Il direttore del Parlamento Ue in Italia a TPI: “Senza rafforzare l’Europa la nostra indipendenza è a rischio”
“Siamo in guerra, ma siamo una preda facile. O rafforziamo l’Europa o perdiamo la libertà. Non esiste un piano B. È la nostra ultima occasione”. Intervista a Carlo Corazza, direttore dell'Ufficio del Parlamento europeo in Italia
Oggi l’Europa è sotto attacco?
«Assolutamente sì, l’ha ricordato in plenaria al Parlamento europeo, nel momento istituzionale più delicato e importante, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. Le sue prime parole pronunciate durante il discorso sullo Stato dell’Unione sono state: “L’Europa è in guerra”. A essere minacciata, ha poi spiegato senza esagerare né ricorrere a falsa retorica, è la nostra indipendenza e la nostra libertà. Quando parliamo di autonomia strategica, intendiamo che non vogliamo farci ricattare. Può riguardare le terre aree; i dazi o la carenza di una capacità satellitare sufficiente; oppure può configurarsi anche come una minaccia territoriale, lo vedremo. Ma sicuramente oggi è a rischio l’indipendenza degli Stati membri dell’Unione e della stessa Unione europea».
Europa e Stati Uniti sono imprescindibilmente legati. Esiste un disegno da parte di alcuni soggetti negli Usa volto a screditare o, nei casi più estremi, smantellare il tessuto politico e sociale dell’Unione europea?
«L’Europa deve fronteggiare vari pericoli. Tra i principali c’è la guerra ibrida che le autocrazie stanno conducendo contro la democrazia, non solo nell’Ue ma anche negli Usa. Non voglio fare nomi ma quando sentiamo alcuni politici ai vertici del Partito repubblicano statunitense, anche di altissimo livello, fare degli endorsement ad Alternative für Deutschland a dieci giorni dalle elezioni in Germania, non ci trovo nulla di innocente. Un altro pericolo proviene dai giganti del web. Da un lato, hanno interesse alla polarizzazione e quindi sono alleati naturali delle autocrazie che cercano di dividere l’opinione pubblica, incassando maggiori introiti dalla pubblicità dovuta a un maggior coinvolgimento degli utenti. Dall’altro, sono contrari al quadro normativo dell’Unione europea, ad esempio al Digital Service Act che vieta di ospitare menzogne sul web e prevede multe alle piattaforme in caso di diffusione di contenuti illeciti come affermare che la guerra in Ucraina è colpa della Nato; oppure alla Direttiva sul Copyright, che difende i media».

A questo proposito, con un primo pronunciamento, la Direzione generale della Concorrenza della Commissione Ue ha avvisato le grandi piattaforme che starebbero violando il regolamento sui mercati digitali in materia di trattamento preferenziale nelle ricerche sul web e di equo compenso agli editori. Ora che sta arrivando anche l’Intelligenza artificiale, è un problema di democrazia?
«Non regolare i giganti del web pone sicuramente un problema di democrazia. Prima di tutto per quanto riguarda la forza della stampa indipendente e di qualità. Lo scontro più duro a cui abbia mai assistito è avvenuto sulla Direttiva sul Copyright, all’epoca ero vicecapo di gabinetto di Antonio Tajani (allora presidente del Parlamento Ue, ndr). Non c’è mai stato uno scontro così, nemmeno su dossier ben più caldi come il Green Deal, l’ETS (il sistema di scambio di quote di emissione, ndr) o i motori a combustione, perché la posta in gioco era garantire una giusta remunerazione alla stampa di qualità contro lo strapotere delle piattaforme e Google era ferocemente contraria a quella direttiva, che è passata per pochi voti. Un altro scontro molto duro è avvenuto sull’applicazione del Digital Markets Act. Non ci dimentichiamo che alla cerimonia di investitura di Trump era presente tutta la corte dei leader e proprietari delle piattaforme tecnologiche che hanno sostenuto la campagna elettorale del presidente Usa, che ha cercato in tutti i modi di far sospendere l’applicazione del quadro normativo sui giganti del web. Parallelamente a quello sui dazi, è stato un elemento dei negoziati durissimo. Quindi è evidente che su questo l’Unione europea si gioca più della difesa della democrazia. Si tratta di difendere i propri valori, senza cui non avrebbe senso stare insieme. Il nostro codice genetico è la libertà e la dignità delle persone, che vanno difese anche dallo strapotere delle piattaforme perché lo stato di diritto deve valere anche sul web».
Perché in Italia l’Ue fa così poca presa?
