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Home » Politica

“Vogliono tappare la bocca a Report”: parla Sigfrido Ranucci

Immagine di copertina

Dopo i falsi dossier su fonti pagate, le false mail tra me e Casalino, le false accuse di essere Novax, ora arrivano le lettere anonime con le accuse di “bullismo sessuale in redazione e di servizi preconfezionati”.

S&D

Come salta fuori questo documento?
«A mettere il fango nel ventilatore sono stati ieri in commissione di vigilanza parlamentare gli “onorevoli” Davide Faraone di Italia Viva e Andrea Ruggeri di Forza Italia».
Cosa è accaduto in commissione?
«I due parlamentari hanno chiesto chiarezza sulla lettera anonima. Vorrei rassicurarli. Prima di loro è stato il sottoscritto a chiederla. Già l’estate scorsa appena preso atto dell’ennesimo dossier che mi riguardava ho presentato denuncia alla magistratura. Un luogo deputato per appurare la verità».
Curiosa la tempistica dei parlamentari.
«Già. Gli “onorevoli” invece l’hanno tenuto in un cassetto per mesi aspettando la giornata mondiale delle donne per pubblicarlo perché avesse maggiore diffusione. Così con lo scopo di colpire e infangare il sottoscritto e Report, hanno offeso quelle donne che la ricorrenza di questa giornata vuole tutelare. Si tratta di esemplari professioniste e di professionisti che lavorano da anni per Report perché hanno grandi qualità. Credo che il nobile esercizio della funzione di controllo da parte di un parlamentare dell’istituto della vigilanza, mai abbia toccato un livello così basso».
E adesso cosa succede?
«Il sottoscritto e la sua squadra reagiranno a questo attacco come hanno sempre fatto nella loro storia: attraverso il rigoroso lavoro che ha come unico editore di riferimento le cittadine e i cittadini che pagano il canone».

Sigfrido, raccontami la ricetta segreta di Report.
«Vuoi davvero saperlo?».
Certo.
«È meno avventurosa di come si immagina».
Perché?
«Il mio primo lavoro è quello di… “capo dell’ufficio legale” della trasmissione».
Scherzi?
«Neanche un po’. Guarda: il postino, che ha appena suonato, porta due nuovi atti giudiziari».
Una coincidenza?
«Mica tanto: ho ricevuto 175 tra cause civili e querele: 115 milioni di euro di richieste danni».
E le segui tu, personalmente?
«Certo. Sono un tentativo di intimidirci e imbavagliarci: logico che mi ci dedichi anima e corpo».
E riescono a intimidirvi?
(Sorriso). «Per nulla».

Ma non siete “coperti” dalla Rai?
«Per le spese legali. Ma se perdiamo, per dolo o negligenza, la Rai si rivale su di noi».
Perché siamo arrivati a questo?
(Sospiro). «Chi vuole impedirci di raccontare le verità più scomode, i conflitti di interesse, le speculazioni, usa i tribunali come campi di battaglia, e gli avvocati come soldatini contro di noi».
Quante cause hai perso?
(Sorriso. Pausa). «Tocco ferro. Nemmeno una».
Una su 175 non significherebbe la fine.
«Non ne sono sicuro».
Cosa intendi?
«Se Report ha da sempre uno stile giornalistico rigoroso».
Su 175 giudici potrà capitarne anche uno che vi ha sulle palle.
«Non per tre volte. Non in tre diversi gradi di giudizio: ho enorme fiducia nella magistratura. E finora, come vedi, è stata ben riposta».
Perché?
«Ho chiuso già 85 volte».
E se una volta perdessi?
(Ci pensa, mi guarda). «Forse sarebbe la fine di Report».

