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Made in (North) Italy: con l’autonomia differenziata le eccellenze agricole del Sud sono a rischio colonizzazione

Immagine di copertina
Credit: AGF

Marchi camuffati. Filiere inesistenti. E Dop e Docg mai create. Il Mezzogiorno ospita il 40% delle aziende agricole nostrane. Ma i pochi fondi e la mancata promozione rischiano di farne terra di colonizzazione. E l’autonomia differenziata favorirà le denominazioni del Nord

Arrivata alla 55esima edizione del Vinitaly a Veronafiere, la premier Giorgia Meloni incontra alcuni studenti di un Istituto Agrario e dichiara: «Per me questo è il liceo, perché non c’è niente di più profondamente legato alla nostra cultura». Arriva poi l’annuncio: per queste ragioni, il governo lavora al “Liceo del made in Italy” (suggeriamo a Meloni “Fatto in Italia”, vista la lotta dello stesso governo agli anglicismi).

Non c’è dubbio che le eccellenze agricole come aceto balsamico, parmigiano, vino e tartufi – che ne dica Alberto Grandi – siano sinonimo di qualità e spingano l’economia italiana, diventando un simbolo dello stivale in tutto il mondo. Ma molto di questo orgoglio “Made in Italy” ha fondamenta sabbiose e poco sicure. Per esempio nel meridione, dove sono attive oltre il 40% delle aziende agricole italiane, su molti prodotti di punta manca la promozione del territorio, situazione che favorisce la crescita di un sottobosco dove i prodotti vengono camuffati per essere venduti meglio.

Il caso eclatante dell’Irpinia
La situazione odierna si può riassumere così: sono privilegiate le filiere e le denominazioni protette del Nord, i cui prodotti a volte vengono mescolati con simili che provengono dal Sud o, peggio,dall’estero. Con l’autonomia differenziata le cose potrebbero addirittura peggiorare secondo gli agricoltori, perché arriveranno ancora meno soldi. Prendiamo il tartufo. Agricoltori, ristoratori e attivisti del territorio hanno confessato a TPI che tartufi irpini, beneventani, molisani e calabresi vengono venduti sottobanco al Centro e al Nord, presentati come tartufi di Acqualagna o di Alba. E il prezzo sale alle stelle.

Com’è possibile che nessuno se ne accorga? Si può dire che il tartufo è lo stesso, ovunque lo si trovi. Sono le qualità di tartufi che variano, solitamente rispetto all’albero sotto cui crescono e al terreno. Il Tuber soave, ad esempio, si trova a macchia lungo tutto l’Appennino, insieme al Bituminatum e al Mesentericum. Qualità più pregiate si trovano sotto i faggi, tartufi ancora più pregiati crescono sotto i pini vicino al mare e così via. Il problema è spiegare al “cliente X” che chiede: «Ma è meglio quello di Alba?», che in linea di massima non c’è differenza con uno simile.

Lo racconta lo chef Emilio Grieco, che con la sua “Osteria I Santi” ha rappresentato la Campania nel padiglione riservato all’Expo 2015 di Milano e che nel suo ristorante usa solo tartufi a chilometro zero. «Il problema è chi batte il tartufo, fanno loro i prezzi e indirizzano le corsie preferenziali, che oggi sono Alba e poi Acqualagna», ci spiega. «È una cosa risaputa, so di tartufi irpini venduti come tartufi d’Alba che sono arrivati fino in Giappone pagati a peso d’oro». Una è successa anche a lui. «Ero per tartufi con i miei cani, quando in un canale d’acqua trovo un tartufo grande, circa mezzo chilo. Il cane però l’aveva graffiato, rendendolo diciamo “impuro” per i battitori d’asta. L’ho venduto, comunque, sui duemila euro, era un venerdì. Lunedì accendo la Tv e su Geo&Geo ho riconosciuto il mio tartufo: era graffiato. Però era una puntata sulle langhe piemontesi». L’etichetta recitava “Tartufo d’Alba”, ma era di Avellino. 

