Luca Zingaretti racconta La casa degli Sguardi: “Il mio prossimo film? Vorrei parlare del cambiamento climatico”
L'attore debutta alla regia con il primo capitolo di una trilogia autobiografica a ritroso in cui lo scrittore Daniele Mencarelli racconta il suo percorso di redenzione dall’alcool
La casa degli sguardi, primo capitolo di una trilogia autobiografica a ritroso in cui Daniele Mencarelli racconta il suo percorso di redenzione dall’alcool, è – a tutti gli effetti – il seguito di Tutto chiede salvezza, uscito due anni dopo ma ambientato cinque anni prima.
Teoricamente, quindi, il film di Luca Zingaretti dovrebbe essere il seguito della serie Netflix di Francesco Bruni. In realtà, però, non è affatto così. Anche se i due registi che hanno adattato per lo schermo la trilogia di Mencarelli sono stati insieme artefici del più grande successo televisivo dell’ultimo quarto di secolo – il Commissario Montalbano (ma nessuno dei due come regista: il primo come attore, il secondo come sceneggiatore) – i due progetti non hanno nulla in comune.
Già Bruni, nella serie Tutto chiede salvezza (uscita nel 2022), aveva cambiato il cognome del protagonista, spostato l’ambientazione dagli anni ’90 ai giorni nostri e introdotto una storia d’amore con un personaggio immaginario. Quando, visto il successo, è stata messa in cantiere Tutto chiede salvezza 2, la seconda stagione ha preso radicalmente le distanze dal seguito letterario, così come dal vissuto dello scrittore, inventando tutto di sana pianta con risultati peraltro poco convincenti, se Netflix ha deciso di non produrre una terza stagione.
Per una curiosa coincidenza, nello stesso anno in cui è uscito sulla piattaforma il seguito “apocrifo” di Tutto chiede salvezza, nei cinema è approdato quello ufficiale, che ha visto il debutto dietro la macchina da presa di Luca Zingaretti. Il quale, se possibile, prende ancora più le distanze dal modello letterario: anche il film tratto da La casa degli sguardi – che il regista ha presentato nei giorni scorsi al Nuovo Sacher – sceglie di ambientare l’azione ai giorni nostri, anche lui inserisce una storia d’amore totalmente fittizia, cambia non solo il cognome ma anche il nome del protagonista e decide persino di “uccidere” la madre.
Rimane invece il nome di Davide (Rondoni), l’intellettuale che introduce il protagonista al Bambin Gesù e negli ambienti letterari e che oggi è Presidente del Comitato per le celebrazioni degli 800 anni dalla morte di Francesco d’Assisi.
Zingaretti tende anche a laicizzare al massimo il racconto: nonostante sia ambientato nell’ospedale pediatrico del Vaticano non c’è alcun rifermento alla Chiesa o alla religione e a determinare la svolta nella vita del protagonista non è una suora ma una giovane madre (interpretata da Luisa Borini). Eppure l’opera di Zingaretti resta un mirabile “tradimento” di quella di Mencarelli, riuscendo a coglierne pienamente l’anima.
«Mencarelli è sceneggiatore, ed è stato per molti anni editor delle fiction Rai, quindi sapeva benissimo che quando adatti un libro lo devi tradire», ci ha raccontato nel corso dell’incontro al Nuovo Sacher, moderato da Nanni Moretti: padrone di casa ma anche ex socio del produttore del film Angelo Barbagallo, che proprio con Moretti fondò la Sacher Film nel 1987, per poi lasciarla vent’anni dopo.
«Un libro e un film hanno codici completamente diversi», spiega Zingaretti: «Ovviamente ha chiesto di leggere la sceneggiatura. Sulla mancanza della mamma è rimasto molto male, anche perché lui è molto legato a sua madre. Quando però ha visto il film mi ha fatto un grande regalo: ricordo che io ero rimasto fuori dalla sala, intimorito. Quando si sono accese le luci, ha esitato per un attimo sulla poltrona, poi si è alzato, mi ha abbracciato e mi ha detto una cosa meravigliosa: “Questo non è il mio libro, però è il mio libro”».
Ha capito subito di voler interpretare il ruolo del padre?
«No, io non volevo recitare nel film. Essendo la mia opera prima, volevo concentrarmi sul lavoro che so fare di meno, e cioè il regista. Quando però ho messo il ruolo nella cast list, i miei sceneggiatori mi hanno detto: “Ma come? Non lo fai te? L’abbiamo scritto per te!” e hanno insistito a dire che avrei dovuto farlo io. Essendo noi attori molto narcisisti, una volta messo il seme…».
Come ha trovato il protagonista?
