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Home » Politica

Il segreto nero di Meloni: i rapporti tra gli ex Nar e FdI che arrivano fin dentro il Parlamento

Immagine di copertina
FOTO: Matteo Minnella - Contrasto

L’obiettivo è di rovesciare la giustizia, a partire dalla strage di Bologna. L'inchiesta sul nuovo numero del settimanale di The Post Internazionale, in edicola da venerdì 16 settembre

Sono rapporti che rimangono, fili che non si sono mai spezzati, in una memoria condivisa, per quella che semplicemente chiamano comunità. Qualcuno ha avuto fortuna, varcando la soglia del Parlamento. Molti si sono trasformati in imprenditori, più o meno di successo, aprendo ristoranti in giro per l’Europa, dalla Gran Bretagna alla periferia della Capitale italiana, dall’Olanda allo struscio alcolico di Roma nord. Vite apparentemente separate oggi, una militanza dura nel passato, “spalla a spalla”, come amano ripetere. Con una regola: gli amici di una volta non si dimenticano. Per il mondo post fascista alla fine dei conti non è una questione di “album di famiglia”. Sin tratta di fedeltà, di un patto da non violare, neanche dopo decenni. Se qualcuno finisce sotto processo, per strage o per omicidio, nessun passo indietro: c’è chi fa di tutto per “rifare le chiavi” della cella, chi raccoglie fondi per pagare la casa, indispensabile per i domiciliari, o per gli avvocati. E chi, da deputato, versa fondi o costruisce le condizioni per arrivare, almeno, ad una revisione storica di fatti accertati in via definitiva. Non è solo una questione di cameratismo. La “comunità” ha una necessità politica urgente: togliere dalla propria storia la doppia macchia infame. Le stragi, certo, ma anche quell’accusa di essere stati soldati di ventura messi sul libro paga di servizi e poteri deviati. Come la P2 di Licio Gelli.

L’ombra di Bologna

Con l’inchiesta Mondo di mezzo, la galassia nera subisce una scossa. L’indagine era nata quasi per caso nel 2009 da un’informativa del Nucleo investigativo dei Carabinieri su Luigi Ciavardini e il suo entourage; Massimo Carminati, già compagno di classe di Valerio Fioravanti, ne esce male, con una pesante condanna, qualche ex Nar rimane coinvolto. La posizione di Ciavardini nel 2017 viene archiviata e alla fine i danni per la comunità della destra romana sono contenuti e la caduta dell’accusa di associazione mafiosa con il giudizio definitivo riduce pene ed impatto politico e mediatico. Tre mesi dopo la sentenza di primo grado di Mondo di mezzo – che si era concluso dopo quasi due anni di udienze show nell’aula bunker di Rebibbia – a Bologna il Gip rinvia a giudizio Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980. Anche lui un ex Nar, legatissimo a Fioravanti, Mambro e Ciavardini. I riflettori, dopo anni, si riaccendono sulla bomba esplosa nella sala di aspetto della stazione dei treni, con i suoi 85 morti. Dal punto di vista giudiziario nessun dubbio sulla partecipazione di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, tutti condannati in via definitiva. Perfino la Corte europea dei diritti dell’uomo nel 1998 ha respinto il ricorso presentato dagli ex Nar, ritenendo che il processo sia stato celebrato nel pieno rispetto dei diritti della difesa. Cavallini, per la Procura di Bologna (e per i giudici di primo grado, che lo condanneranno nel 2019 all’ergastolo), era il quarto uomo del gruppo che garantì la logistica dell’attentato. Per l’intera area nera si riapre una pericolosa finestra sulla storia più recente del post fascismo. Condannare Cavallini vuol dire confermare ulteriormente quella terribile colpa, che pesa sull’intera comunità della destra. Poco dopo, nel febbraio 2021, la Procura generale di Bologna chiede il rinvio a giudizio di Paolo Bellini, l’ex di Avanguardia nazionale legato all’intelligence italiana, accusato di essere il quinto membro del commando. Non solo: in quell’atto entrano come finanziatori, organizzatori e depistatori della strage Licio Gelli, Umberto Ortolani, il prefetto a capo dell’ufficio affari riservati Federico Umberto d’Amato e lo storico ex parlamentare missino, fondatore della rivista Il Borghese, Mario Tedeschi. Tutti deceduti, ma per la prima volta emerge processualmente un legame diretto tra l’area pidduista e il mondo della destra romana nella pianificazione della strage del 2 agosto 1980. Il 6 aprile scorso arriva la sentenza di primo grado: Bellini è giudicato colpevole e condannato all’ergastolo. La tesi della Procura generale viene accolta. L’ombra della strage si allarga dal contesto Nar, esce dalla stretta gabbia dello “spontaneismo armato”, include altre sigle e, attraverso la figura di Tedeschi, sfiora anche il principale partito post fascista, il Movimento sociale italiano.

