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Altro che “divanisti”, il Reddito di cittadinanza sarà tolto anche a chi lavora

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Il Governo Meloni toglie il Rdc a chi è occupabile. Così però perderanno il sussidio anche quei percettori che un impiego ce l’hanno già (ma con salari da fame)

Nella guerra ai poveri dichiarata dal Governo Meloni c’è un particolare sottoinsieme di vittime che rischia di essere doppiamente beffato: quello di chi un lavoro ce l’ha, ma viene pagato talmente poco da avere comunque diritto al Reddito di cittadinanza.

S&D

Queste persone si vedranno tolto il sussidio pur essendo palesemente estranee alla categoria dei «divanisti» additata di indolenza dalla narrazione della destra. Dunque non solo perderanno l’assegno integrativo che consente loro di arrivare a fine mese (prima beffa), ma lo perderanno in virtù di un’offensiva contro una classe antropologica – quella dei «fannulloni» – alla quale nemmeno possono essere accusati di appartenere (e qui sta la seconda beffa). 

«Per chi è in grado di lavorare la soluzione non è il Reddito di cittadinanza, ma il lavoro», non perde occasione di rimarcare la presidente del Consiglio Meloni.

Nella sua prima manovra finanziaria il Governo ha gettato le basi per l’abolizione dell’assegno contro la povertà introdotto solo tre anni fa dal Movimento 5 Stelle: a partire da settembre 2023 saranno estromessi dal Rdc gli «occupabili», ossia coloro che sono potenzialmente in grado di lavorare.

Ma nel fuoco di fila contro «quelli che preferiscono starsene sul divano anziché cercarsi un lavoro» finiranno impallinate anche persone che un’occupazione ce l’hanno (solo che prendono un stipendio talmente basso, o sono impiegati con contratti talmente precari, che rientrano fra gli indigenti).

Di quanti individui stiamo parlando? Fare una stima non è semplice. L’ultimo bollettino dell’Anpal scatta una fotografia al 30 giugno scorso: i percettori del Reddito “indirizzati ai servizi per il lavoro” (dunque occupabili) erano 833mila; di questi, circa 173mila (il 20,7%) risultavano occupati, la maggior parte dei quali con un contratto a tempo indeterminato (ma fra gli under 30 prevalgono i contratti a termine).

Numeri diversi emergono dal Rapporto annuale dell’Inps, che guarda all’intero 2021: qui la platea di partenza è costituita dai “percettori stabili” del Rdc, ossia coloro che hanno ricevuto l’assegno per almeno undici mensilità su dodici indipendentemente dalla loro abilità al lavoro.

Ebbene, su 2 milioni di “percettori stabili”, sono 393mila quelli che nel corso dell’anno passato hanno lavorato almeno una settimana: cioè uno su cinque. Si tratta in prevalenza di dipendenti del settore privato con contratti a tempo determinato (in molti casi stagionali del settore ristorazione) che guadagnano in media la miseria di 6mila euro lordi in un anno e che dunque, almeno per ora, hanno diritto al sostegno pubblico. 

Questi lavoratori poveri svelano la falsa equivalenza “percettore di Rdc uguale disoccupato senza voglia di lavorare mantenuto dallo Stato”. Perché oggi non basta avere un’occupazione per riuscire a galleggiare sopra la soglia di povertà.

E ciò è particolarmente vero in Italia, l’unico Paese dell’area Ocse dove tra il 1990 e il 2020 i salari sono diminuiti (del 2,9%) anziché aumentare (in Germania e Francia, ma anche in Grecia, nello stesso periodo di tempo le buste paga sono cresciute del 30%).

L’esito che ne consegue è che secondo i più recenti dati di Eurostat figuriamo al quarto posto in Europa per percentuale di “working poor”, ossia lavoratori a rischio povertà: da noi sono l’11,7% degli occupati; solo in Romania, Lussemburgo e Spagna va peggio, mentre la media Ue è dell’8,9%.

Colpa anche di quella sterminata giungla di contratti atipici che negli ultimi vent’anni hanno precarizzato in misura spinta il mercato del lavoro italiano: la povertà lavorativa, sottolinea l’Inps nel suo Rapporto annuale, «è il risultato di un processo che va oltre il salario e riguarda i tempi di lavoro (ovvero quante ore si lavora abitualmente a settimana e quante settimane si è occupati nel corso di un anno) e la composizione familiare (e in particolare quante persone percepiscono un reddito all’interno del nucleo), oltre che l’azione redistributiva dello Stato».

Sono 1,9 milioni le famiglie italiane in cui l’unico componente occupato è un lavoratore “non-standard”, cioè a tempo determinato o collaboratore o in regime di part-time involontario: questi occupati “vulnerabili” (così li definisce l’Istat) sono ormai quasi 5 milioni nel nostro Paese, pari a un quinto del totale degli occupati; e quasi la metà dei dipendenti a termine ha un’occupazione di durata pari o inferiore ai sei mesi. Se a tutto questo aggiungiamo, adesso, anche l’inflazione che galoppa a due cifre, la miscela diventa esplosiva.

In un rapporto diffuso la scorsa settimana, intitolato “I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia”, il Forum Disuguaglianze e Diversità sottolinea come «i redditi da lavoro sono diventati più diseguali, passando da un indice di Gini pari a 36,6 punti nel 1990 al valore di 44,7 nel 2017» (l’indice di Gini è un coefficiente che misura statisticamente i livelli di disuguaglianza).

Nello stesso arco temporale la soglia sotto alla quale si può parlare di salari “bassi” – ossia inferiori al 60% della mediana delle retribuzioni – si è abbassata dell’8%: dagli 11.673 euro annui del 1990 ai 10.919 del 2017. In altre parole, i salari bassi sono diventati ancora più bassi.

E di pari passo la quota di lavoratori che ricevono buste paga sotto quella soglia è aumentata: dal 25,9 al 32,2%. Significa che, fatto 100 il salario medio in Italia, un occupato su tre prende meno di 60.

Il quadro è diverso a seconda del settore: nei ristoranti e negli alberghi, ad esempio, è addirittura il 64,2% dei lavoratori a dover fare i conti con salari bassi; nei servizi il 45,9%, nel comparto immobiliare il 41,7%, nella Pubblica Amministrazione il 42,3%, nella Sanità e nell’Istruzione il 35%.

Negli ultimi tre anni centinaia di migliaia di lavoratori poveri hanno ricevuto ossigeno vitale grazie al Reddito di cittadinanza. Ma fra meno di un anno, quando entreranno in vigore le nuove regole decise dalla destra, queste persone dovranno arrangiarsi da sole con le loro paghe da fame e saltuarie.

E dire che il centrosinistra – che ha espresso ben quattro degli ultimi sei ministri del Lavoro e delle Politiche sociali – ha avuto dieci anni di tempo per introdurre un salario minimo legale, ma non l’ha fatto. Un’altra beffa, per i working poor italiani.

LEGGI ANCHE: Noi europei non sappiamo più chi siamo e per questo ci vendiamo al miglior offerente (di G. Gambino)

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