«Ho chiesto alla mia direttrice di casting di non farmi mandare le foto con i provini ma un video in cui si raccontano. Sono arrivati 300-400 video: li abbiamo visti tutti, poi ho selezionato 50 ragazzi da incontrare di persona. Il primo giorno alle nove di mattina vediamo i primi cinque. Arriva il primo: “Buongiorno sono Gianmarco Franchini”. Facciamo il provino di 40-45 minuti. E fa la scena in un modo incredibile: non da bravo attore, perché a 20 anni non puoi essere bravo: ma questo ragazzo ha un’anima e non ha paura di farla vedere. Forse perché è nato in un piccolo paesino vicino Roma in mezzo ai boschi di castagno. Io ho visto la purezza, la forza del personaggio».
Quindi ha scelto il primo che ha visto?
«Sì, ho detto di mandare via tutti gli altri perché l’avevo già trovato. Il produttore era contrario: voleva che ne vedessi ameno altri cinquanta. Ma è come quando ti innamori: se hai trovato la persona giusta perché cercarne altre?».
È al suo debutto?
«In realtà aveva appena girato Adagio di Sollima, ma non mi aveva detto niente. Ha studiato recitazione anche per uscire da una condizione difficile nella vita: per lui recitare rappresenta davvero un riscatto esistenziale. Io con lui ho lavorato tanto e benissimo. Ma non ha mai fatto una cosa come io glie l’ho fatta vedere: me l’ha sempre restituita facendola passare attraverso la sua sensibilità».
Quale fase è stata più faticosa? La sceneggiatura, le riprese o il montaggio?
«Non ho mai faticato: sono stati un anno e mezzo di felicità assoluta. Ma tutto sommato nelle riprese non ho avuto tante difficoltà: arrivavano le risposte prima che mi facessi le domande. La scrittura è stata molto più difficile, e poi devo ringraziare il montatore. È stato un rapporto conflittuale perché lui scartava tante scene che a me piacevano: aveva quasi sempre ragione lui, ed è stata una grande lezione. Un regista non deve mai affezionarsi troppo a una scena, anche se è venuta bene».
È un film che parla di disagio, di amicizia, ma anche della dignità del lavoro. I protagonisti sono autisti dell’Atac e addetti alle pulizie…
«Io ho vissuto un mese dentro una cooperativa di pulizie: ho lavorato con loro, li ho conosciuti, intervistati e per me è stata veramente una sorpresa. La classe lavoratrice è stata molto raccontata nel dopoguerra, e poi dimenticata a favore della borghesia e, ultimamente, anche della malavita. Ho scoperto che sono davvero la spina dorsale del paese: gente che arriva a fine mese con fatica ma fiera di arrivarci in maniera leale, e che magari ha poco ma è più disposta a condividerlo rispetto a quanto possa fare la borghesia. Sono persone che sono state dimenticate dal cinema e che non hanno voce».
Quale soggetto stava scrivendo per esordire, prima di imbattersi nel libro di Mencarelli?
«Non posso dirlo, perché sarà il tema del mio secondo film! Scherzi a parte, è possibile che ci torni. Devi sapere che mi vengono dieci idee al giorno ma di solito non resistono alle 24 ore. Questo invece non solo ha resistito, ma è anche piaciuto ad alcune persone di mia fiducia: è la storia di una famiglia disfunzionale. Io adesso devo decidere se continuare a raccontare l’umanità per come la so raccontare o esplorare altri terreni. C’è per esempio un’idea che mi frulla in testa alla quale non ho ancora dato forma. Mi piacerebbe parlare dell’emergenza climatica. Ogni estate si fa più calda e noi continuiamo a far finta di nulla come se fosse davvero normale».
È un film che parla anche di accudimento. Da parte del padre, ma anche del collega di lavoro.
«Ce n’è tanto bisogno. Nelle nuove generazioni c’è una disperazione maggiore della nostra, perché noi abbiamo vissuto anche in tempi molto turbolenti ma con la possibilità di mettere le radici nel terreno. Questi ragazzi, invece, devono adattarsi a un mondo che cambia con una rapidità tale che è come se andassero sempre sui pattini o sul surf. Vivere in un mondo che cambia in continuazione è una grande sfida».
Il film è ambientato al Bambino Gesù, dove Mencarelli ha scritto il suo primo libro di poesie.
«Se sei romano al Bambin Gesù ci sei entrato almeno una volta, o da paziente o da genitore di paziente. Io ho frequentato tanti ospedali pediatrici con la nazionale degli attori, e, non so perché, ma al Bambino Gesù c’è un’atmosfera particolare. Sai di essere protetto: quando entri con un problema sai che se c’è anche solo una piccola possibilità che possa essere risolto, sei nel posto giusto. Come ne varchi le porte provi un senso di serenità, ed è curioso per un luogo dove – invece – dovresti provare angoscia e sofferenza. È un luogo dove ti senti davvero al sicuro».