I vecchi amici del Fuan

Il 10 marzo 2018, pochi giorni prima dell’inizio del processo contro Gilberto Cavallini, uno degli animatori dei “Boys”, il gruppo ultras di estrema destra della Roma, Guido Zappavigna, avvia la raccolta dei fondi per sostenere le spese legali, attraverso l’associazione “Nessuno resti indietro”. La cassa, rapidamente, si riempie, potendo contare su donazioni da parlamentari di peso. Il 30 marzo 2018 Zappavigna pubblica questo post su Facebook: «Un grazie a Claudio Barbaro che ha contribuito alle spese legali per Gilberto… Claudio è sempre presente». Senatore di Fratelli d’Italia, oggi candidato all’uninominale in Campania, suo seggio storico, con il partito di Giorgia Meloni, Barbaro commenta con due emoticon l’annuncio di Zappavigna: delle corna ed uno smile con la linguaccia. Una conferma fatta tra amici. La raccolta dei soldi prosegue anche nei mesi successivi, accompagnando le udienze del processo: «Ancora una volta mi rivolgo alla comunità – scrive Zappavigna il 23 maggio 2019, proseguendo la sua campagna di sostegno all’ex Nar Cavallini – che da più di un anno sta sostenendo la battaglia di Gilberto davanti ai giudici di Bologna per affermare non solo la sua innocenza ma l’estraneità del nostro mondo al criminale eccidio del 2 agosto». Poi pubblica la copia di un bonifico partito dal conto di un altro ex esponente della destra eversiva degli anni Settanta e Ottanta, Pierluigi Scarano, e diretto al conto di uno dei legali di Cavallini. La storia di Guido Zappavigna affonda le radici nel mondo dell’eversione nera. E delle organizzazioni giovanili del Msi. Alla fine degli anni Settanta la sede dell’organizzazione universitaria del Movimento sociale, il Fuan, di via Siena a Roma diventa una sorta di centro logistico del mondo nero romano. Qui nasce e cresce l’ala militare che poco dopo darà vita ai Nar. Frequentavano quella sede i fratelli Valerio e Cristiano Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Francesca Mambro, Massimo Carminati, Stefano Tiraboschi, Dario Pedretti, Elio Di Scala, Walter Sordi, Luigi Aronica, Mario Corsi. Presidente di quella sezione – secondo una informativa della Digos del 21 novembre 1979 – era proprio Guido Zappavigna. Il senatore di Fratelli d’Italia Claudio Barbaro viene da quello stesso mondo. Nel 1989 la Digos lo segnalava quale «soggetto eversivo di destra» e nelle informative del Ros dell’inchiesta sul Mondo di mezzo di Carminati gli investigatori annotano «arresti (anni 1977/1980) per associazione per delinquere e detenzione abusive di armi», inchieste dalle quali è stato poi scagionato. Barbaro, fondatore e presidente dell’Asi, l’associazione sportiva dell’area di destra, erede della Fiamma, i rapporti stretti con gli ex Nar li mantiene vivi ancora oggi: fu lui nel 2009 a firmare l’assunzione di Luigi Ciavardini, permettendogli di usufruire della semi libertà, dopo la condanna per la strage di Bologna.