«L’Italia è anche il Paese in cui c’è più propaganda pro-Cremlino, dove nei talk show in prima serata ci sono giornalisti che sostengono come la guerra (in Ucraina, ndr) sia colpa della Nato, che l’Europa sia bellicista, che mandare armi a Kiev vuol dire continuare il conflitto, che l’Ue non vuole trattare mentre Mosca sarebbe pronta al dialogo e tutta una serie di messaggi che sono identici a quelli diffusi dalle televisioni russe. Abbiamo tanti rapporti, elaborati dal Servizio esterno dell’Unione, dalla Commissione speciale istituita dal Parlamento europeo contro le ingerenze straniere, dalla Commissione Ue e dai nostri servizi militari, sulla disinformazione e la guerra ibrida. In guerra ci sono anche dei traditori e c’è chi si fa comprare. Ovviamente non so quali siano i giornalisti che si sono fatti comprare o quelli che siano convintamente pro-russi e non è il mio lavoro saperlo, però sono sicuro al mille per mille che la Russia investe un miliardo di euro all’anno per comprarsi giornalisti e politici perché è scritto nero su bianco nei rapporti di Kaja Kallas (Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ndr). Costa molto meno che costruire un sottomarino nucleare ed è molto più efficace. Il nodo della guerra ibrida è proprio questo perché va a toccare i politici, i partiti e i giornalisti, cioè quelli che dovrebbero difendere la nostra indipendenza e che non lo stanno più facendo, attaccando invece l’Unione europea. C’è un ex sottosegretario, Michele Geraci, che ogni giorno attacca l’Ue, definendola una dittatura, e difende Russia e Cina. Vorrei però ricordare a tutti che l’Unione europea non è qualcosa di astratto ed esterno all’Italia. I nostri ministri si riuniscono, in media, tre o quattro volte al mese in varie formazioni con i propri colleghi degli altri Paesi membri, a cominciare dai responsabili degli Esteri e degli Affari europei; il commissario Raffaele Fitto è vicepresidente della Commissione Ue; abbiamo 74 europarlamentari italiani che ogni giorno lavorano per decidere su temi che ci riguardano direttamente: questa è l’Unione europea, un pezzo d’Italia».
Ma, in parte, la guerra in Ucraina e poi, soprattutto, la strage a Gaza hanno fatto da spartiacque. Perché?
«Perché chi attacca l’Unione europea, molto spesso, difende anche la Russia?! Perché i partiti più euroscettici, non solo in Italia, sono gli stessi che vorrebbero sospendere gli aiuti all’Ucraina?! L’Ue è una grande incompiuta, con tanti limiti, nel senso che spesso le sue competenze si fermano molto prima di quanto sarebbe necessario. È evidente che non abbiamo né una difesa, né una politica estera, né una fiscalità comune e nemmeno un’unione dei capitali. Tutte carenze a cui la classe dirigente europea dovrebbe ovviare per difendere la nostra indipendenza. Ma non esiste un piano B, cioè o rafforziamo l’Unione europea oppure perdiamo la nostra sovranità nazionale e la nostra indipendenza. Nessuno Stato, neanche la Germania è in grado di reggere uno scontro con gli Stati Uniti, la Cina, l’India o il Brasile. Solo stando insieme e condividendo la nostra sovranità, possiamo reggere il confronto e difendere la nostra libertà. Chi lavora contro un’Unione europea più forte, non lavora per la nostra libertà».
A proposito di libertà, se n’è parlato molto per la guerra in Ucraina. Quasi quattro anni dopo, siamo ancora divisi tra una legittima difesa a spada tratta di Kiev e le forti critiche di cui parlava prima. Cosa c’è in ballo?
«In Italia le parole più lucide sul perché dobbiamo difendere l’Ucraina le ha dette il nostro ministro della Difesa. Quando (Guido, ndr) Crosetto ci avvisa che se la Russia arriva a Kiev, comincia una guerra diretta tra l’Unione europea e la Russia ed entriamo in uno scenario da incubo, sono parole di una persona informata, che conosce le dinamiche di una parte del nostro continente, a cominciare dai Baltici, dalla Polonia, dai Paesi scandinavi o dalla stessa Germania, che hanno avuto esperienze dirette, storiche, traumatiche e che non hanno nessuna fiducia sul fatto che la Russia si fermerebbe lì. Dopodiché una Russia che arriva a Kiev si impossesserebbe di un pezzo dell’esercito ucraino, che oggi è uno dei più forti al mondo, e della sua tecnologia in materia di droni e costituirebbe un ulteriore oggettivo pericolo per la nostra indipendenza. È evidente a chiunque sia in buona fede che difendere l’Ucraina equivale a difendere la nostra autonomia e la nostra libertà. Ogni arma e aiuto inviato a Kiev è un aiuto a noi stessi, alla nostra libertà e alla nostra indipendenza e chi dice il contrario dovrebbe spiegare in maniera articolata, perché invece pensa che l’Ucraina si possa abbandonare nelle mani della Russia, che non si accontenterebbe del Donbas ma piazzerebbe un governo compiacente come quello di Lukashenko in Bielorussia e controllerebbe un pezzo d’Europa, mettendoci una pressione insostenibile».

Da qui la necessità europea e globale di un riarmo. È stata comunicata in maniera corretta?
