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Dallo streaming alle cene segrete con Zingaretti: 10 cose che il M5S ha cambiato in 10 anni

Immagine di copertina
Il capo politico del M5S Luigi Di Maio e il fondatore Beppe Grillo

M5S, 10 anni di vita

C’era una volta il partito che non andava in tv e parlava solo via social network, che non si sarebbe mai alleato con nessuno, che non avrebbe ceduto di un millimetro su battaglie fondanti.

La storia del M5S è senza dubbio la storia di un successo politico, di un movimento sottovalutato e bistrattato da osservatori e avversari che riesce, anche con una straordinaria partecipazione dal basso, a diventare forza nazionale e a dettare l’agenda di un Paese. Ma – piaccia o no – è anche la storia di un movimento che, nella rapida ascesa verso il potere ha visto, altrettanto rapidamente, cadere i paletti che aveva posto come caratterizzanti della sua organizzazione, del suo metodo, della sua narrazione.

In questi giorni il Movimento 5 Stelle festeggia 10 anni di vita e lo fa con un evento, a Napoli, che vede protagonisti insieme al capo politico e al fondatore perfino un presidente del Consiglio. Si respirerà forse aria di potere, prestigio, appagamento per la strada percorsa. Ma non potrà certamente mancare una riflessione su quanto il M5S sia cambiato dai tempi in cui Beppe Grillo riempiva le piazze nei Vaffa Day o crescevano i primi gruppi di attivisti grazie ai MeetUp.

10 cose che sono cambiate

Erano davvero altri tempi, quelli passati. C’era il no ai talk show, ad esempio. “La tv non è un posto libero dove si va e si dice quel che si vuole”, diceva nel 2014 Grillo rispondendo a una petizione degli attivisti che chiedevano la partecipazione del Movimento alle trasmissioni del piccolo schermo. In televisione – spiegava il comico – “non decidiamo noi di cosa parlare, ma lo decide il conduttore e se il conduttore vuole che rispondiamo su scontrini o altre scempiaggini, non possiamo parlare di altro”. Ora quello televisivo sembra essere diventato uno strumento imprescindibile della comunicazione M5S, della sua propaganda. E il nuovo capo politico Luigi Di Maio non teme le lunghe interviste in prima serata.

Ma c’era una volta anche lo streaming. Nel 2013 il Movimento disse no all’intesa di governo con il Pd proprio in diretta web, nel faccia a faccia tra i capigruppo Roberta Lombardi e Vito Crimi e il segretario e vicesegretario Dem, Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta. L’anno successivo finirono in scontro le consultazioni di Matteo Renzi con Grillo e Di Maio. Simili trasmissioni sono mancate sia nella formazione del governo con la Lega, nel 2018, che con il Pd, nel 2019.

L’ultimo cambio di passo di rilievo è arrivato anche sulle alleanze. “Mai accordi con i partiti”, “Sempre da soli”, sono messaggi ripetuti per anni dai vertici M5S. Anche prima delle elezioni politiche del 2018 veniva negata la possibilità d’intesa sia con la Lega che con il Partito Democratico. “Presenteremo le nostre proposte, dovranno assumersi la responsabilità di non votarle in Parlamento”, era questo il senso del ragionamento del candidato premier Di Maio a chi gli chiedeva con chi si sarebbe accordato.

Dopo il voto tutto è stato aggirato grazie all’escamotage del “contratto di governo”, che è stato presentato come un modo per anteporre le proposte programmatiche ai simboli dei partiti e ai nomi dei leader. È quindi arrivata l’intesa con Matteo Salvini. Poi quella con i Dem. E perfino quella elettorale. Alle elezioni regionali in Umbria del 27 ottobre prossimo il simbolo delle 5 Stelle sarà sulla scheda in coalizione proprio con il Pd.

