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Altro che nazionalizzazioni: Giorgia vende tutto

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Credit: AGF

La rete Tim passa al fondo Usa Kkr. Ita va ai tedeschi di Lufthansa. L’ex Ilva resta in mani indiane. E si prepara una stagione di privatizzazioni. Meloni parlava di difesa dell’italianità. Ma ecco com’è andata a finire con Fdi al governo. Chiamateli pure "patrioti del mercato"

C’è stato un tempo in cui Giorgia Meloni si indignava per la vendita di aziende italiane a compratori stranieri, rimaneva scandalizzata davanti a uno Stato che «permette a entità finanziarie estere di banchettare indisturbate sulle infrastrutture strategiche», gridava che lei non avrebbe mai ceduto «alla grande finanza internazionale». 

S&D

Quel tempo è finito la sera del 25 settembre 2022, quando Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni politiche. Da presidente del Consiglio, Meloni – pur mantenendo a parole un atteggiamento intransigente contro i falchi forestieri pronti a depredare la «Nazione» – ha abbracciato, nella pratica, una posizione ben più elastica rispetto alle dinamiche del mercato globalizzato.

E così, proprio sotto il Governo dei “patrioti” sovranisti, si sta consumando la vendita della rete Tim agli americani di Kkr, la progressiva cessione di Ita Airways ai tedeschi di Lufthansa e la rinuncia al piano di nazionalizzazione di Acciaierie d’Italia, mentre il proposito di far entrare lo Stato in Stellantis è silenziosamente evaporato.

Una linea, questa, su cui ha avuto certamente un peso il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, un leghista laureato alla Bocconi che ha fissato l’obiettivo – a dire il vero poco realistico – di raggranellare 20 miliardi di euro in tre anni da una serie di privatizzazioni ancora non ben definite. Nel giro di quattordici mesi si è passati, insomma, dalle nazionalizzazioni alle privatizzazioni. Tutto legittimo, e forse in certi casi persino inevitabile, ma in campagna elettorale la musica suonata dai meloniani era tutta un’altra.

Cortocircuito sulla rete
Prima di insediarsi a Palazzo Chigi, Meloni sosteneva che la rete di Tim andasse nazionalizzata. In un’intervista a Radio 24, nell’agosto 2022, auspicava «una rete unica di proprietà pubblica». «Il punto – sottolineava – è scorporare la proprietà della rete, che non può essere privata, come non lo è da nessuna parte per un fatto di sicurezza nazionale e tutela dell’interesse nazionale». 

A conferma di questa linea, nel programma elettorale di Fratelli d’Italia si proponeva, alla voce «tutela delle infrastrutture strategiche nazionali», di «garantire la proprietà pubblica delle reti sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni».

In particolare, secondo indiscrezioni mai smentite circolate alla vigilia delle elezioni politiche, il piano meloniano prevedeva che Cassa Depositi e Prestiti, già titolare del 10% di Tim, lanciasse un’Opa sul restante 90% per poi procedere a uno spezzatino, vendendo gli asset dei servizi e mantenendo solo la proprietà della rete.

Sappiamo, invece, come poi le cose sono andate a finire. Il Governo dei “patrioti” ha presto abbandonato la pista Cdp ed è andato a sponsorizzare l’affondo sulla rete Tim del fondo statunitense Kkr, che non solo è evidentemente una società privata ma è anche uno dei più affamati predatori dell’alta finanza di Wall Street, quella che Meloni fino a poco tempo fa diceva di voler combattere.

E, per inciso, Kkr è anche il padrone della Marelli che lo scorso settembre ha annunciato a sorpresa la chiusura dello stabilimento di Crevalcore, in provincia di Bologna, precipitando nell’incertezza oltre 230 lavoratori, ma quella è un’altra storia.

Con il recente via libera da parte del Consiglio d’amministrazione di Telecom, la rete fissa dell’ex monopolista è stata comprata dal fondo yankee per una cifra intorno ai 22 miliardi di euro (il closing dell’operazione avverrà a metà 2024). Kkr ha siglato un memorandum of understanding con il Ministero dell’Economia in base al quale il Mef diventerà socio di minoranza della nuova compagnia della rete (Netco) con un pacchetto di azioni fino al 20% e un esborso di 2,5 miliardi di euro. 