Questione di feeling

Roberto Grilli, 59 anni, è un narcotrafficante di alto livello. Nel 2011 venne fermato al largo di Alghero su una barca a vela con un carico di 500 chili di cocaina, uno dei più importanti sequestri nel Mediterraneo. Pochi mesi dopo iniziò a collaborare con la Procura di Roma, impegnata nelle prime fasi dell’inchiesta su Massimo Carminati, raccontando il mondo nero da dove proveniva: «Quando ci fu un periodo come quello Nar, pseudo Nar (…) molti di questi che sl portano indietro questo background che poi ti lega in un certo senso, quindi fai più affari volentieri è normale che hai più feeling con un vecchio camerata, molti adesso sono diventati politici, chi è deputato, chi è senatore, De Angelis è senatore, quell’altro, Claudio Barbaro è deputato». Due nomi, quelli di De Angelis e Barbaro, che sono un trait d’union tra la destra di oggi e il mondo neofascista degli anni Settanta. Marcello De Angelis, rimasto latitante per anni dopo le inchieste su Terza posizione, senatore dal 2006 al 2013 per Alleanza nazionale prima e il PdL poi, è il fratello di Germana, la moglie di Luigi Ciavardini. Antichi legami che diventano collante della politica. «Sono tutta gente cresciuta in quell’ambiente – prosegue il racconto di Grilli, ritenuto attendibile dalla Procura di Roma – e questi rapporti rimangono, rimangono e negli anni se devi chiede un favore, una cosa, è facile che hai rispondenze quando c’hai un appoggio di questo tipo che non viceversa». Al di là delle parole del narcotrafficante diventato collaboratore, c’è oggi una questione centrale che lega l’intera area. Una sorta di madre di tutte le battaglie: allontanare lo spettro delle stragi, soprattutto quella di Bologna.

“I magistrati risponderanno”

Il 9 settembre del 2020 in via della Scrofa, nella sede della fondazione Alleanza nazionale, l’atmosfera è quella dei grandi eventi. Una sorta di rimpatriata. A fare gli onori di casa due deputati di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, già a capo del Fronte della gioventù di Roma, e Paola Frassinetti, esponente della destra milanese di lungo corso. Nomi che oggi concorrono in collegi sicuri per il partito di Giorgia Meloni. È la presentazione della graphic novel “Le verità negate”, sulla strage di Bologna. Sul palco a moderare c’è l’editore Marco Carucci, che così introduce il dibattito, rivolgendosi alla deputata Frassinetti: «È un dato di fatto: ci sono ottantasei vittime, forse ottantasette, c’è una generazione ben precisa di ragazzi militanti, che in qualche maniera è comunque vittima di quel processo, di quelle sentenze. Ed è la generazione dei militanti della destra italiana, del Fronte della gioventù». La deputata meloniana annuisce, con lo sguardo torvo: «Paradossalmente, ripiombare in un clima da caccia alle streghe con una bomba, veramente creò dei disagi, perché quello che stavamo compiendo era proprio una marcia verso la vita, un voler dire la nostra in tanti settori, dalla grafica alle canzoni, all’ambiente, di grandi battaglie ambientali, per l’indipendenza nazionale». Il riferimento, tutt’altro che velato, è alle inchieste che scattarono poco dopo la strage di Bologna. “Disagi”, per la parlamentare. Fino a quel momento l’eversione nera non veniva vissuta dal Paese come un reale pericolo, anche grazie a servizi di sicurezza perlomeno distratti, sicuramente con i vertici legati alla P2 di Licio Gelli. Pochi giorni dopo l’esplosione della bomba vennero ripresi i filoni d’inchiesta del pm romano Mario Amato, ucciso tre settimane prima dell’attentato, dopo essere stato isolato, denunciato e minacciato all’interno degli stessi uffici giudiziari. Da quelle indagini presero il via diversi processi ai Nar, l’inchiesta sull’organizzazione Terza posizione, oltre a quella sulla stessa strage. Tutti i procedimenti si conclusero con pesanti condanne, stabilendo che quel mondo neofascista, radicato soprattutto a Roma, nel Veneto e a Milano – da dove proveniva Cavallini – al di là delle singole posizioni processuali era un magma eversivo. Un movimento che di “spontaneista” aveva ben poco, come già aveva intuito Amato, il giudice romano che poco prima di morire aveva spiegato al Csm l’esigenza di trovare «chi arma i ragazzini» dei Nar. L’intervento di Federico Mollicone annuncia quella che sarà la strategia del partito di Giorgia Meloni nei prossimi mesi sul tema. Il deputato di Fratelli d’Italia è il primo firmatario, insieme a Frassinetti, della proposta di legge per l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di Bologna. Nelle premesse ha una tesi: occorre seguire la pista della bomba di origine palestinese. Un’ipotesi questa già analizzata dalla Procura di Bologna, che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione per l’assoluta mancanza di indizi. Poco importa, lo scopo è creare il dubbio. A spiegare il senso dell’iniziativa, subito dopo l’intervento di Paola Frassinetti, è proprio Federico Mollicone: «In Italia ci sono i processi, ci sono le sentenze, ma molto spesso le sentenze sbagliano, basti citare il caso Tortora. Le sentenze molto spesso sono sentenze a tesi, per cui abbiamo la necessità di cercare come Parlamento… In Italia non esiste solo il potere giudiziario, non siamo nei Paesi arabi dove la legge è d’ispirazione religiosa». Che poi aggiunge, per rendere le cose ancora più chiare: «Prima o poi i magistrati dovranno rispondere, parlo in generale, noi siamo il potere legislativo e quindi ci esprimiamo attraverso o le commissioni d’inchiesta o gli atti parlamentari».

