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Ecco perché l’intelligenza artificiale rischia di uccidere le parole (di G. Gambino)

Immagine di copertina
Credit: Pixabay

Non è anti-progressismo, non è chiusura mentale, non è la strenua difesa di un modello che tutto sommato è sopravvissuto per oltre un millennio. Quanto piuttosto la necessità di evitare, nell’età del computer, un ulteriore imbarbarimento della mente umana pena la sua completa incapacità a ragionare

Esistono diversi motivi per cui l’intelligenza artificiale possa oggi essere considerata un’enorme opportunità per la specie umana e la sua evoluzione. Eppure, nonostante tutto, ne esistono altrettanti per cui la società dovrebbe opporsi all’affermazione del robot sull’uomo.

S&D

Non è anti-progressismo, non è chiusura mentale, non è la strenua difesa di un modello che tutto sommato è sopravvissuto per oltre un millennio. Quanto piuttosto la necessità di evitare, nell’età del computer, un ulteriore imbarbarimento della mente umana pena la sua completa incapacità a ragionare.

L’idea che una macchina possa redigere un testo è sorprendente e sensazionale, certo. Ma riflettete su questo aspetto. Per scrivere un articolo di giornale, ad esempio, sono necessarie almeno due competenze: 1) conoscenza della materia su cui si vuole scrivere; 2) capacità di sapersi esprimere nella lingua italiana.

Affidare la scrittura di un testo (o parte di esso) a una macchina può garantire entrambe queste competenze, ma con alcuni limiti importanti. Il primo: il contenuto di quell’articolo sarà il frutto di una serie di conoscenze e informazioni raccolte a strascico sulla Rete, già appannaggio delle Big Tech, con ciò assegnando all’algoritmo del motore di ricerca un’importanza senza precedenti, tenuto conto che quel testo sarà di per sé il prodotto finale (e nemmeno più uno fra i tanti contenuti a disposizione tra cui scegliere).

Questo cocktail informativo potrà anche essere impeccabile da un punto di vista qualitativo (fatto comunque opinabile) ma non potrà, in ogni caso, mai supplire alle conoscenze di chi con i propri occhi descrive ciò che ha visto e studiato negli anni.

Il secondo problema: negli ultimi decenni la lingua italiana ha subito un imbarbarimento notevole, come spiega Vittorio Coletti, studioso e accademico della Crusca, nel suo libro “L’italiano scomparso. La grammatica della lingua che non c’è più” (Il Mulino editore), tale per cui abbiamo perso migliaia di termini, oggi sempre più desueti o completamente scomparsi. Affidare il futuro della scrittura a una macchina può accelerare ulteriormente questo processo involutivo.

Chiedere a un robot di completare la frase di un testo che vogliamo scrivere, di una canzone che vogliamo comporre o di una linea di codice che vogliamo sviluppare è affascinante ma può risultare un problema per la specie umana. Da oltre mezzo secolo le nostre menti sono tarate a pensare sempre meno. A rimanere pigre. C’è uno strumento per tutto, un’app che pensa persino al posto nostro.

L’intelligenza artificiale, sotto molti aspetti, non è altro che il processo evolutivo di questo enorme cambiamento che riguarda le nostre vite.

Da quando esiste il T9 – lo strumento grazie al quale digitando tre lettere sul proprio smartphone si ottengono suggerimenti multipli e simultanei per scrivere più rapidamente questa o quella parola – si è accorciata la capacità di articolare termini e si è ristretto ulteriormente il vocabolario. Con il risultato che avremo forse risparmiato 0,2 centesimi di secondo a parola del nostro tempo, ma abbiamo anche smarrito la nostra capacità di comunicare.

L’idea che chi della scrittura fa la sua professione venga gradualmente sostituito dall’intelligenza artificiale potrà forse sembrare allettante per alcuni editori volenterosi di risparmiare sullo staff, ma porterà un danno enorme alla società tutta. La supremazia della tecnica non renderà il nostro mondo un posto migliore se a scrivere (e a pensare) sarà un robot anziché un essere umano.

E meno che mai lo renderà più veritiero. Al contrario: lo renderà solo più semplicistico, a danno della complessità, e più povero nelle sue già pigre espressioni idiomatiche. Quando invece il linguaggio necessita della “fatica” e del necessario “sforzo” per reperire le parole giuste. Sempre.

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