Il problema è alla base: filiere per prodotti agricoli insistenti, Docg e Dop mai create e una mentalità diffidente fanno dell’agricoltura del Sud un luogo ricco di eccellenze per lo più sconosciute. L’ultima guida alla raccolta e commercializzazione del tartufo in Campania è stata pubblicata nel 2016, mentre è del 2012 l’ultimo testo divulgativo sul tartufo edito dall’assessorato all’Agricoltura. Risale addirittura al 2006 un documento programmatico di Legambiente Campania dove si indicavano modalità e luoghi per costruire tartufaie in Irpinia che rispettassero il territorio. Una proposta rimasta su carta, cui non sono seguite iniziative autonome della Regione. La legge che disciplina la raccolta e la vendita è, come il documento del cigno verde, del 2006.

La valorizzazione dei prodotti, secondo gli addetti, viene fatta poco in generale. In questo senso si sta muovendo ad esempio il parco del Partenio con una Docg sulla castagna, come ha raccontato Gioacchino Acierno, guardia ambientale ed esperto del territorio. Ma «è un percorso che procede troppo lentamente». Il rischio, secondo Paride Ferraro, agricoltore della provincia di Avellino ed esperto di tartufi, è che il Mezzogiorno d’Italia «diventi una terra da colonizzare» e non il fiore all’occhiello del Made in Italy. «Ci sono studi degli anni ’80 dove esperti francesi riconoscono delle qualità di tartufi presenti nella catena del Partenio – spiega a TPI – e ancora non se ne sa nulla. In Umbria, dove c’è un’altra cultura rispetto ai tartufi, è stata scoperta recentemente una qualità molto simile se non identica ed è stata subito creata una Docg ad hoc (si tratta appunto del Tuber soave di sopra). Qui niente, gli aiuti statali e regionali sono praticamente zero, e non si è nemmeno invogliati a fare impresa con tassi agevolati, come accade in Piemonte».

Non è tutto. Lo stesso vale per l’olio di Ravece. Mai sentito? Il ragionamento di Ferraro è semplice: «Se l’olio italiano è riconosciuto come tra i più pregiati, se non il più pregiato al mondo, e se sappiamo che quello del Sud è meglio, perché non si coltiva e si segue l’olio di Ravece che è un’eccellenza campana?».

Molti irpini non sanno neanche che la lavorazione di quest’olio particolare e ricercato avviene dal 1500 nelle terre dell’avellinese e che continua tuttora. «Perché l’olio del Lago di Garda viene seguito e commerciato come un prodotto di punta e questo no?», si chiede Ferraro.

Un futuro sempre più incerto
Dal ministero dell’Agricoltura, sovranità alimentare e foreste (Masaf), retto attualmente dal fedelissimo di Meloni, Francesco Lollobrigida, fanno sapere che «il ministero coordina, tra le altre, le politiche del settore agricolo e forestale ed il tartufo ricade in tali fattispecie ma sono le Regioni che finanziano i progetti sulla tartuficoltura prevalentemente con i Piani di Sviluppo Rurale o i fondi di convergenza». Per l’agronomo e attivista Ferdinando Zaccaria le falle sono troppe: «Disgregazione dell’offerta, Programmi di sviluppo rurali (Psr) regionali che finiscono spesso in fittizie forme di associazionismo che non portano a nulla, mancanza di promozione del territorio e pochi marchi di qualità».

È la fotografia di una terra che va sostenuta e rifondata, prima di essere sbandierata come “Made in Italy”. Ferraro e Zaccaria esprimono il pensiero di tanti agricoltori, preoccupati dal progetto di legge del ministro degli Affari Regionali, Roberto Calderoli. «Con l’autonomia differenziata sarà peggio: se prima arrivavano pochi fondi, adesso ancora meno».

Fonti dal Masaf a domanda rispondono a TPI che in realtà c’è da tenere gli occhi aperti. «Va al più presto aggiornata la legge del settore (risale al 1985, nda) che poi regolamenta ed armonizza il settore e permette alle Regioni di recepire in maniera omogenea su tutti i territori; per non parlare delle importazioni di prodotti extracomunitari», ci dice una fonte interna al ministero. E un ex componente della Commissione agricoltura dichiara: «Già adesso l’articolo 117, che dà poteri specifici alle regioni sopra lo Stato, crea problemi. Pensare che arriveranno ulteriori differenze, perché arriveranno, mi preoccupa». 

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