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Il coraggio di andare oltre se stessi: solo così Pd e M5S possono dare vita a una nuova sinistra (di R. Bertoni)

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PD e M5S nacquero a un mese di distanza l’uno dall’altro, fra il settembre e l’ottobre del 2007. Era già chiaro, infatti, che i vaffa sparati da Grillo in piazza Maggiore, a Bologna, fossero propedeutici alla costruzione di un soggetto politico autonomo. Nacquero per esigenze diverse, apparentemente contrapposte ma in realtà figlie dello stesso ambiente e della stessa debolezza. C’entra, in entrambi i casi, la critica alla globalizzazione senza regole che vide protagonista la sinistra mondiale all’inizio del secolo. Forse non lo sanno neanche loro, ma i 5 Stelle non sono figli del giustizialismo, anche se negli anni lo hanno saputo abilmente sfruttare, bensì della crisi che già allora mordeva le fasce sociali più deboli e del tradimento storico della sinistra ufficiale.

S&D

Il PD, dal canto suo, fu un tentativo di difesa saltato quasi subito, l’ultima spiaggia di una classe dirigente che stava fallendo la prova di governo e si affidò a un nuovismo senza dialettica e senza complessità, destinato a perdere pezzi strada facendo, fino a divorare, come Crono, qualunque segretario.

PD: non è questione di nomi

Ciò che stupisce, nel dibattito interno ai democratici, è che non abbiano compreso, salvo poche eccezioni, cosa sia accaduto lo scorso 25 settembre. Quando non riesci a eleggere nemmeno la segretaria della giovanile e la presidente del partito, difatti, sei di fronte a un cataclisma di proporzioni storiche. E non puoi dare la colpa alla legge elettorale, specie se questo obbrobrio lo hai varato tu stesso, a colpi di fiducia, peraltro dopo aver varato, nello stesso modo, l’incostituzionale Italicum. Quando perdi a Sesto San Giovanni e a Sant’Anna di Stazzema e non fai eleggere la sindaca di Marzabotto, le note di “Bella ciao” non bastano più: non hai saputo presidiare i valori supremi del lavoro, fondamento della Repubblica democratica, e dell’anti-fascismo, tutto ciò che ti era rimasto dopo vent’anni di errori e contorcimenti.

E non sarà qualche volto giovane e nuovo, per quanto autorevole, a mutare lo stato delle cose. È l’impianto di questo partito a essere in discussione. Nato con l’idea di temperare al centro le pulsioni della sinistra, è stato travolto dalle crisi a ripetizione degli ultimi quindici anni, senza mai dotarsi di un pensiero adeguato ad affrontarle. Spiace dirlo, ma non basta proclamare: “Torniamo nelle fabbriche”. La forza della sinistra stava nel trasformare gli operai in attori politici: nella classe dirigente del PD, a qualunque livello, le classi subalterne non sono quasi contemplate, per il semplice motivo che quel soggetto si è sempre occupato dei vincitori della globalizzazione e mai degli sconfitti, aprendo praterie dapprima al grillismo e poi alla destra. Fa bene, dunque, Orlando, a mettere in dubbio i capisaldi del capitalismo perché, a furia di parlare di merito e promuovere l’eccellenza (la Buona scuola è la sintesi di questa concezione del mondo), sono troppe le persone e le categorie che si sentono escluse, se non addirittura calpestate.

Come spiegò una volta Bersani, bisogna tornare a guardare il mondo con gli occhi dei più deboli e, aggiungiamo noi, ritrovare un’identità. Stupirsi per il fatto che la destra ce l’abbia eccome, e non abbia alcuna intenzione di rinunciarvi, come abbiamo visto al momento di scegliere i presidenti delle Camere, non aiuta. La domanda che sorge spontanea è se il PD, frutto della “fine della storia” e dell’idea che non esistano alternative al capitalismo selvaggio, sia ancora in grado di trasformarsi in quell’infrastruttura di cambiamento di cui, da anni, si avverte disperatamente il bisogno.

M5S, l’isolamento alla lunga non paga

Giuseppe Conte, dal canto suo, deve stare attento. Quando si palesò la scissione di Di Maio, infatti, ne sottovalutammo la portata e l’impatto. Per quanto Impegno Civico sia andato malissimo, mentre i 5 Stelle, alle recenti elezioni, hanno ritrovato slancio e vitalità, non possiamo non prendere atto che fra gli scissionisti figurano anche personalità di notevole valore, espressione di un malessere esistenziale di quella compagine che è destinato a riaffiorare a breve. Lo splendido isolamento predicato dai falchi, per dire, rischia di rivelarsi dannoso perché l’elettore di sinistra può anche essere disposto a votare 5 Stelle a livello nazionale per dare una lezione alla dirigenza del PD, ma non è disposto, ad esempio, a vedere il Lazio finire nelle mani di questa destra senza opporre alcuna resistenza.

Allo stesso modo, c’è un’ampia classe dirigente stellata, sui territori, che apprezza la radicalità dei toni ma non è disposta a bruciare i ponti e a condannarsi all’opposizione a vita. Non solo: il mito dell’andar da soli poteva avere un senso quando ancora il M5S non aveva affrontato la prova di governo, non ora che ha governato con tutti, eccetto la Meloni, e vissuto da protagonista un’intera legislatura. E allora ci risuonano nelle orecchie le parole di chi denunciò che il nuovo corso non si fosse mai aperto, al pari della stagione della maturità, della responsabilità e di una crescita che passa, per forza di cose, dall’assunzione delle varie decisioni sulla base di una visione globale dei fenomeni e non della consultazione dell’ultimo sondaggio.

Certo, non si può negare che il governo Draghi si sia comportato male nei confronti dell’allora partito di maggioranza relativa, mettendone costantemente in discussione i provvedimenti più significativi e vivendo con fastidio ogni minima critica. Così come non si può negare l’evidenza di un progressivo logoramento dei rapporti con un PD che solo ora, e speriamo che duri, sembra essersi reso conto dell’insostenibilità delle larghe intese sine die. Uno statista, e ci auguriamo che Conte lo sia, rispolverando le qualità che aveva dimostrato a Palazzo Chigi, non può tuttavia non preoccuparsi di ciò che accade all’interno del suo partito. L’impressione, dal Quirinale in poi, ma forse anche da prima, è che sia mancato il dialogo con chi non chiedeva nulla per sé ma solo di non gettare all’aria una coalizione senza la quale la sconfitta è destinata a diventare eterna, con conseguenze gravissime soprattutto per coloro che i 5 Stelle si son proposti di rappresentare.

Un gruppo di intellettuali, a metà strada fra PD e 5 Stelle, ha chiesto lo scioglimento del PD e l’edificazione di una sinistra che non si vergogni più di essere tale. Il professor De Masi ha scritto, di recente, sul Fatto che la fusione fra le tre anime della sinistra sia impossibile. Per una volta, crediamo che sbagli. Anche il M5S, a nostro giudizio, dovrebbe avere il coraggio di andare oltre se stesso. Se il fu campo progressista non diventerà a breve un soggetto politico compiuto e unitario, difatti, il rischio è che vengano a crearsi due vuoti: quello di un governo le cui divisioni sono palesi prim’ancora di nascere e quello di un’opposizione in cui ciascuno va per conto suo, abbandonando al proprio destino i sommersi di una crisi che per molte e molti di essi potrebbe costituire il colpo di grazia.

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