L’agenda della destra

È molto probabile che nella prossima legislatura, laddove dovesse conseguire un’ampia maggioranza parlamentare, la destra ripresenti quella proposta di legge per una commissione parlamentare d’inchiesta. Il rischio sarà quello di un corto circuito istituzionale. Nel 2023 inizieranno i processi d’appello per Gilberto Cavallini e Paolo Bellini; nel primo caso le difese, nei motivi di ricorso, hanno già annunciato di voler introdurre l’ipotesi palestinese. La strategia che si intravede è quella di non solo arrivare all’assoluzione dell’ex Nar Cavallini, ma di utilizzare questa fase processuale per costruire una eventuale revisione della sentenza definitiva nei confronti di Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Cavallini. Parallelamente in Parlamento potrà operare una commissione che avrà gli stessi poteri della magistratura, che potrà chiedere di visionare anche gli atti coperti da segreto d’indagine, sentire testimoni e acquisire documenti. D’altra parte la tesi palestinese è nata proprio all’interno di una commissione parlamentare, quella Impedian, meglio conosciuta come Mitrokhin. Durante i lavori vennero acquisite le liste dei terroristi legati a Ilich Ramírez Sánchez, meglio conosciuto come Carlos, estratti dagli archivi della polizia politica della Germania dell’Est, la Stasi. Tra questi vi erano Thomas Kram e Christa-Margot Frohlich. Il primo era sicuramente presente a Bologna il giorno dell’attentato, ma le indagini – e una relazione della stessa commissione parlamentare – hanno evidenziato la sua estraneità. Kram entrò in Italia utilizzando i suoi documenti ufficiali, con il suo reale nome, pur essendo un esperto falsificatore, fatto che non coincide con il profilo di un attentatore. Inoltre, secondo la documentazione dell’antiterrorismo tedesco, non sarebbe mai stato un elemento di grande spicco nel mondo dell’eversione. Christa-Margot Frohlich venne a sua volta indicata da un unico testimone come presente a Bologna, che l’avrebbe vista in un locale della capitale emiliana. Quella sala da ballo, però, aveva chiuso quattro anni prima e gli accertamenti successivi dimostrarono il profilo psicotico del teste. Le indagini dell’autorità giudiziaria francese – titolare dell’inchiesta su Carlos – hanno in ogni caso escluso ogni possibile collegamento tra il gruppo Carlos e la strage di Bologna. Gli stessi ufficiali della Stasi – che pedinavano e intercettavano l’organizzazione terroristica, hanno affermato di non aver trovato riferimenti o informazioni sull’attentato del 2 agosto 1980. Rimane sullo sfondo la questione del Lodo Moro, ovvero l’accordo che vi sarebbe stato tra l’Italia e i palestinesi per consentire il transito di armamenti nel nostro Paese; in cambio l’Olp e le altre organizzazioni si sarebbero impegnate ad evitare attentati in Italia. Secondo la tesi sposata dai parlamentari che chiedono una commissione d’inchiesta, il patto sarebbe stato violato quando, alla fine del 1979, ad Ortona vennero sequestrati dei missili destinati ai palestinesi. La strage del 2 agosto sarebbe una sorta di vendetta. Anche in questo caso i magistrati di Bologna nell’archiviazione di questa pista d’indagine hanno evidenziato la fragilità di questo argomento: pochi giorni prima della strage a Venezia venne firmato un accordo che riconosceva i diritti legittimi del popolo palestinese, con la mediazione proprio dell’Italia. Un atto in netta contraddizione con la tesi della vendetta arrivata dal Medio Oriente.

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