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Home » Politica

Revisionismo, diritti negati, gaffe continue: i sei mesi orribili del Governo Meloni

Immagine di copertina
Credit: AGF

Altro che “sostituzione etnica”: Lollobrigida e Meloni pensino alla propria “sostituzione etica”

Che il governo dei patrioti stesse nascendo sotto una cattiva stella lo si era capito fin da subito. Anzi, lo si era già intuito prima ancora che si formasse: per la precisione lo scorso 14 ottobre, quando Ignazio La Russa fu eletto presidente del Senato senza i voti di Forza Italia a causa delle frizioni tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni.

S&D

Quel giorno, nell’aula di palazzo Madama, il Cavaliere fu pizzicato dalle telecamere mentre conversando con La Russa mandava a quel paese la futura premier. E sul suo seggio fu notato un foglio di appunti in cui il «comportamento» di Giorgia veniva definito «supponente, prepotente, arrogante, offensivo e ridicolo».

«Manca una aggettivo: non sono ricattabile», replicò gelida in serata Meloni facendo temere a qualcuno che l’esecutivo naufragasse prima ancora di salpare. Poi, invece, gli animi si sedarono e il governo prese forma. Lo spettacolo poteva “finalmente” iniziare.

Due settimane più tardi, mentre milioni di italiani si vedevano recapitare bollette energetiche da capogiro, la Lega si impadronì della scena con una proposta che fece molto discutere ma che Matteo Salvini ebbe il coraggio di definire «di buon senso»: alzare il tetto del contante da 2mila a 10mila euro. Perché – si sa – c’è gente che non può nemmeno permettersi di aprire un conto corrente: vuoi negare loro la possibilità di girare con 10mila euro in tasca? 

In quegli stessi giorni, in un capannone vicino al casello autostradale di Modena Nord, alcune migliaia di giovani si radunarono per un rave clandestino: un evento che per sua stessa natura violava una lunga serie di norme già in vigore.

Tuttavia il Governo appena insediato avvertì l’impellente esigenza di intervenire con un decreto, introducendo nel giro di 48 ore una nuova fattispecie di reato ad hoc, peraltro formulata coi piedi. Un pasticcio targato Carlo Nordio, lo stesso ministro della Giustizia finito nel polverone anche nelle ultime settimane per via dell’evasione dagli arresti domiciliari del cittadino russo Artem Uss.

In questi primi sei mesi di attività, il governo guidato da Giorgia Meloni ne ha dette e combinate di tutti i colori. Gaffe, provocazioni, boutade, distorsioni della realtà e della storia: quasi che per mantenersi in vita abbia bisogno di scatenare polemiche a ritmo settimanale, se non quotidiano.

E il chiasso mediatico generato dalle uscite improvvide dei ministri finisce spesso per coprire il sottofondo di un’azione politica costellata di favori agli evasori, sconti ai ricchi, bastonate ai poveri, per non dire del disastro sul fronte Pnrr e delle riforme istituzionali in cantiere che minacciano l’assetto costituzionale.

«Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli, quindi li sostituiamo con qualcun altro». Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura nonché cognato di Meloni, la scorsa settimana è arrivato persino a evocare la teoria complottista del “piano Kalergi”, molto in voga negli ambienti nazi-fascisti. «Sono ignorante, ma non razzista», ha provato a giustificarsi il ministro. Come se fosse normale avere al governo un ministro ignorante.

Lollobrigida, per giunta, è colui che a una giornalista di PiazzaPulita, che gli faceva notare come sulla dinamica della strage di migranti di Cutro non ci fosse chiarezza, rispose serio: «Le crea frustrazione questo?».

Ecco, la strage di Cutro. Quello è stato forse il momento più basso del primo semestre meloniano.  Dalla frase choc pronunciata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – «La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli» – all’impreparazione sui fatti palesata dalla premier durante la conferenza stampa in Calabria, quando Meloni nemmeno trovò il tempo di andare a trovare i sopravvissuti al naufragio e i parenti delle vittime.

Qualche settimana prima, a fine gennaio, mentre alla Camera era in corso un dibattito sul caso Cospito, il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli era caduto in una clamorosa sgrammaticatura istituzionale, rivelando candidamente il contenuto di una relazione di polizia che doveva rimanere segreto e di cui era venuto a conoscenza tramite il sottosegretario alla Giustizia, l’altro “patriota” Andrea Del Mastro.

Poi c’è il leghista Giuseppe Valditara, che esattamente un mese dopo aver giurato da ministro dell’Istruzione ha voluto fugare qualsiasi dubbio a chi, forse non conoscendolo, gli aveva concesso credito: «L’umiliazione è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità», ha dichiarato il ministro durante un convegno a Milano, sollevando un polverone. Geniale, però, va ammesso, è stata la sua autodifesa: «Volevo dire umiltà, non umiliazione». 

Valditara è lo stesso ministro che a febbraio ha bollato come «del tutto impropria» la lettera scritta dalla preside di un liceo fiorentino dopo che alcuni studenti erano stati pestati da un gruppo di ragazzi di estrema destra. La dirigente avvertiva del pericolo di ritorno del fascismo, ma Valditara, che non ha speso una parola per condannare l’aggressione, se l’è presa con lei, accusandola di aver preso una iniziativa «strumentale» che denota «una politicizzazione che auspico che non abbia più posto nelle scuole». «Se l’atteggiamento dovesse persistere vedremo se sarà necessario prendere misure», ha aggiunto il ministro. 

Quando si parla di fascismo, peraltro, il maestro di castronerie è il presidente del Senato, Ignazio Benito La Russa, capace di affermare con nonchalance – salvo poi doversi scusare – che i nazisti uccisi dai partigiani in via Rasella a Roma nel 1944 erano in realtà solo «una banda musicale di semipensionati». Oppure sfacciato al punto da sostenere – in un’intervista a La Repubblica – che «nella Costituzione non c’è alcun riferimento all’antifascismo».

La Russa va forte anche sul tema dei diritti civili: «Un figlio gay? Lo accetterei con dispiacere, come se fosse milanista», ha risposto durante il programma tv Belve probabilmente convinto di risultare spiritoso. Ma in materia di diritti sono in molti in Fratelli d’Italia a fare concorrenza al presidente del Senato.

La ministra della Famiglia Eugenia Roccella, ospite di Oggi è un altro giorno, ha detto che abortire «purtroppo» fa parte delle libertà delle donne. Federico Mollicone, presidente della commissione Cultura della Camera, ha sostenuto a Omnibus che la maternità surrogata è un «reato più grave della pedofilia». E ancora: il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli ha dichiarato durante una puntata di In Onda che le coppie omosessuali talvolta chiedono l’iscrizione all’anagrafe di «un bambino che spacciano per proprio figlio». 

Rampelli è anche l’autore di una proposta di legge che prevede multe fino a 100mila euro per aziende ed enti pubblici che usano parole straniere.

Del resto, secondo il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, il padre della lingua italiana, Dante Aligheri, è stato addirittura «il fondatore del pensiero di destra» nel nostro Paese.

Forse, come il sommo poeta, anche Sangiuliano ha «smarrito la diritta via» e si è «ritrovato in una selva oscura»: quel grande buco nero non è altro che il Governo Meloni. Un esecutivo che fa rima con imbarazzo.

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