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Perché il 2026 sarà un anno spartiacque per il Governo Meloni

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L'esecutivo presieduto da Giorgia Meloni è attualmente il terzo più longevo della storia della Repubblica. Credit: AGF

I prossimi dodici mesi si profilano come la stagione più delicata della legislatura per il centrodestra. Con la fine di Superbonus e Pnrr l’economia rallenterà. E il referendum sulla giustizia sarà un voto pro o contro Giorgia. Se l’esecutivo reggerà l’urto ne uscirà più forte. Altrimenti si apriranno scenari nuovi

Giorgia Meloni si affaccia sul nuovo anno forte di sondaggi che stimano il suo partito, Fratelli d’Italia, saldamente intorno al 30% dei consensi. La fiducia di cui gode la presidente del Consiglio costituisce un’assicurazione sulla vita – anzi, un’assicurazione sul governo – anche per gli altri partiti della maggioranza, Lega, Forza Italia e Noi Moderati. Malgrado le divergenze interne, la coalizione continua ad apparire robusta, o quantomeno più solida rispetto a un centrosinistra dai contorni ancora nebulosi. Tuttavia i prossimi dodici mesi si profilano come i più delicati della legislatura per l’esecutivo di centrodestra. 

La situazione economica stagnante e il referendum sulla giustizia rappresentano insidie dalle quali Meloni uscirà inevitabilmente o più forte o più debole rispetto a oggi, con effetti che potrebbero rivelarsi determinanti per l’esito delle elezioni politiche del 2027.

Stagnazione
Già oggi il Pil dell’Italia meloniana è tra i più anemici dell’Unione europea: secondo i calcoli della Commissione, la crescita acquisita per il 2025 è dello 0,4%; solo in Austria, Finlandia e Germania è più bassa, mentre la media nell’Ue è dell’1,4%.

Ma il peggio deve ancora venire: nel prossimo biennio, infatti, il ritardo del nostro Paese aumenterà. Per il 2026 Bruxelles si attende un +0,8% che ci vedrebbe penultimi davanti alla sola Irlanda, e nel 2027 – con un Pil ancora a +0,8% – dovremmo scivolare all’ultimo posto. Nel frattempo la Spagna correrà a una velocità più che doppia rispetto a noi e la “moribonda” Germania dovrebbe ricominciare a dare segni di vita passando dallo 0,2% attuale fino all’1,2%. 

Consolidarci come l’economia più fiacca d’Europa sarà sufficiente a scalfire la tenuta del Governo? Chissà. Quel che è certo è che le previsioni del Ministero dell’Economia guidato da Giancarlo Giorgetti sono in linea con quelle dell’Ue: nel Documento Programmatico di Bilancio il Mef ha indicato una crescita dello 0,5% per il 2025, dello 0,7% nel 2026 e dello 0,8% nel 2027. A constatare e profetizzare la stagnazione, insomma, non sono solo i «gufi» europei ma è il nostro stesso governo.

D’altronde, la manovra appena varata – la più leggera degli ultimi anni – fa poco o nulla per invertire la rotta. L’Istat e l’Ufficio Parlamentare di Bilancio l’hanno analizzata e sono giunti entrambi alla stessa conclusione: la finanziaria non inciderà sul Prodotto interno lordo.

Manovra debole
La misura-bandiera della Legge di Bilancio è la riduzione dell’aliquota Irpef dal 35 al 33% per la fascia di reddito tra i 28mila e i 50mila euro. Con questo intervento il Governo afferma di voler sostenere il potere d’acquisto delle famiglie. Peccato che – come ha calcolato l’Istat – il beneficio medio annuo sarà pari ad appena 230 euro per ciascun contribuente e comunque corrispondente a un aumento sotto l’1% del reddito familiare. Poca, pochissima roba.

Per giunta, Istat e Banca d’Italia hanno rilevato che la finanziaria tende a favorire in quota maggiore le fasce più abbienti. In particolare, secondo l’Istituto di Statistica l’85% delle risorse stanziate per il taglio Irpef andranno nelle tasche delle famiglie che rientrano nei due quinti più ricchi della popolazione. Il tutto mentre ormai un italiano su dieci vive in condizioni di povertà assoluta. E mentre le retribuzioni contrattuali risultano in media inferiori dell’8,8% rispetto al 2021 in termini reali.

Questi numeri finiscono per sgonfiare i record di occupazione spesso sbandierati da Meloni. Peraltro, se è pur vero che con questo governo il tasso di occupati ha toccato il livello massimo da quando esistono le rilevazioni (62,7%), va anche precisato che il dato è influenzato in misura decisiva da due fattori su cui la premier astutamente sorvola. 

Il primo è che nell’arco dei tre anni di esecutivo di centrodestra il tasso di occupazione è aumentato quasi esclusivamente tra i lavoratori anziani: nella fascia d’età tra i 50 e i 64 anni è salito dal 62 al 67,1%, mentre per i 15-24enni è sceso dal 20,1 al 17,5%. Si tratta di una dinamica legata alla Legge Fornero, che costringe le persone a lavorare più a lungo: norma che il centrodestra aveva promesso di smantellare e che invece è rimasta intaccata. 

Il secondo fattore riguarda l’impatto provocato sul mercato del lavoro da Superbonus edilizio e Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, due provvedimenti su cui il centrodestra non può rivendicare particolari meriti. Il Centro Studi di Confindustria stima ad esempio che, senza il Pnrr, quest’anno il Pil dell’Italia sarebbe stato negativo (-0,3%) e nel 2026 sarebbe inchiodato a +0,1%. 