Una giornata a casa Ranucci, in una sobria villetta, a Pomezia. Arrivo di mattina, me ne vado che è buio. Ci sono i tre figli già grandi di Ranucci (Giordano, Michela, Emanuele), solari e appassionati (di fatto una redazione distaccata di Report). C’è sua moglie Marina, ironica e affettuosa. Tutti e quattro sfottono Sigfrido e le sue passioni («Dammi i 50 euro della scommessa che hai perso su Attilio Fontana», «Ti ha detto che fa anche il pittore in stile naïf?», «Passa giornate chiuso in camera sui copioni del programma, e da noi si fa portare the e caffè!»). Proprio mentre tutti lo bersagliano avverti l’amore incondizionato. Alle due Sigfrido guarda l’orologio, ed estrae un pentolone dalla credenza: «Ragazzi! preparo la mia pasta con il tonno buono!». Sorriso di Giordano: «Ti ha detto che è anche cuoco?». Ranucci è sotto scorta dopo decine di minacce di malavitosi, ex “clienti” delle sue inchieste (e ora c’è un progetto di omicidio, il più grave da un narcos), ma dice scaramantico: «Quando sei ufficialmente in un mirino è più difficile colpirti». I carabinieri controllano e segnalano le macchine che entrano nella strada di casa.

Dove sei nato?
«A Roma, nel meraviglioso quartiere Garbatella».
Un tempo molto popolare.
«Anche ora. Mia madre faceva l’insegnante, papà era in Guardia di Finanza».
La vena di inchiestista è sua?
«Pensa: da sottufficiale fu impegnato nelle indagini sullo scandalo Petroli. Un personaggio unico».
Cosa intendi?
«Basterebbe raccontare come è morto».
Come?
«Aveva metastasi alla colonna vertebrale, 12 centimetri di tumore e faceva tapis roulant».
Pazzesco.
«È cascato. Ha capito di essere alla fine, ha chiesto a mia madre una fune, l’ha fatta legare a una sedia perché facesse leva e si è tirato su da solo. Poi se n’è andato».
Non ci credo.
«In questo siamo simili. Se vogliono che crolli possono solo spararmi».
Quanti eravate in famiglia?
«Quattro maschi. Io il primo, il secondo è ragioniere. Il terzo è in Guardia di Finanza. Il quarto al Comune».

Dove hai studiato?
«Superiori al Borromini. Liceo molto vivace. Proprio di fronte c’era l’oratorio. Sono cattolico, e sono cresciuto fra questi due poli».
Eri amico del mitico Agostino Di Bartolomei, futuro capitano della Roma.
«Era già predestinato, da ragazzo: un vero capitano».
Cioè?
«Ascoltava ogni cosa e non parlava mai. Era carismatico. Tutti volevamo giocare con lui: vittoria era garantita».

E quando si è suicidato?
«Mi sono buttato sul letto e ho pianto. Un dolore che mi ha ammutolito».
Eri bravo a scuola?
«Al liceo, i primi anni, zoppicavo in matematica e inglese».
Esageri?
«Per nulla. All’università, invece, ho preso solo 30. Laurea in 110 e lode. Misteri della vita».
A chi devi il nome nibelungico?
«A mio nonno Sigfrido: suo padre era un grande appassionato di Wagner».

In cosa ti sei laureato?
«Storia della letteratura moderna e contemporanea tesi sperimentale su Tozzi».
E cosa pensavi di diventare?
«Un professore. Anzi, lo ero».
“Professor Ranucci”? Non ci si crede.
«Ho sempre avuto la passione per il racconto. Penso ancora di essere portato. Insegnavo letteratura, arrotondavo da maestro di tennis. Dettaglio che mi ha cambiato la vita».
Ma avevi già scritto per Paese Sera.
«Alcuni articoli: gratis perché non mi hanno mai pagato».
Quando?
(Ride). «Quattordici chili fa. Avevo vent’anni. L’ultimo pezzo fu anche la mia prima vera inchiesta».
Su cosa?
«L’Air Terminal per i Mondiali di calcio, mai aperto. Compravo tutti i giorni il quotidiano e lo sfogliavo senza vederlo pubblicato. Ci avevo messo una pietra sopra».
E invece?
«Un giorno, dopo due mesi, vedo un titolo a piena pagina “Il terminal della vergogna”».
Caratteri cubitali.
«E così penso: “Me l’hanno fregata!”. Invece era il mio articolo. Stavo per svenire dalla gioia, davanti all’edicola».

