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Se ho il ciclo non lavoro: ecco perché è arrivato il momento di introdurre il congedo mestruale anche in Italia

Immagine di copertina
Credit: AGF

L’80% delle donne soffre di dismenorrea, che nel 10% dei casi si manifesta in forma grave, al punto da diventare invalidante. Ora l’Alleanza Verdi-Sinistra vuole introdurre uno specifico permesso. Guardando come modello alla legge approvata in Spagna

Due giorni al mese di astensione dal lavoro retribuita, o di assenza giustificata da scuola, per le donne che soffrono di dolori lancinanti durante il ciclo: è la proposta di legge sul congedo mestruale presentata dalla deputata dell’Alleanza Verdi-Sinistra Elisabetta Piccolotti, prima firmataria del testo che potrebbe segnare un importante passo avanti in Italia in tema di diritti femminili. Passo che, in Europa, ha già compiuto la Spagna: lo scorso 16 dicembre a Madrid è stata approvata una norma simile, che includeva anche la distribuzione gratuita di prodotti per l’igiene mestruale in scuole, carceri, centri sociali o enti pubblici.

S&D

«La proposta nasce dal lavoro che abbiamo svolto all’interno di una rete femminista transnazionale – dice Piccolotti a TPI – e dal rapporto con la ministra dell’Uguaglianza spagnola Irene Montero di Podemos, che ha fatto progredire il dibattito sui diritti della salute sessuale e riproduttiva delle donne». La dismenorrea, termine medico con cui vengono indicati i dolori associati al ciclo mestruale, colpisce circa l’80 per cento delle donne: di queste, il 10-15 per cento ne soffre in forma grave, al punto da diventare invalidante quando si tratta di svolgere la normale attività lavorativa o di studio. Se la proposta di legge fosse approvata, studentesse e lavoratrici potrebbero presentare un certificato medico che attesti la loro condizione ed essere esentate dalla frequenza o dalla presenza in ufficio: nel primo caso senza che l’assenza venga «computata ai fini del calcolo dell’obbligo di frequenza ad almeno tre quarti dell’orario annuale», nel secondo con una «contribuzione piena e un’indennità pari al cento per cento della retribuzione giornaliera».

Spazi limitati
«Il congedo mestruale lavorativo – si legge nella proposta di legge che verrà presto incardinata per la discussione nella Commissione di riferimento – non può essere equiparato alle altre cause di impossibilità della prestazione lavorativa e la relativa indennità che spetta alla donna lavoratrice non può essere computata economicamente, né a fini retributivi né contributivi, all’indennità per malattia». Nel terzo e ultimo articolo della proposta si fa menzione anche dei contraccettivi ormonali, chiedendone l’inserimento nei livelli essenziali di assistenza. Sulle sorti del disegno di legge Piccolotti non si sbilancia: «Gli spazi per l’opposizione sono limitati, ma è tempo che la premier Meloni dia un segnale di voler riconoscere ulteriori diritti alle donne. Non serve a nulla avere una leadership femminile se non è femminista».

Intanto che la politica faccia il suo corso, con i suoi tempi dilatati e il costante rischio che l’iniziativa venga affossata, sono tantissime le donne che ogni giorno hanno a che fare con questo disagio e devono arrangiarsi come possono. Un tema al quale alcuni enti hanno provato a dare risposta in maniera autonoma, anticipando le decisioni delle istituzioni. Come l’azienda di spedizioni veneta Ormesani, che ha deciso di introdurre il congedo mestruale nel proprio welfare, garantendo alle dipendenti ormai dallo scorso settembre un giorno al mese di assenza retribuito al 100 per cento, senza la necessità di presentare un’autorizzazione o di un certificato medico. Oppure il liceo artistico Nervi Severini di Ravenna, che ha modificato il proprio regolamento d’istituto prevedendo la possibilità di assentarsi da scuola per un massimo di due giorni al mese.

Spinta dal basso
Proprio nelle scuole il dibattito sull’argomento si fa sempre più consistente: lo ribadisce anche Camilla Velotta, referente per le questioni di genere della Rete degli studenti medi, una delle principali associazioni studentesche in Italia. «Lavoriamo nelle scuole da anni – racconta a TPI – e vogliamo renderle spazi più sicuri per chi li vive. Questa è una battaglia che ha senso portare avanti, vorremmo anzi renderla una direttiva ministeriale, che vada oltre l’iniziativa dei singoli istituti». Il prossimo 8 marzo all’esterno di diverse scuole l’associazione affiggerà alcuni manifesti con un Qr code scansionabile che rimanda a un volantino in cui viene spiegato cos’è il congedo mestruale: in allegato ci sarà anche un modulo standard da compilare e presentare al Consiglio di Istituto per l’approvazione. Secondo Velotta le scuole in larga parte già sanno in cosa consiste la misura, e sono tendenzialmente «consapevoli della sua importanza e favorevoli all’introduzione». È in ambito lavorativo, invece, che la proposta ha attirato diverse critiche.

In un’intervista a Repubblica Maria Cristina Bombelli, presidente di Wise Growth, società di consulenza orientata all’inclusione della diversità in azienda, ha sollevato diversi punti contro la legge, facendo notare ad esempio che secondo recenti ricerche il ciclo mestruale è legato al preconcetto che comporti una scarsa performance lavorativa: «Vedo due problemi – ha dichiarato – il primo è lo stigma, che darebbe manforte ancora una volta a chi ritiene che le donne non siano affidabili, il secondo è la privacy, che va tutelata non dovendo per forza dire il proprio stato di salute». Un’altra questione è quella legata alle assunzioni: come accoglierebbero i titolari delle piccole e medie imprese l’idea che una lavoratrice può assentarsi per due o tre giorni ogni mese? «La struttura produttiva italiana già esclude la donna perché fa figli – osserva Bombelli – se aggiungessimo il congedo avremmo ancora più difficoltà».

Questione di fiducia
La tesi di fondo è: le donne che soffrono molto per il ciclo mestruale hanno il diritto di usufruire del semplice congedo per malattia, senza crearne uno “specifico e stigmatizzante”. «Ci sono aziende che hanno già istituito questo congedo – la replica di Piccolotti – e ci dicono che il problema non è il tempo di presenza ma la capacità di sviluppare lavoro per obiettivi. Dentro questa logica, in cui rientra anche lo smart working, riconoscere qualche permesso extra non può essere un problema, perché non andrebbe a deperimento della produttività. Se anche le grandi aziende rifiutassero vuol dire che manca cultura innovativa. Sarebbe dimostrazione che siamo arretrati. Ma ricordiamo che competere sulla cancellazione dei diritti com’è stato fatto negli ultimi 15 anni ha portato solo problemi, come il fatto che i nostri salari sono fermi a 30 anni fa mentre nel resto d’Europa sono aumentati».

Piccolotti ritiene che il cambiamento passi inesorabilmente da una rinnovata fiducia nelle donne, «nella loro capacità di valutazione e giudizio». «Non è detto che tutte faranno uso di quei giorni – conclude la parlamentare – solo una minoranza che ne avrà davvero bisogno. Le donne svolgono spesso lavori multipli, con responsabilità più grandi di quelle riconosciute. Senza di loro saremmo da tempo in difficoltà in ambiti come welfare e assistenza. Una persona mi ha scritto sui social: ‘Cosa pensa della possibilità che una badante si possa assentare per questo motivo?’. Allora io chiedo anche, chi pensa che queste figure possano essere sostituite da uomini? Tanti lavori sono svolti da donne, tutta questa cura si può ricambiare con qualche diritto in più?».

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