«Questa reazione a una presunta Europa bellicista c’è stata solo in Italia e per i motivi che ci siamo detti prima. Con una guerra alle porte, con le tecnologie che come sempre in fase bellica accelerano, essendo in ritardo di 10 anni in materia di droni e non avendo truppe in grado di difendere nemmeno i Paesi baltici, l’unica cosa che possiamo fare è cercare di recuperare tutto il tempo perduto. Tra l’altro siamo il Paese dove è stato inventato il “Si vis pacem, para bellum”, una locuzione assolutamente incontestabile perché soltanto la deterrenza militare può evitare una guerra. In questo momento, l’Europa è una preda facile e deve esserlo il meno possibile. Naturalmente investire nella nostra sicurezza non significa solo investire nelle armi ma, come dicevo, si tratta di investire sulle terre rare, sul cobalto, sui brevetti per le batterie, su un rafforzamento delle filiere manifatturiere, sui microprocessori, etc, cioè su tutti quei settori su cui oggi siamo ricattabili e quindi meno liberi di quanto dovremmo essere».
L’impressione però è che, a differenza dell’Ucraina, l’Europa non abbia fatto abbastanza su Gaza. Perché?
«Perché su Gaza non abbiamo gli strumenti che abbiamo sull’Ucraina. In quest’ultimo caso abbiamo potuto applicare la Direttiva sulla Protezione temporanea dei rifugiati, accogliendo milioni di persone, dando loro lavoro e istruzione, finanziando lo Stato ucraino con decine di miliardi di prestiti o di risorse a fondo perduto, inviando tutte le armi che potevamo nei limiti dei bilanci nazionali e della non decisione sugli asset russi confiscati e aprendo un processo di adesione accelerato. Sull’Ucraina, con la sola eccezione di Orbán e Fico (i premier di Ungheria e Slovacchia, ndr) che talvolta sembrano rispondere a interessi diversi da quelli europei, l’Ue è rimasta unita, a cominciare da Giorgia Meloni che ha preso una posizione molto netta. Qui l’Unione c’è stata e senza la Russia oggi sarebbe sicuramente già arrivata a Kiev, aprendo uno scenario da incubo. Su Gaza invece eravamo divisi, non c’era un’unità europea. Nessuno Stato era davvero pronto ad adottare sanzioni efficaci contro Israele, a cominciare dall’Italia e dalla Germania, che hanno delle responsabilità e un debito storico sulle leggi razziali e sullo sterminio per cui è molto delicato assumere posizioni dure contro lo Stato di Israele. Inoltre Netanyahu è il primo ministro di un governo democratico in Israele, considerato parte dell’Occidente, che non è un’autocrazia. È chiaro che, come scenario, è molto più delicato. Sicuramente l’Europa avrebbe dovuto prendere posizioni più robuste ma senza un’unità e senza strumenti efficaci non ha potuto farlo e l’opinione pubblica naturalmente non ne è stata contenta».
Come può l’Europa costruire un rapporto equo e vantaggioso con gli Stati Uniti, vista l’imprevedibilità dell’attuale amministrazione?
«Qualche mese fa leggemmo col sorriso un articolo su The Economist in cui si affermava che fra qualche anno Donald Trump figurerà nel Pantheon dei padri fondatori dell’Unione europea perché è stato il primo presidente Usa che ci ha fatto veramente sentire la necessità di crescere da soli, come un adolescente che di colpo perde i genitori. Non è ancora chiaro però quanto la sveglia arrivata prima da Putin e poi dagli Stati Uniti di Trump sia sufficiente: non ci sono ancora segnali evidenti che l’Europa sia in grado di crescere da sola e di darsi i mezzi per reggersi in piedi autonomamente. Ma credo che questa sia davvero la nostra ultima occasione, cioè o oggi l’Europa diventa una potenza come l’ha descritta nel suo rapporto (Mario, ndr) Draghi, con un’autonomia strategica propria, un bilancio e un debito comuni, un mercato sufficientemente integrato e la capacità di difendersi, oppure temo che farà la fine delle città greche del IV secolo o degli Stati italiani dopo il Rinascimento, andando verso una dissoluzione e una perdita di indipendenza e di libertà».
Abbiamo Cina e Russia da un lato e gli Stati Uniti dall’altro, ma come Europa non riusciamo a esprimere la nostra voce. Forse l’unico modo per cambiare rotta in determinate scelte è superare il diktat delle decisioni all’unanimità. È una strada percorribile?
«È l’unica strada possibile ma servono leader in grado di intraprenderla. Esistono le cooperazioni rafforzate, abbiamo la possibilità di superare i veti e, se volessimo, potremmo limitare l’influenza di Orbán ma non c’è una volontà politica degli “azionisti di riferimento” dell’Ue, che sono i capi di Stato e di governo che siedono al Consiglio europeo. Senza una volontà politica, almeno dei grandi Paesi come Germania, Italia, Spagna, Francia e Polonia, non è possibile un’Europa più forte. Spetta a questi leader promuovere azioni per difendere la nostra libertà. Non c’è un piano B, oggi nessuno si salva da solo».