Ma non è Paese Sera che ti porta in Rai.
«Nooooh… è tutto molto più complicato».
Racconta.
«Davo lezioni di tennis alla segretaria di un parlamentare della commissione di Vigilanza Rai. Guadagnavo 8mila lire l’ora».
E lei?
«Improvvisamente, lasciata dal compagno, iniziò a venire tutti i giorni. Non la facevo più pagare».
Perché?
«Mi sentivo un mostro. Un giorno mi fa: “Sigfrido. Ti piacerebbe entrare in Rai?”».
Accetti.
«Secondo te rifiutavo? Entro come assistente al programma, per un mese. Poi mi rinnovano».
Alla signora hai fatto un monumento.
«Avrei voluto ma smise improvvisamente di venire. La cercai per ringraziarla. Scoprii che era morta».
Incredibile. Sembra un film.
«E non è finita. Pochi giorni dopo scoppiò la guerra in Iraq: mi rinnovarono di nuovo il contratto. E poi ancora. Ormai ero dentro. Lavoravamo giorno e notte».

Nella redazione del mitico Tg3 di Sandro Curzi.
«Ricordo che mi fece preparare una scheda di ricostruzione sulla guerra in Iraq. Fu molto apprezzata. Di fatto fu il mio primo lavoro da giornalista».
Cosa intendi per «giorno e notte»?
«Eravamo pochi, faticavamo con metà dell’organico a tenere il passo degli altri tg. Turni continui: si attrezzò persino una cucina negli studi del Tg3. Feci scuola lavorando gomito a gomito, di Franco Poggianti e Claudio Ferretti».
Aneddoto su Curzi.
«Uno vero. Era morta la Yourcenar, Poggianti in riunione dice: “Facciamo pezzo?”. Sandro non raccoglie. Lui insiste».
E Curzi?
«Ci regala uno dei suoi famosi sorrisi e dice: “Evvabbé! Famo pure pezzo su st’amica de Franco”».
Altri incontri Rai?
«Biscardi, mitico. Ci ho lavorato».
Come?
«Da precario avevo contratti per tutte le rubriche anche il meteo (Ride), anche quelle sportive».
Che dipendevano da Biscardi, che aveva il Processo. Programma cult.
«Lo ricordo che chiamava Luciano Moggi dalla redazione, molto serio: “Spara sugli arbitri, stasera”. Poi, in puntata, quando Moggi parlava si inalberava indignato: “Guesto lo dici tu!!!! io mi dissocioooo!”».
Ah ah ah. Ti definivi «malato della Roma».
«Lo sono ancora. Ma fatico a seguire come prima».
Hai conosciuto tua moglie Marina per caso.
«Ero in moto con il mio amico Aldo Murgia, al Gianicolo. Vedo due ragazze, mi fermo colpito dall’amica, Daniela».
Perché?
«Marina era in pantaloncini corti sembrava una bimba. Poi l’ho rivista “vestita da donna”, mi ha colpito».
E gli altri due amici?
«La ragazza è ancora una nostra amica. Aldo diventò un caso di cronaca, ucciso in una disputa per un parcheggio a Roma».
Folle.
«Ritorniamo agli esordi. Prima trasmissione: Domenica sul 3, dove c’era un giovane Andrea Salerno. Il bello è che andavamo in onda il lunedì».
E poi i programmi di sport.
«Telesogni, Anni azzurri. Finché non incontro Roberto Morrione».
Il tuo maestro a Rai International, l’antenato di Rainews24.
«Pensa com’è la vita. Ero precario, con figli, e nel 1994 stavo per essere assunto alla Tgs».
Come direbbe Zalone: «Un posto fisso» con i baffi.
«Dovevo solo firmare. Ma proprio quel giorno, quando vado, dai corridoi ascolto furtivamente una riunione di sommario in cui litigano furibondamente sul ginocchio di Baggio».
Hai firmato, spero.
«No. Mi sono chiesto “Che ci faccio qui?”. Qualche mese dopo lasciai il Tg3 per seguire Roberto Morrione a Rai International».
Apparentemente una follia. Soprattutto dal punto di vista della visibilità.
«Vero. Ma se non fossi andato a Rai International oggi non sarei a Report».
Era nato come un canale di marchette istituzionali.
«Io dicevo: per gente con disturbi del sonno».
E invece?
«Roberto lo trasforma in una cosa seria. E inizia facendomi fare inchieste».
Qui fai il tuo primo scoop. Ritrovi l’ultima intervista di Borsellino.
«Ero rimasto colpito da quel che era scritto nella requisitoria».
Dove si citava di questa intervista rilasciata nel 1992, a 48 ore dalla morte di Falcone: Borsellino raccontava di Mangano e di Berlusconi.
«La cercai a casa sua, e Fiammetta Borsellino me ne diede l’unica copia rimasta. Era inedita».
Come è possibile?
«L’avevano girata due registi francesi per Canale Plus. Che comprò quel documentario e poi non lo mandò in onda. Apparve nel 1994 anche in forma di intervista su L’Espresso. Ma la versione video non era mai stata trasmessa. Qualcuno dubitò della sua esistenza».