E pensare che il primo dicembre 2021, in un editoriale a sua firma su Milano Finanza, Meloni si lanciava contro la decisione di Tim di vendere il 38% di FiberCop proprio a Kkr  e contro l’ingresso in Open Fiber del fondo australiano Macquarie: «Questo vuol dire, in termini pratici, che le due aziende sono a sovranità limitata perché prima di fare qualsiasi investimento, o scelta strategica, devono concordarle con fondi americani e australiani», scriveva la leader di Fratelli d’Italia. Per poi concludere: «Mi chiedo come sia possibile non badare all’interesse nazionale e mettersi a fare le majorette di quelli stranieri». 

I contenuti dell’accordo fra il Mef di Giorgetti e Kkr – sottoscritto poco prima di Ferragosto – sono riservati. Nel breve comunicato diffuso dal Ministero si precisa che è previsto «un ruolo decisivo del Governo nella definizione delle scelte strategiche», ma se gli americani hanno messo sul piatto più di 20 miliardi di euro è verosimile pensare che non staranno a guardare. Difficilmente accetteranno di mettersi nelle mani dello Stato italiano.

Per giunta, il fondo newyorkese si porta dietro gli emiratini di Adia, il fondo sovrano di Abu Dhabi, che partecipa con una quota di minoranza al veicolo con cui è stato formalmente chiuso l’accordo per Tim. Dunque, le redini di Netco passano a un fondo speculativo americano affiancato da un partner arabo. Altro che italianità.

Importante nota a margine: sulla rete di Tim il piano del Governo è quello di arrivare a replicare i modelli Terna (rete elettrica) e Snam (rete gas), dove la parte pubblica comanda con una quota di maggioranza relativa (in quei casi, tuttavia, il controllo dell’infrastruttura non è mai passato in mani private).

Il percorso previsto è che nel giro di cinque o sei anni, una volta realizzata la pluslvalenza desiderata, Kkr esca di scena e rimetta la sua quota sul mercato, lasciando appunto il volante al Mef. Ma la sciagurata storia degli ultimi venticinque anni di Tim, a partire dalla privatizzazione fatta sotto il Governo Prodi fino agli attuali dissidi fra Cdp e Vivendi, è segnata da colpi di scena tali da aver insegnato che le intenzioni dichiarate in partenza raramente vengono rispettate.

Compagnia di bandiera
Anche sul dossier Ita Airways, Meloni ha contraddetto se stessa. Dopo aver gridato allo scandalo in campagna elettorale contro la privatizzazione della compagnia di bandiera, sarà proprio il suo Governo – salvo un improbabile stop dall’Antitrust europeo – a concludere la cessione a Lufthansa.

Ad agosto dell’anno scorso la leader di Fratelli d’Italia esortava il premier in carica Mario Draghi a fermare le trattative in corso con il vettore aereo tedesco, che all’epoca si muoveva ancora in cordata con il gruppo italiano delle crociere Msc: «Ora che abbiamo affrontato sacrifici indicibili per comprimerne i costi, occorre valutare con attenzione la presenza dello Stato nella compagnia e nella partecipazione di altri partner», diceva Meloni, sostenendo che un esecutivo dimissionario avrebbe dovuto astenersi dalla partita.

E il “fratello d’Italia” Fabio Rampelli rincarava la dose, intervistato da Milano Finanza: «Se Draghi vuole forzare la mano al punto di giungere al closing prima del voto, mi pare evidente che esista un accordo inconfessabile per consegnare il business del trasporto aereo italiano ai tedeschi».

Di lì a poche settimane accadde che Draghi congelò il dialogo con Lufhtansa e Msc per avviare un negoziato in esclusiva con la cordata composta dai vettori Air France-Klm e Delta Airlines e dal fondo statunitense Certares: una strada che avrebbe garantito maggior peso allo Stato italiano nella governance. 

Meloni tornò alla carica: «Secondo me bisognava valutare la possibilità di mantenere la nostra compagnia di bandiera perché non ci facciamo certo un figurone a essere, forse, l’unico grande Paese occidentale d’Europa che non ha una propria compagnia di bandiera. È un altro pezzo di Italia che se ne va, e quando questo capita io non sono contenta mai. Tutto quello che posso fare per impedirlo sono pronta a farlo – prometteva la futura presidente del Consiglio – ma se non posso studiare il dossier perché si vuole risolvere tutto prima non sono d’accordo».

