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Confindustria batte cassa e i partiti alzano la voce: per Draghi il difficile viene adesso

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E che succede se adesso s’incazzano pure le Regioni? Appena scampato il patatrac sull’aumento delle spese militari che ha fatto fibrillare la maggioranza, già spuntano altri scogli per Mario Draghi alle prese con le intemperanze e le recriminazioni della variegata compagine che sostiene il suo governo. Ma pure i governatori sono pronti a battere i pugni sul tavolo per due dossier caldissimi: quello della localizzazione del deposito nazionale delle scorie nucleari che da settimane, per cautela, vien tenuto secretato. L’altro, sull’autonomia differenziata, in dirittura d’arrivo dopo due anni e più di approfondimenti al ministero degli Affari regionali.

Materie entrambe esplosive in un clima già arroventato per l’inquilino di Palazzo Chigi. Costretto a salire al Quirinale dopo l’alzata di testa di Giuseppe Conte sulle armi e per la prima volta da quando è in sella a subire l’iniziativa dei partiti, tutti già in campagna elettorale e anche per questo assai poco disponibili a continuare a farsi bypassare a colpi di voti di fiducia. Questo scampolo di legislatura, insomma, per il governo nato in nome dell’unità nazionale rischia di trasformarsi in una via crucis per Mario Draghi.

Pantano Cartabia

Il Csm, le porte girevoli o di altri animali misteriosi. No, non è un capitolo della saga di Harry Potter, ma la riforma dell’ordinamento giudiziario licenziata da Palazzo Chigi all’inizio di febbraio grazie a un accordo di massima raggiunto dalla maggioranza e poi tornato in alto mare non proprio sui dettagli del provvedimento. L’approdo in aula alla Camera è già slittato più volte e pure in caso di accordo incombe la minaccia leghista che al Senato si debba ricominciare daccapo: la ministra della Giustizia Marta Cartabia è costretta a ventilare il ricorso alla fiducia ma intanto è impantanata su una trattativa a tutto campo su le nuove norme che promettono, tra le altre cose, valutazioni professionali dei magistrati più puntuali, lo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura, una stretta al via vai tra funzioni requirenti e giudicanti che non sembrano soddisfare nessuno. Specie per quel che riguarda il nuovo sistema elettorale per il Csm, l’organo di autogoverno della magistratura la cui immagine è uscita ammaccata dallo scandalo Palamaragate. Ma il tempo stringe: più che l’Europa, freme Sergio Mattarella che avrebbe dovuto già firmare il decreto per  la convocazione delle elezioni di luglio che consentiranno di insediare a settembre il nuovo plenum di Palazzo dei Marescialli. Ma il governo arranca anche su questo punto sotto il fuoco dei veti incrociati: l’ipotesi di introdurre una selezione a sorteggio che è visto come fumo negli occhi dal Pd (e dalla ministra Guardasigilli che lo ritiene incostituzionale), è fortemente caldeggiato da Forza Italia, Italia Viva e non dispiace neppure al M5S. Tutto questo mentre si avvicinano i referendum sulla giustizia voluti da Savini per ridare mordente alla sua leadership e un nuovo collante per il centrodestra allargato anche ai renziani particolarmente insoddisfatti per quanto sinora ottenuto in sede di trattativa sulla riforma in corso di esame a Montecitorio che in parte è sovrapponibile ad alcuni dei quesiti che gli italiani saranno chiamati a votare il 12 giugno. La questione giustizia ha tutti gli ingredienti della tempesta perfetta già così anche se andrebbe pure ricordato che i diretti interessati, i magistrati non sono propriamente contenti: quelli ordinari perché ritengono la riforma punitiva o nella migliore delle ipotesi inefficace. Quelli amministrativi masticano amaro per il tradimento del governo che rischia di penalizzare le loro carriere di mandarini di Stato. Senza contare che in ossequio al Pnrr entro dicembre dovrà pure essere approvata la riforma della giustizia tributaria per la quale sono già in allerta solidi potentati.