Ma guarda.
«Avevano ottimo rapporto con Mediaset. Ma nessuno pensò che loro ne avessero dato una copia a lui. Io sì».
E fu una bomba, me lo ricordo bene.
«Attenzione: noi la mandammo in integrale, a Rainews 24. Settembre 2000: non uscì nemmeno una riga».
Non ci credo.
«Poi Morrione a marzo 2001 andò ospite a Raggio Verde, da Michele Santoro, e – come è noto – Berlusconi si imbufalì».
L’inedito non esiste.
«Esatto. Marco Travaglio la pubblicò ne “L’odore dei soldi”».
Poi scoppiò la polemica.
«Berlusconi e l’avvocato di Dell’Utri provarono a screditarmi, dicendo che l’avevo manipolata».
E tu?
«Non avevo toccato un fotogramma. Lasciai la copia originale a Fiammetta, un’altra la consegnai a Tescaroli, pm a Caltanissetta. E una terza a Ingroia».
E come andò a finire?
«Berlusconi aveva appena rivinto. Si aprirono procedimenti giudiziari contro di me. Nel Cda Rai chiesero il mio licenziamento. La cassetta sparì da tribunale di Caltanissetta».
Che combinazione.
(Sospira). «Ma la copia data a Fiammetta mi salvó le chiappe».
Riesci a salvare l’onore. Ed eri stato pure assunto da poco.
«Con il primo contratto depotenziato dopo la legge Treu. Ma mi sono sentito sempre protetto da  Morrione: mi ha dato sempre grande libertà. Nel 2005 riesco a fare una inchiesta sul fosforo bianco a Falluja. Gli Usa che in quel momento erano i gendarmi del mondo».

