maniera scomposta, il Paese è vasto e reagisce in maniera diversa e contraddittoria. Ho cercato di tenermi lontano dal contagio. Sono convinto che la terra ci stia dando dei messaggi precisi. Secondo me, alla fine prenderemo tutti il Covid, svilupperemo l’immunità di gregge, ci adatteremo. Sono molto fatalista».

Riguardo all’Italia, ha qualche ricordo legato al nostro Paese?

«Un ricordo a cui tengo tanto. Mi trovavo sul set de La voce della Luna (1990) di Federico Fellini. Mi avevano accolto molto bene e mi avevano fatto sedere accanto al maestro. Non era una giornata semplice per lui, aveva un problema tecnico, che non riusciva a risolvere perché Benigni non seguiva il copione, improvvisava e la scena non gli funzionava bene. Provavano e riprovavano. Ad un certo punto Fellini si è alzato e ha detto: Vaffanculo tutti, vado a mangiare! Ed è andato via. (Ride di gusto)».

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