Presto i nodi verranno al pettine: il Superbonus è finito e i fondi del Next Generation Eu devono essere spesi tassativamente entro l’estate prossima, dopodiché si inizierà a vedere qual è il reale stato di salute della nostra economia. Sulla quale peserà anche il macigno dei dazi statunitensi. 

Crescita piatta, povertà diffusa e soprattutto salari bassi rischiano di alimentare il malcontento degli italiani nei confronti del Governo. 

Armi sì, welfare no
In questa manovra Meloni e Giorgetti hanno badato soprattutto a mantenere in ordine i conti pubblici. Abbassando il deficit sotto la soglia di allarme sancita dall’Ue, il Governo italiano si è assicurato l’uscita dalla procedura d’infrazione europea per squilibri di bilancio, passaggio importante per poter accedere ai fondi di Safe, il nuovo strumento costituito dalla Commissione per elargire prestiti destinati a sostenere la spesa militare: nello specifico, Roma ha reso noto che chiederà una linea di credito da 15 miliardi di euro. Somma che evidentemente andrà restituita nel tempo.

Come noto, la presidente Meloni ha impegnato l’Italia davanti agli Stati Uniti ad aumentare le erogazioni per la difesa fino al 5% del Pil entro il 2035 (a fronte del 2% attuale). Ma, mentre in una prima fase i meccanismi predisposti da Bruxelles consentiranno di finanziare le commesse di armi senza alterare gli equilibri del bilancio pubblico, nel lungo periodo una maggior spesa militare comporterà tagli su altre voci. Non si scappa. 

«Un aumento permanente della spesa per la difesa dovrà necessariamente essere compensato da misure di riduzione della spesa in altri settori o di aumenti discrezionali delle entrate», ha sintetizzato l’Ufficio Parlamentare di Bilancio

Sarà complicato spiegare all’opinione pubblica che per comprare più caccia o veicoli corazzati bisogna sforbiciare il welfare, oppure alzare le tasse. Tra parentesi: già oggi la pressione fiscale è al livello più alto degli ultimi dieci anni.
LEGGI ANCHE: Manovra, stretta sulle pensioni nel maxi-emendamento del Governo

Il test delle urne
Un’economia zoppicante – ancor più se gestita con poche concessioni alla spesa sociale e molte alla difesa – può provocare contraccolpi sul consenso elettorale. Ma il rapporto fra le due cose non è affatto automatico, come dimostra anche il fatto che già oggi siamo in stagnazione, eppure Meloni è salda al suo posto. Se nemmeno le ulteriori difficoltà che si intravedono all’orizzonte riuscissero a scalfire il vantaggio della destra nei sondaggi, significherebbe che il Governo gode di una particolare resistenza agli urti e che la sua permanenza al potere è fortificata.

Economia a parte, tuttavia, è sul terreno della stretta politica che si giocherà la partita più decisiva del 2026 per il Governo Meloni. Entro fine marzo gli italiani saranno chiamati alle urne per il referendum confermativo sulla riforma della giustizia: per il centrodestra sarà un passaggio cruciale. Quasi da vita o morte.

La separazione delle carriere dei magistrati è un vecchio cavallo di battaglia in particolare di Forza Italia, ma le cronache giudiziarie degli ultimi anni – con innumerevoli episodi di scontro tra le toghe e l’esecutivo – lo hanno reso un tema visceralmente sentito anche dagli altri partiti della coalizione. La legge costituzionale firmata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio rappresenta la risposta del Governo a una magistratura percepita e presentata come nemica.

Nelle fila dell’opposizione si registrano sensibilità diverse sul merito del quesito. Ciononostante, la consultazione popolare si risolverà di fatto in un referendum pro o contro Meloni. È inevitabile che sia così, benché la premier stia cercando di non incorrere nell’errore di personalizzare il voto, errore che nel 2016 costò la carriera politica a Renzi. 

Il braccio di ferro che vede contrapposti centrodestra e giudici non lascia spazio alle sfumature: se vincesse il Sì, la maggioranza di governo avrebbe superato una prova di forza e potrebbe guardare al 2027 con il vento in poppa; viceversa, se prevalesse il No, una doccia gelata si riverserebbe sulla presidente del Consiglio, e anche la sua narrazione mediatica di successo dovrebbe cambiare, mentre il centrosinistra incasserebbe un’importante iniezione di fiducia.

Il cantiere del centrosinistra
Indipendentemente da quale sarà l’esito del referendum, il centrodestra ha già fatto sapere che nei prossimi mesi intende metter mano alla legge elettorale. Secondo indiscrezioni convergenti, si va verso un proporzionale puro con alta soglia di sbarramento e generoso premio di maggioranza per il partito o la coalizione vincente.

Meloni e i suoi alleati vogliono capitalizzare al massimo il vantaggio che hanno, ben sapendo che la legge attuale – che attribuisce un terzo dei seggi con il sistema maggioritario – potrebbe riservare brutte sorprese nei collegi uninominali, qualora il centrosinistra si presentasse con la formazione allargata del «campo largo». 

Quest’ultimo è un altro dei temi più rilevanti da segnare sull’agenda politica del 2026. Il prossimo sarà un anno chiave anche per le opposizioni. Tra Partito Democratico, Movimento 5 Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, Italia Viva e Più Europa (Azione si è più volte chiamata fuori) entrerà nel vivo il confronto per dar vita a una coalizione con cui presentarsi alle elezioni del 2027. La grande sfida è mobilitare quel 40/50% di elettori che ultimamente disertano le urne, ma per riuscirci è indispensabile delineare una visione alternativa dell’Italia che sia chiara, credibile e semplice da comunicare. Se i partiti di centrosinistra ci riusciranno, il governo del Paese sarà ancora contendibile. Altrimenti, il centrodestra dovrà temere solo se stesso.

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