Alla fine Meloni, il dossier, è riuscita a studiarlo, perché Draghi non ha fatto in tempo a chiudere quell’operazione. Ed evidentemente la premier ha concluso che l’idea originaria di vendere ai tedeschi non era poi malvagia. Peccato che nel frattempo il partner italiano Msc, stanco delle lungaggini dei negoziati, si sia chiamato fuori. 

Così lo scorso maggio il Ministero dell’Economia – proprietario del 100% di Ita – ha firmato un accordo con la sola Lufthansa per la cessione del 41% della società attraverso un aumento di capitale da 325 milioni di euro.

Ma questo è solo l’inizio del cronoprogramma per la privatizzazione: dopo il 2025, infatti, quando Ita dovrebbe essere diventata profittevole, i tedeschi aumenteranno la propria partecipazione lasciando allo Stato italiano una quota che dovrebbe oscillare intorno al 10% o un rappresentante nel board.

Grazie ai paladini della compagnia di bandiera, dunque, l’ex Alitalia finirà per essere pilotata da un vettore germanico. E forse – va detto – dopo i ripetuti disastri combinati dai politici e dai manager italiani negli ultimi vent’anni, ce lo meritiamo.

Retromarce
Un altro miserevole fallimento industriale italiano – maturato ben prima dell’arrivo di Meloni al potere – è quello dell’ex Ilva. Mai come oggi l’ex gigante dell’acciaio è stato vicino alla chiusura. Manca liquidità e la produzione è ai minimi storici. Il problema è che negli ultimi due anni lo Stato, che possiede il 38% tramite Invitalia, ha iniettato complessivamente più di un miliardo di euro nelle casse del gruppo siderurgico, di cui 680 milioni autorizzati lo scorso gennaio dal ministro dell’Economia Giorgetti, ma il controllo è destinato a rimanere agli indiani di Arcelor Mittal.

Nel 2020 il Governo Conte 2 aveva concordato con la multinazionale un piano che avrebbe dovuto portare Invitalia al 60% dietro versamento di 680 milioni di euro. Come detto, quell’assegno è stato staccato dieci mesi fa, eppure all’orizzonte non si vede ancora nessun rafforzamento della partecipazione pubblica. 

Il ministro meloniano delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, era favorevole al progetto di nazionalizzazione al 60%. Ma dall’estate scorsa le cose sono cambiate. La premier ha esautorato Urso e affidato il dossier ex Ilva a Raffaele Fitto e Alfredo Mantovano, rispettivamente ministro degli Affari europei e sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Risultato: il Governo sta negoziando un nuovo accordo con Arcelor Mittal che non dovrebbe intaccare il controllo dell’acciaieria in capo agli indiani. La nazionalizzazione, in altre parole, non s’ha da fare.

E che dire di Stellantis? Negli anni passati la stessa Meloni e lo stesso Urso hanno più volte invocato l’ingresso dello Stato nel capitale della casa automobilistica nata dalla fusione tra Fiat Chrysler e il gruppo Peugeot. «Presenteremo un progetto che preveda la predisposizione di un piano nazionale per l’automotive e la partecipazione di Cdp nell’azionariato della nuova azienda al pari della quota pubblica francese», annunciava la leader di FdI nel marzo 2021.

Ed esattamente un anno dopo era addirittura il Copasir presieduto da Urso ad auspicare «un interessamento di Cassa depositi e prestiti, il cui eventuale ingresso nel gruppo industriale potrebbe favorire un ribilanciamento di pesi tra la componente francese e quella italiana, così proteggendo le tecnologie e l’occupazione». Da quando i “patrioti” sono al governo, però, la proposta è finita nel dimenticatoio.

Non è più aria per l’ingresso del pubblico nel privato, semmai il contrario: i soldi in cassa scarseggiano e il ministro Giorgetti studia da quali aziende partecipate si può uscire e ricavare un bel gruzzoletto.

La nuova stagione delle privatizzazioni è già iniziata, due settimane fa, con la cessione a 150 investitori del 25% del Montepaschi di Siena, di cui il Ministero dell’Economia detiene comunque ancora il controllo. E le alienazioni potrebbero proseguire l’anno prossimo con operazioni più difficili e quindi lunghe, come mettere sul mercato una quota di Poste Italiane o di Ferrovie dello Stato. L’obiettivo è drenare una ventina di miliardi di euro entro il 2026.

L’era del “ritorno dello Stato”, almeno in Italia, sembra già finita, morta sul nascere. Curiosamente soffocata dagli ex fautori dell’autarchia del terzo millennio.

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