Ma come ti viene l’idea?
«Guardando quelle immagini in moviola. La pelle staccata. Cadaveri senza segni di arma…».
Eri un “Not embedded”.
«Con orgoglio. Non avevo nemmeno un operatore, giravo solo, con la mia telecamerina. La prima volta per un inviato Rai».
Cosa ti sosteneva?
«Un punto di vista forte. Essendo un agente chimico, il fosforo era vietato. Gli americani fecero la guerra a Saddam per armi chimiche che non aveva. E poi le usarono loro. Vinsi per la terza volta consecutiva il Premio Ilaria Alpi».
Sei il giornalista più premiato della storia Rai.
(Ride). «Forse come dipendente sì. Di sicuro il più querelato».
Eri “diverso” sia nella forma che nel contenuto.
«È per quell’inchiesta sul fosforo, che aveva fatto il giro del mondo, che mi chiama la Gabanelli».
E tu rinunci ad un remunerato posto in testata giornalistica per passare alla rete, per Report.
«Ero in bagno, telefonino che squilla: “Ciao sono Milena. Facciamo due chiacchiere?”».

L’avevi mai vista?
«Una volta per intervistarla. Solo una come lei poteva chiamarmi senza conoscermi e affidarmi l’apertura della stagione 2006 su Telecom».
E come ti sentivi?
«Come uno che arriva dalla Cavese ed esordisce in Champions contro il Real Madrid».
Il Real Telecom?
«Ti dico solo questo. Ci chiama un avvocato che in precedenza aveva difeso Milena, prima della puntata: “Sto qui con il dottor Tronchetti, stasera vediamo la puntata con 12 avvocati”».
Ma non difendeva voi?
«Quando glielo ricordiamo ci risponde: “Io difendo voi, ma il dottore paga meglio della Rai”».
Era il tuo primo Report!
«Io non ci dormivo la notte. Milena quando lo vide mi disse: “Servizio molto bello, ma non ci ho capito un cazzo”».
Ah ah ah. Però fu un trionfo.
«Fece il 14 per cento di share».
Diventi l’uomo macchina della Gaba.
«La grande scuola di Milena. E poi Report è una macchina da guerra: riceviamo 75mila segnalazioni l’anno. E le leggiamo tutte».
Tutte?
«Quattro persone le filtrano a 6mila. Quelle le leggo io».
E cosa c’è?
«Tutto. Dalle liti condominiali alle cose più disparate e utili. E poi dopo una trasmissione accade di tutto».
Ad esempio?
«Ci telefona un signore dopo un’inchiesta di Mondani: “Nell’intervista a Baraldi nello studio che fu di Cragnotti c’è un quadro: è stato rubato a me”. Ed era vero!».
Avete sempre l’inquadratura con la telecamerina bassa, molto accusatoria. Il marchio della ditta.
«È nata per via delle economie. Se giri da solo puoi fare solo cosi. Ora è un segno distintivo della linea editoriale».

Raccontami la storia più folle del tuo Report.
«Senza dubbio questa. Intuizione di Milena: “Fai di nuovo Parmalat”. Ci vado, ma non trovo grandi novità».
E poi?
«Mentre sto tornando in redazione il tassista ascolta il mio resoconto su Tanzi a lei».
E che succede?
«Che il tassista aspetta che finisca la telefonata e mi dice: “Voi su Tanzi non l’avete raccontate tutte”. Ferma il motore e mi fa: “Lui ha quadri del valore di centinaia di milioni e li ha portati in Svizzera”».
E tu?
«Gli chiedo: “Lei che ne sa?”. E lui, imperturbabile: “Ero la guardia del corpo di Tanzi, li ho scortati io al confine”».
Fantastico.
«Mi dà una pista. Torno a leggere i rapporti della Finanza. Raccontavano gli aloni sui muri della villa di Tanzi. Trovo una critica d’arte che aveva visto i quadri. Chiedo a Tanzi, lui smentisce. Ma vado in onda ugualmente. Il giorno dopo mi chiama imbufalito un elettricista di Viareggio. Era il mediatore che dieci anni dopo stava cercando di venderli ai russi e a un cardinale».
Inverosimile.
«Eppure io gli credo. Vado a beccarlo, con una videocamera nascosta».
E l’elettricista?
«Prima mi mostra il catalogo dei quadri di Tanzi, poi si incazza, dice che gli rovino l’affare. Mi punta una pistola alla testa e mi dice: “Fatti gli affari tuoi”. Tutto filmato».
Era vero, dunque?
«Sì. Li stava vendendo per il genero di Tanzi».
Mandi in onda tutto?
«No, è la scelta più drammatica: rinuncio a uno scoop per portare tutto alla Finanza e recuperare i quadri e dunque soldi per gli azionisti».
E poi?
«In 24 ore lo arrestano. I pm dicono: Report ha fatto recuperare quadri per 100 milioni».
E invece?
«Salta fuori un critico che al Tg1 dice: “Non valgono così tanto”».
Amico di Tanzi?
«Esatto. Ma altro colpo di scena un fotografo, fan di Report ci manda delle foto con Tanzi e i due che uscivano insieme da un capannone con i quadri avvolti in una coperta. Arrestarono pure lui».
Rinunciavi ad uno scoop e ne facevi un altro. E oggi?
«Durante la pandemia ci siamo salvati per la nostra disciplina militare».

