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Home » Politica

Quanto guadagna Mario Draghi: stipendio e patrimonio dell’ex presidente della Bce

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Quanto guadagna Mario Draghi: stipendio e patrimonio

Quanto guadagna Mario Draghi, il possibile nuovo premier italiano chiamato dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al Quirinale? Nel 2017, quando Draghi era presidente della Bce, una delle banche centrali più potenti al mondo, secondo Money.it, è arrivato a guadagnare 389.000 euro all’anno. Questo significa che, al mese, Mario Draghi percepiva uno stipendio di quasi 32.500 euro. Mario Draghi da Presidente del Consiglio italiano dovrebbe percepire 80.000 euro all’anno netti, per uno stipendio mensile di 6.700 euro. Una paga niente male, anche se paradossalmente è inferiore rispetto a quella dei semplici deputati o senatori.

Le ville a Lavinio e in Umbria

Riservato e sempre lontano dai riflettori quando si tratta della sua vita privata, Mario Draghi sembra essere una di quelle persone schive a cui non piace essere al centro dell’attenzione. Con la una villa a Lavinio, località di vacanza nella provincia di Roma, Mario Draghi è stato spesso avvistato senza auto blu ed in tenuta normale se non sportiva. Uno dei posti del cuore di Mario Draghi (di cui sopra abbiamo visto quanto guadagna), oltre a Lavinio, è Città della Pieve, in Umbria, dove ha una villa che di recente ha subito alcuni danni a causa di un incendio.

Biografia

Nato il 3 settembre 1947 Mario Draghi è il primo di tre figli. “A 15 anni ha perso il padre, Carlo” scrive Aldo Cazzullo. “Poco dopo è mancata anche la madre. Draghi ha dovuto fare il capofamiglia”. Dopo aver frequentato un liceo gesuita nella capitale (il famoso “Massimo”), si iscrive alla Sapienza di Roma, laureandosi in Economia nel 1970 con una tesi su Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio. In quest’occasione, Draghi persuade Franco Modigliani, futuro premio Nobel, ad ammetterlo ai corsi di dottorato del Massachussetts Institute of Technology. Nel 1971, Draghi entra al Mit, dove si specializza in teoria economica. Nel frattempo, nel 1973 sposa Maria Serenella Cappello, discendente della Bianca Cappello moglie di Francesco de’ Medici. Da lei ha due figli: Federica, esperta di biotecnologie, e Giacomo, trader in Morgan Stanley.

Al rientro dall’America, Draghi diventa professore di Politica a Trento, di Macroeconomia a Padova e di Economia matematica a Venezia, mantenendo la promessa fatta all’amico Federico Caffè che non avrebbe fatto altro che il professore universitario. Ma solo due anni dopo aver cominciato a insegnare a Firenze, è nominato consigliere di Giovanni Goria, ministro del Tesoro nel primo governo Craxi. Dal 1991 al 2001, ricopre la posizione di Direttore Generale del Ministero del Tesoro, ruolo in cui viene riconfermato fino al secondo governo Berlusconi.

Dieci lunghi anni che Draghi definirà “drammatici” ma anche “indimenticabili”. In questo ruolo, diventa conosciuto come l’uomo delle privatizzazioni delle principali società dello Stato italiano: IRI, Eni, Enel, Telecom, Credit e altre. Nel 1992, prima di dare il via alla vendita delle società pubbliche, l’ultimo dei “Ciampi Boys” sale sul panfilo della regina Elisabetta in compagnia della comunità finanziaria mondiale, dando adito a non poche opposizioni.

Nel 1991, e poi ancora tra il 1998 e il 2001, Draghi presiede la gestione della SACE, di cui cura la trasformazione in ente pubblico economico. Lasciato il Tesoro, nel 2002 viene nominato Vice Chairman e Managing Director della Goldman Sachs, quarta banca al mondo, e dal 2004 al 2005 ne diviene membro del Comitato esecutivo.

Il 29 dicembre 2005, Draghi viene eletto governatore della Banca d’Italia. Il 16 maggio 2011, viene approvata la candidatura di Draghi alla presidenza della Bce, nonostante l’approvazione definitiva risalga al 24 giugno. Il 1 novembre, Draghi diventa il primo italiano alla presidenza della Bce. Il mandato di Draghi come presidente della Bce terminerà il 31 ottobre 2019, quando il titolo passerà alla francese neoeletta Christine Lagarde.

Il primo discorso di Mario Draghi al Parlamento

Il 17 febbraio 2021, il presidente del Consiglio Mario Draghi ha tenuto il suo primo discorso al Senato in occasione del voto di fiducia al suo governo. Di seguito, alcuni dei passaggi più importanti del suo discorso (qui il testo integrale).

Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Una trincea dove combattiamo tutti insieme. Il virus è nemico di tutti. Ed è nel commosso ricordo di chi non c’è più che cresce il nostro impegno.

Prima di illustrarvi il mio programma, vorrei rivolgere un altro pensiero, partecipato e solidale, a tutti coloro che soffrono per la crisi economica che la pandemia ha scatenato, a coloro che lavorano nelle attività più colpite o fermate per motivi sanitari. Conosciamo le loro ragioni, siamo consci del loro enorme sacrificio e li ringraziamo. Ci impegniamo a fare di tutto perché possano tornare, nel più breve tempo possibile, nel riconoscimento dei loro diritti, alla normalità delle loro occupazioni. Ci impegniamo a informare i cittadini con sufficiente anticipo, per quanto compatibile con la rapida evoluzione della pandemia, di ogni cambiamento nelle regole.

Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo. Siamo consci dell’insegnamento di Cavour:”… le riforme compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano”. Ma nel frattempo dobbiamo occuparci di chi soffre adesso, di chi oggi perde il lavoro o è costretto a chiudere la propria attività.

Nel ringraziare, ancora una volta il presidente della Repubblica per l’onore dell’incarico che mi è stato assegnato, vorrei dirvi che non vi è mai stato, nella mia lunga vita professionale, un momento di emozione così intensa e di responsabilità così ampia. Ringrazio altresì il mio predecessore Giuseppe Conte che ha affrontato una situazione di emergenza sanitaria ed economica come mai era accaduto dall’Unità d’Italia.

Si è discusso molto sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dispensato una varietà infinita di formule. Nel rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il corretto funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, specialmente in una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo, è semplicemente il governo del Paese. Non ha bisogno di alcun aggettivo che lo definisca.

Riassume la volontà, la consapevolezza, il senso di responsabilità delle forze politiche che lo sostengono alle quali è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti, dei propri elettori come degli elettori di altri schieramenti, anche dell’opposizione, dei cittadini italiani tutti. Questo è lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza raccogliendo l’alta indicazione del capo dello Stato.

La crescita di un’economia di un Paese non scaturisce solo da fattori economici. Dipende dalle istituzioni, dalla fiducia dei cittadini verso di esse, dalla condivisione di valori e di speranze. Gli stessi fattori determinano il progresso di un Paese.

Si è detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Mi sia consentito di non essere d’accordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità ma semmai, in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione, ne fa uno avanti nel rispondere alle necessità del Paese, nell’avvicinarsi ai problemi quotidiani delle famiglie e delle imprese che ben sanno quando è il momento di lavorare insieme, senza pregiudizi e rivalità.

Nei momenti più difficili della nostra storia, l’espressione più alta e nobile della politica si è tradotta in scelte coraggiose, in visioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili. Perché prima di ogni nostra appartenenza, viene il dovere della cittadinanza.

Siamo cittadini di un Paese che ci chiede di fare tutto il possibile, senza perdere tempo, senza lesinare anche il più piccolo sforzo, per combattere la pandemia e contrastare la crisi economica. E noi oggi, politici e tecnici che formano questo nuovo esecutivo siamo tutti semplicemente cittadini italiani, onorati di servire il proprio Paese, tutti ugualmente consapevoli del compito che ci è stato affidato.

Questo è lo spirito repubblicano del mio governo. La durata dei governi in Italia è stata mediamente breve ma ciò non ha impedito, in momenti anche drammatici della vita della nazione, di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e nipoti. Conta la qualità delle decisioni, conta il coraggio delle visioni, non contano i giorni. Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo.

Oggi noi abbiamo, come accadde ai governi dell’immediato Dopoguerra, la possibilità, o meglio la responsabilità, di avviare una Nuova Ricostruzione. L’Italia si risollevò dal disastro della Seconda Guerra Mondiale con orgoglio e determinazione e mise le basi del miracolo economico grazie a investimenti e lavoro. Ma soprattutto grazie alla convinzione che il futuro delle generazioni successive sarebbe stato migliore per tutti.

Nella fiducia reciproca, nella fratellanza nazionale, nel perseguimento di un riscatto civico e morale. A quella Ricostruzione collaborarono forze politiche ideologicamente lontane se non contrapposte. Sono certo che anche a questa Nuova Ricostruzione nessuno farà mancare, nella distinzione di ruoli e identità, il proprio apporto. Questa è la nostra missione di italiani: consegnare un Paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti.

Spesso mi sono chiesto se noi, e mi riferisco prima di tutto alla mia generazione, abbiamo fatto e stiamo facendo per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura. È una domanda che ci dobbiamo porre quando non facciamo tutto il necessario per promuovere al meglio il capitale umano, la formazione, la scuola, l’università e la cultura. Una domanda alla quale dobbiamo dare risposte concrete e urgenti quando deludiamo i nostri giovani costringendoli ad emigrare da un paese che troppo spesso non sa valutare il merito e non ha ancora realizzato una effettiva parità di genere.

Una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti. Esprimo davanti a voi, che siete i rappresentanti eletti degli italiani, l’auspicio che il desiderio e la necessità di costruire un futuro migliore orientino saggiamente le nostre decisioni. Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.

Questo governo nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori.

Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa.

Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza. Dobbiamo essere orgogliosi del contributo italiano alla crescita e allo sviluppo dell’Unione europea. Senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere.

Siamo una grande potenza economica e culturale. Mi sono sempre stupito e un po’ addolorato in questi anni, nel notare come spesso il giudizio degli altri sul nostro Paese sia migliore del nostro. Dobbiamo essere più orgogliosi, più giusti e più generosi nei confronti del nostro Paese. E riconoscere i tanti primati, la profonda ricchezza del nostro capitale sociale, del nostro volontariato, che altri ci invidiano.

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