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La guerra non piace a nessuno, eppure da millenni l’uomo non sembra riuscire a farne a meno

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“Francamente, la guerra mi è piaciuta”. Con queste parole il britannico Adrian Carton de Wiart, veterano di svariate guerre da quelle contro i boeri fino al secondo conflitto mondiale dalle quali uscì anche mutilato, commentò nelle sue memorie la sua esperienza.

S&D

Un commento insolito che potremmo definire particolarmente onesto, perché la guerra di base non piace a nessuno, per quanto da millenni l’essere umano non riesca a fare a meno di combatterla.

Di fronte a questo sconfortante fatto, si è provato in più occasioni, con leggi e convenzioni, a dare un quadro normativo ai conflitti armati, a inserire dei punti fermi per provare a fare in modo che divenisse un affare gestibile solo da professionisti delle armi e che non coinvolgesse civili né infrastrutture. Ma purtroppo il concetto stesso di guerra è qualcosa che si basa sulla sopraffazione dell’altro, sulla sopravvivenza di uno e la morte di un altro: dinamiche per cui si è pronti a qualsiasi cosa e in cui è difficile per un quadro normativo trovare applicazione. Non è un caso che Gino Strada, uno che si è sporcato le mani per aiutare le vittime dei conflitti in tutto il mondo, definiva la guerra come la negazione di ogni diritto.

Se la guerra non piace a nessuno di conseguenza la pace, almeno sulla carta, piace a tutti. Non è un caso che “la pace nel mondo” sia diventato sinonimo di desiderio scontato da esprimere, magari in un contesto pubblico in cui si può trovare una scontata approvazione. Ma pur piacendo a tutti, molto meno unanime è la strada da seguire per raggiungere questo ambizioso obiettivo.

La Prima Guerra Mondiale veniva chiamata da molti suoi contemporanei “la guerra per porre fine a tutte le guerre”, eppure i conflitti non si sono fermati. Organismi internazionali, dalla Società delle Nazioni all’ONU, hanno provato a gestire le controversie tra Paesi su un altro piano. Ma niente, mentre gli occhi di tutto il mondo sono alla guerra in Ucraina, mentre dallo Yemen all’Afghanistan, dall’Etiopia alla Siria si continua a morire, sembra evidente che tale obiettivo come comunità umana non lo abbiamo raggiunto. Questo perché se sul volere la pace siamo tutti d’accordo, sul come ottenerla siamo divisi, tra chi pensa che serva fermare le armi a costo di farlo unilateralmente, chi ritiene necessario sopraffare prima il nemico, chi pensa si debba trattare e chi ritiene che per arrivare alla trattativa serva una posizione di forza da parte di uno degli schieramenti. La domanda da porsi, in qualsiasi conflitto, non può infatti essere solo quando finisce o come finisce, ma anche “a che costo”. Perché è giusto anche chiedersi se una pace interrompa le ostilità nell’immediato ma rischia di vacillare facilmente, di accendere altri focolai, che arriva a un costo di vite umane elevatissimo o dopo decisioni politico-militari particolarmente controverse, rappresentino allo stesso modo una vittoria della pace. La guerra uccide sul campo, ma divide anche chi vorrebbe che non esistesse.

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