Perché?
«Una premonizione. Ero stato appena premiato per le mie inchieste. Tornavo da Pavia, a pochi chilometri da Codogno, prima che diventasse zona rossa: mi raccontano di contagi a raffica in un posto in cui ero il giorno prima. Di polmoniti anomale».
E come capisci?
«Sull’autostrada mi viene un flash: l’avevo già visto a Sumatra».
E così?
«Butto tutto, cancello le puntate già impostate. Acquisto guanti e mascherine, disinfettanti e mi organizzo per fare i tamponi per la mia squadra. Scrivo un protocollo: mai gli inviati in contatto con i montaggi».
E poi?
«Facciamo la nuova prima puntata sul piano pandemico. Devo dire grazie ai miei inviati che hanno messo a repentaglio la loro salute e quella dei loro cari. Non hanno mai smesso di girare nelle zone più contagiate per un solo minuto».
Anche tu hai un’organizzazione “militare”: cosa intendi?
«In condizioni normali, quando lavoro alle puntate, esco da casa alle cinque, alle quattro, anche alle tre e mezza. Rileggo e rilavoro tutto il copione della puntata ben cinque volte. Poi ho i colleghi della redazione che controllano tutto il materiale in entrata, in confezionamento e in uscita. Eccezionali».

Addirittura?
«Io stesso lo passo ai raggi X segnandolo. Colore rosso: taglio.Verde: rifacimento di testi, di tono o spostamento. Viola il mio insert di studio».
Un matto.
(Mi mostra il portatile con le correzioni a colori). «Guarda, questa è l’ultima puntata. Anche se parli delle nocciole del viterbese, sai già che avrai di fronte la Ferrero».
Ma il sabato registri e finisci.
«Scherzi? Me la rivedo alle sei del mattino domenica. Gli ultimi due giri di valzer, il primo senza testi, da telespettatore, per capire cosa non funziona, poi la seconda volta correggo. L’ultimo giro uso anche il celeste, sono le ultime indicazioni ai montatori».
Perché?
«Quando tutto è digerito, posso pensare al ritmo. Il lunedì ci giochiamo tutto in un quarto d’ora. Il grosso del nostro pubblico viene dalla Gruber. Dobbiamo agganciarlo subito».
Tosto il lunedì.
(Ride). «Forse mettendoci lì pensavano che crepassimo. Gli è andata male».
Addirittura.
«Sarebbero stati contenti tanti».
Puoi racontare la tua verità sull’interrogazione denunciata da Nobili dopo la vostra inchiesta su Renzi e il suo incontro in autogrill con lo 007 Mancini?
«Una odiosa patacca. Noi avevamo fatto lo scoop su Renzi che vede in autogrill Mancini, ufficiale dei servizi segreti».
Lui dice che lo avevate fatto pedinare.
«Una fesseria. Era una delle nostre segnalazioni, un’insegnante che aveva filmato tutto».
E come scopri il dossier patacca?
«Nel dossier alla base dell’interrogazione si denunciava il pagamento per 45mila euro attraverso una società lussemburghese di una fonte che ci aveva aiutato a fare un’inchiesta sulla gestione dei dossier Alitalia e Piaggio Aerospace. E si raccontava di mail tra me e Casalino, allora portavoce del premier Conte. Tutto falso. Quello che è inquietante, alla luce di quello che è emerso oggi dalle carte su Open, è che l’unica informazione vera del dossier era il nome della nostra fonte».

