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Studia, consuma, crepa: il modello tossico dell’università come competizione

Immagine di copertina
Credit: AP

Nei luoghi della formazione si insegue la produttività. Come fossero aziende. Ma la verità è che ognuno ha i suoi tempi

Fuoriclasse o fuoricorso, non c’è via di scampo. O almeno è quanto vorrebbero farci credere tutti quei proclami, quelle “notizie” che spesso sono solo trovate di marketing per il giovane laureato prodigio e per la sua notabile famiglia o per la prestigiosa università privata a cui è iscritto.

S&D

Per mesi siamo stati bombardati da titoli come «Federica batte tutti», una goccia che lentamente ha scavato la coscienza collettiva convincendoci che l’università è una competizione. Come se ce ne fosse bisogno, come se non fossimo già abbastanza terrorizzati all’idea che – se ancora esiste qualche chance che l’ascensore sociale in Italia funzioni – bisogna eccellere, essere tanto più bravi quanto più si parte dal basso, altrimenti, banalmente, saremo spacciati.

E una volta fuori dal mondo dell’università – ormai vissuta come imprescindibile nel transito verso un mercato del lavoro sempre più precario e pertanto sempre più esigente – non saremo competitivi, non ci meriteremo una vita sopra la soglia della povertà relativa, con una carta che risulti ancora capiente quando, dopo aver pagato l’affitto e le bollette, staremo facendo i conti e incrociando le dita anziché goderci quella rara uscita fra amici.

Tutto questo (e molto di più) si nasconde dietro il disagio psicologico degli studenti universitari che talvolta si spingono a compiere gesti estremi: la consapevolezza e il disincanto. 

Non sono giovani viziati che non sanno più tollerare i piccoli fallimenti della vita, come vorrebbero farci credere; e non sono nemmeno dei pazzi con mille altri problemi collaterali, come si usa dire quando ci si vuole autoassolvere per aver assecondato quella mentalità, liquidando anche l’ennesimo suicidio come un caso isolato. 

Eppure, in queste storie non è difficile riconoscersi. Quando è estate e già senti il peso della sessione di marzo, l’ultima prima di finire fuoricorso e pagare il doppio delle tasse. «Sono nei tempi», ti ripeti, «mi mancano cinque esami». Ma solo il pensiero di dirlo ai tuoi genitori e vedere le loro facce deluse già ti devasta.

Fra quei cinque esami, poi, scopri col tempo di averne sottovalutato uno, o di aver fatto male i conti col grado di dettaglio richiesto da quella commissione, che che ti boccia due volte. Gli appelli non sono poi tanti, a volte passano mesi fra l’uno e l’altro: di colpo è Natale, tu sei molto più indietro di quanto avessi previsto; sei già proiettato sulla laurea perché l’hai annunciata e questo ti mette ansia, ti impedisce di studiare sereno. Così ti chiudi in casa, studi tutto il giorno, rinunci ad ogni occasione di socialità, finisci in una spirale di solitudine e confusione.

Forse avresti bisogno di aiuto ma non hai il coraggio di chiederlo: non credi di meritarlo. I tuoi compagni di corso postano la foto con la corona d’alloro, e tu sei in pigiama che li guardi dal telefono: a te manca una vita. Pensi a te stesso di lì a qualche anno, le insicurezze diventano giganti.

Ti senti sopraffatto, ti manca l’aria. E scopri che sei troppo stanco per continuare a giocare a quel gioco in cui già sai che perderai. 

Non abbiamo dovuto inventare niente: è solo una delle ultime fra le storie che non sono state raccontate. In questi mesi abbiamo raccolto persino la testimonianza di un’attrice che risponde ad un annuncio di lavoro e si ritrova al telefono con un ragazzo disperato: le chiede di fingersi una docente universitaria, nel periodo delle lauree da remoto, per simulare una discussione di tesi.

L’artificio non avrebbe portato al conseguimento del titolo, ovvio, ma forse appariva come l’unica maniera per procedere con la rinuncia agli studi senza rompere con la propria famiglia. Che fine avrebbe fatto la fiducia, se avessero scoperto mesi di bugie?

In una società che non tollera il fallimento, tu non vuoi deluderli. In una società che non tollera il fallimento, anche tu hai disimparato a tollerarlo. In una società che non tollera il fallimento, la procrastinazione non è pigrizia ma semplicemente paura di non avere successo.

Così prendi tempo, finché puoi, e rimandi il tempo della verità, che deve suonare come un’imperdonabile ammissione di colpe. 

Ma la verità è che ciascuno ha i suoi tempi; che i regolamenti delle tasse sono punitivi; che se sei povero paghi meno tasse nell’università pubblica ma devi essere anche molto bravo: se rimani indietro, perdi il “privilegio” di pagare meno, che è un diritto e che non dovrebbe cessare di esistere solo perché non corri veloce come gli altri.

E poi c’è chi lavora per pagarsi l’affitto da fuorisede, che spesso è una scelta obbligata. C’è chi dedica il proprio tempo a esperienze di cittadinanza attiva. C’è chi deve sopperire alle carenze del welfare e prendersi cura di un familiare.

Qualsiasi impegno che non sia la devozione allo studio diventa una perdita di tempo, nella narrazione polarizzata che si fa degli studenti universitari: veri fenomeni o falliti.

L’unica via è l’individualismo più cinico, la capacità che hai di reprimere i momenti di debolezza, per i quali non c’è tempo: la produttività è centrale nell’organizzazione aziendalistica dei luoghi della formazione.

I criteri di merito sembrano pensati per far sparire ogni disuguaglianza nelle condizioni di partenza, e ammantare tutto di un’aura di giustizia sociale.

Hai bisogno di supporto psicologico, in un momento storico di apparente grande slancio verso il superamento dello stigma sulla salute mentale? Prega di avere i soldi per pagartelo, perché i servizi di counseling offerti solo da alcuni atenei solo assolutamente insufficienti. 

La rappresentazione che di tutto questo (non) si offre è quanto mai fuorviante. Chi svetta da una posizione di potere invidiabile, di nascita, sembra essersela costruita, con un puntuale encomio al sacrificio e alle rinunce che ha compiuto sul piano personale per avere successo in quello universitario-professionale; chi perisce, invece, sembra fare la fine che merita, in questa sorta di darwinismo della realizzazione di sé.

Con lui sparisce la necessità di interrogarsi più profondamente sui criteri di valutazione, sull’insufficienza delle borse di studio e delle università stesse sul territorio nazionale (in Italia ci sono 67 università pubbliche e 190 istituti penitenziari), sulla funzionalizzazione dell’università pubblica al lavoro flessibile, in competizione diretta con le università private; su quanto abbiamo introiettato il concetto per cui siamo quello che facciamo.

Basteranno tre minuti di silenzio e potremo continuare a fingere che vada tutto bene. Tre minuti di silenzio, e mentre un’ambulanza porta via il corpo dell’ennesima studentessa che ha deciso di togliersi la vita pochi metri più in là, la commissione chiama il nostro nome. Dobbiamo sostenere l’esame. L’angoscia ci divora ma non possiamo permetterci di rimandarlo: il prossimo appello è fra un mese e sarà già troppo tardi.

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