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Home » Politica

“Chi fa politica mette in conto la prigione”: le lettere dal carcere del giovane Berlinguer

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All’inizio del 1944 la Sardegna è un’isola lontana sia dall’Italia meridionale liberata dagli Alleati sia da quella settentrionale dove i partigiani resistono all’occupazione tedesca. Le truppe naziste si sono ritirate già da qualche mese, subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma gli approvvigionamenti alimentari scarseggiano, la miseria morde e montano le tensioni sociali. Fra il 13 e il 14 gennaio a Sassari scoppia la rivolta del pane: 2mila persone assaltano forni, magazzini di grano, frantoi. La Polizia arresta una quarantina di persone. Fra loro c’è il segretario del movimento giovanile comunista: ha 21 anni, magrolino, capelli neri a spazzola, studia Legge all’università, il suo nome è Enrico Berlinguer. Per le forze dell’ordine sono stati i comunisti a organizzare la sommossa, anche se il partito nega. Berlinguer resta 100 giorni nel carcere San Sebastiano di Sassari, finendo per essere prosciolto (dopo la Svolta di Salerno) per non aver commesso il fatto.

«Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo», scrive in una delle decine di lettere indirizzate ai suoi famigliari durante la detenzione. In quei brevi manoscritti il futuro segretario del Pci rassicura i parenti sulle sue condizioni psico-fisiche, racconta i travagli interiori filosofici e politici, e chiede ovviamente notizie su come vanno le cose là fuori e sul suo procedimento giudiziario. Rinchiuso in una cella di 11 metri quadrati con solo una piccola finestra sbarrata a 2,5 metri di altezza, Berlinguer trascorre quei tre mesi piegato su libri di grandi pensatori (Voltaire, Tocqueville, Croce) ma anche tragedie (Amleto di Shakespeare) e gialli psicologici (Edgar Allan Poe tradotto da Baudelaire).  È un momento decisivo della sua formazione: «Le mie teorie politiche tendono ogni giorno di più verso l’anarchismo», annuncia in una lettera. Poi in un’altra: «Non mi è ancora riuscito di superare il kantismo, né per mezzo di Hegel né per mezzo di Croce. D’altra parte è ancora e forse più forte di prima in me l’influsso di uno scetticismo integrale». E ancora: «Nonostante sia marxista e materialista in senso storico quasi à la manière di Marx, non ha scemato la mia repulsione per il materialismo metafisico».

In carcere il giovane Berlinguer avvia alcune riflessioni politiche i cui sviluppi ritroveremo decenni più tardi nel programma del Pci: «Mi sono venute alcune idee per qualche articolo: sul decentramento amministrativo, considerato non da un punto autonomista o regionale ma libertario; sull’Europa; sul liberalismo inglese e sulla lotta della gioventù russa contro gli zar, alla fine del secolo scorso». Ma nelle lettere c’è anche qualche passaggio ironico, come quando prova a rincuorare la zia Carmela in ansia per lui: «Cara zia, non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo». Quando in carcere arrivano ceste di arance per i detenuti, lui – quotidianamente rifornito di cibo dalla famiglia – si premura di lasciarne agli altri: «Io per conto mio rinuncio perché non ne ho bisogno, ma dovreste interessarvi perché gli altri ne abbiano».

Alla fine di aprile Berlinguer viene scarcerato. Suo padre Mario, ex deputato antifascista ora membro del Partito d’Azione, lo porta con sé a Salerno a conoscere un suo ex compagno di liceo: Palmiro Togliatti, capo del Pci. Quell’incontro cambierà la vita del giovane Enrico.
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