Contemporaneamente a quella sulle alleanze, è inevitabilmente arrivata pure la svolta sulla lista dei ministri. “Questo è un governo alla luce del sole, dei cittadini. Noi non vogliamo distribuire poltrone, presentiamo una squadra prima perché vogliamo mettere le persone giuste al posto giusto”, diceva ancora Di Maio presentando la sua lista prima delle Politiche 2018. Qualche mese più tardi la squadra sarebbe stata poi definitiva con Salvini.

Un altro significativo passo indietro il Movimento lo ha compiuto sulle battaglie storiche. Una volta arrivato al governo il M5S ha abbandonato le posizioni radicali sulle grandi opere. Il sì al Tap e alla Tav ad esempio. Ci sono “contratti gas che prevedono risarcimenti che partono da 20 miliardi. Di fronte a questi costi, siamo costretti a fermarci”, ha detto la ministra per il Sud Barbara Lezzi. “È il Parlamento a doversi esprimere”, sono state le parole di Di Maio sulla Torino-Lione da ministro di Lavoro e Sviluppo Economico.

Grandi battaglie e grandi temi. Come la giustizia. Il Movimento mantiene la linea più marcatamente giustizialista del Parlamento quando si parla di riforme e codice penale. Ma ha limitato quella sua impronta manettara che pure gli aveva consentito di accelerare l’ascesa, con gli attacchi ai partiti tradizionali venivano travolti da inchieste giudiziarie. Il momento della svolta in questo caso è il marzo 2019, quando i pentastellati al Senato hanno votato contro l’autorizzazione a procedere nei confronti del vicepremier Salvini, accusato di sequestro di persona dal Tribunale dei Ministri per aver bloccato per giorni la nave Diciotti con migranti a bordo.

Ma non c’è più nemmeno il mito del doppio mandato. Il M5S ha professato per anni che dopo un secondo incarico di governo di un comune, di una Regione, del Paese, debba considerarsi chiusa l’esperienza del consigliere comunale, consigliere regionale, parlamentare. Il principio del mandato zero ha aperto una nuova strada. “Il primo mandato non si conta per la regola dei due mandati, è un mandato che non vale per i consiglieri comunali e municipali”, ha annunciato Di Maio a luglio scorso. Alimentando il sospetto che un giorno, il vincolo potrebbe essere cancellato o sostanzialmente rivisto anche per deputati e senatori.

Altro punto. La trasparenza. Un mantra del Movimento 5 Stelle. Tutto limpido, tutto chiaro, tutto alla luce del sole. La politica grillina prometteva questo: patti chiari e nessun inganno. Ogni strategia sarebbe stata discussa in maniera aperta. Il principio ha retto forse fino ai tavoli del programma di governo scritto con la Lega, quando la trattativa veniva seguita dai media a distanza ravvicinata e trasmessa anche con messaggi via social. Quattordici mesi dopo sono arrivati gli incontri con Nicola a Zingaretti a casa di Vincenzo Spadafora o al Circolo Esteri, da cui poco è trapelato. Nemmeno una foto, dopo le tante con Salvini.

È cambiata così la figura del capo politico. Dal vecchio blog di Grillo, quello che era di fatto un organo del M5S, il leader dettava la linea senza particolari tatticismi. Nessuno avrebbe pensato che qualche anno più tardi, arrivati al governo, il maggiore esponente non si sarebbe espresso nemmeno su un referendum online di fondamentale importanza per la formazione di un governo e per la vita dello stesso Movimento. Sull’accordo con il Partito Democratico, votato sulla piattaforma Rousseau, Di Maio ha preferito non svelare la sua scelta. “Ho votato ma il voto è segreto”, si è limitato a dire nelle ore del voto.

Infine, lo slogan: uno vale uno. Un messaggio efficace quando c’è da votare su Rousseau, ma meno convincente se a mettere in discussione il principio sono, nero su bianco, senza farne mistero, gli stessi esponenti del Movimento. Nel M5S è nata una fronda interna, un gruppo di dissidenti che chiedono meno poteri per il capo politici. “Molti chiedono più democrazia interna”, ripetono i ribelli. Anche a microfoni accesi. Alimentando lo spettro della scissione.

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