Come faceva Nobili a saperlo?
«Esatto. Per fortuna a febbraio mi aveva avvisato il vicedirettore di un giornale di destra: “Dentro ci sono delle tue mail con Casalino. I bonifici dei soldi con cui avreste pagato. Ma è una patacca evidente”».
È stata utile la soffiata?
«Oh, sì. Era tutto falso. Ho avuto il tempo di realizzare una controinchiesta e smontare balla su balla».
Scopristi che era già arrivato anche sul tavolo di Minzolini.
«Grazie a un tweet, scoprii che Italia Viva ne era a conoscenza almeno già dal 28 febbraio. Perché il fuoco congiunto dei renziani, i comunicati di Nobili, la sua interrogazione sul dossier, arrivano solo il giorno in cui mandiamo in onda l’inchiesta sull’incontro tra Mancini e Renzi in autogrill?».
E come è finita?
«Non so che fine abbia fatto l’interrogazione».
Hai avuto altri dossieraggi su di te?
«Uhhh… uno a sfondo sessuale. Uno l’aveva preparato anche Tosi. Va di moda far seguire i giornalisti per screditarli».

Ma perché ora la scorta?
«La polizia mi ha detto che hanno raccolto la testimonianza di un progetto omicida programmato in carcere da un signore del narcotraffico».
Come si vive?
(Sguardo). «In un’unico modo: concentrandosi solo sul lavoro».
E sui vaccini?
«Quattro parlamentari di Italia Viva, Pd e Forza Italia hanno attaccato la nostra puntata dandomi del no vax senza nemmeno vederla!».
Cosa rispondi nel merito dell’accusa?
«Sono un giornalista e sono da sempre a favore dei vaccini. Ma questo non mi può impedire di raccontare gli errori fatti nella gestione della pandemia».
Ad esempio?
«Sulle reazioni avverse di AstraZeneca. Da metà marzo sapevano di casi di trombosi associate a trombocitipenia, tra i giovani. Se poi invece fanno gli open day a partire dagli over 18, e sono costretti a buttare un vaccino prezioso per gli over 60 è colpa nostra?».
Continua.
«Ora 200 milioni di dosi di AstraZeneca comprate le doneremo agli africani. Noi ci liberiamo di un problema, perché nessuno le vuole più e là sarà un’opportunità, perché non hanno alternative. Ma almeno in questo falso atto di generosità formiamo i loro medici per evitare morti».
Ti danno del No vax.
«Cazzate. Per partire in contesti di guerra mi sono iniettato nel sangue otto vaccini in un’ora».
Chiudiamo con la perla delle perle.
«Scoprimmo che alcune telecamere cinesi, le Hikvision, si connettevano con la Cina per trasmettere dati sensibili».

E dove erano?
«Ovunque. Poco prima della puntata scopriamo che erano anche in Rai».
E che fate?
«Informiamo l’azienda che tempestivamente provvede a metterle in sicurezza».
Ma il meglio deve ancora arrivare.
«Durante l’inchiesta scopriamo che sono anche a Palazzo Chigi e nei palazzi dei nostri servizi di sicurezza».
Non ci credo. Le hanno tolte?
(Pausa). «Spero e credo di sì».

L’intervista è stata pubblicata nel numero 10 del settimanale The Post Internazionale, in edicola venerdì 19 novembre

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