Il piatto piange

Ma Palazzo Chigi si muove in un campo minato soprattutto con i partiti. L’osservato speciale dopo il braccio di ferro di Giuseppe Conte sulle spese per la difesa è il Movimento 5 Stelle che già annuncia che Draghi non deve più dar nulla per scontato a partire dal Def licenziato ieri (giovedì) dal consiglio dei ministri. «È assolutamente normale un confronto su un documento così strategico per il nostro Paese come il Def. che non è un grigio pdf burocratico, è il principale documento di programmazione nazionale della politica economica e di bilancio e non è lesa maestà chiedere una discussione, come ha fatto il presidente Conte», ha mandato a dire Giuseppe Brescia, presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera individuando tra «le priorità nell’interesse dei cittadini» su cui il M5S intende battere, il contenimento del caro bollette e gli investimenti nella sanità. Il Pd, già superato a sinistra dai pentastellati sulla questione spese per la difesa, ha rilanciato chiedendo al governo entro aprile una vera e propria manovra di bilancio infra-annuale, a partire dai numeri del documento di economia e finanza, mettendo in campo le risorse necessarie, da una parte per prorogare le misure decise in questi mesi che finiscono quasi tutte a giugno mentre la crisi energetica non finirà nel brevissimo periodo e aggiungerne delle altre: nella riunione della segreteria dem con Enrico Letta si è discusso delle misure di contrasto all’inflazione e per il sostegno del potere di acquisto, a partire dal bonus alimentare per i poveri e, fronte caro energia, una indennità di trecento euro come in Germania per tutti i lavoratori dipendenti e autonomi. Il segretario della Cgil Maurizio Landini, da parte sua, invoca misure straordinarie, un nuovo scostamento di bilancio, altro che i pannicelli caldi messi in campo fin qui: serve una moratoria dei mutui, lo stop agli sfratti portare soldi in busta paga e nelle pensioni. Ma Confindustria avverte: produrre è diventato antieconomico. «Il 16% delle aziende italiane, già oggi, ha sospeso o ridotto le produzioni e se proseguiremo con queste condizioni, nei prossimi tre mesi, un altro 30% delle imprese italiane farà altrettanto». Tradotto, Draghi, sgancia la grana: servono dai 30 a 40 miliardi, mentre il governo ne mette sul piatto tra 4 e 5 per non toccare l’obiettivo di deficit.

Mario, (non) basta la parola

Se il confronto su Def si preannuncia tutto in salita in compenso sulla delega fiscale e la concorrenza è già guerra di trincea. Sul fisco il muro Lega-Forza Italia pare granitico specie sul dossier tasse sulla casa. Il là alle ostilità l’ha dato Antonio Tajani: «Noi non siamo di serie B», ha spiegato mettendo sul tavolo lo stralcio della riforma del catasto come contropartita della mediazione raggiunta dal governo Draghi con il M5s sul dossier spese per la difesa. Ora la trattativa passa dalla pretesa di una garanzia, il parere vincolante del Parlamento sui decreti con cui verrà esercitata la delega dal governo, perché non bastano le promesse di Draghi che ha giurato che il passaggio delle rendite ai valori di mercato non porterà un aumento della pressione fiscale. Ma non è tutto: per approvare il ddl concorrenza, come ci chiede la solita Europa, ci sarà da sudare perché da tempo è diventato un campo di battaglia combattuto a suon di emendamenti su temi caldissimi quali le concessioni balneari, la liberalizzazione dei taxi e Ncc, assegnazione di mercato dei servizi pubblici e porti.  Fratelli d’Italia fa la faccia feroce, azzurri e leghisti altrettanto, ma non è che gli altri stiano a guardare perché pure Pd, LeU, M5S e Italia Viva tra stralci, deroghe, slittamenti o richieste di riscrittura delle norme, con le elezioni che si avvicinano, si fan sentire eccome dopo aver ingoiato rospi e fiducie a ripetizione.

Regioni in trincea

Per tacere del malcontento delle Regioni. A rompere l’armonia con Roma il governatore del Veneto Luca Zaia che fa pressing per una rinegoziazione con l’Europa del Pnrr «dato che questo accordo è programmato con una inflazione al 2 per cento che oggi è quasi tripla». Il ministro dell’Economia Daniele Franco gli ha opposto un «giammai». Ma ora però persino il Pd, il socio più affidabile di Mario Draghi, chiede di aggiornarne l’attuazione nei territori perché il Piano di rilancio portato a casa con l’economia in ginocchio causa covid fa a cazzotti con il nuovo quadro macroeconomico determinato dalla guerra. Senza contare che Palazzo Chigi dovrà domare un’altra bestia feroce che rischia di rompere l’unità nazionale in tutti i sensi. Sempre Zaia ma in buona compagnia con le Regioni del nord, compresa l’Emilia Romagna del dem Stefano Bonaccini, chiede di scoprire le carte a Palazzo Chigi sul dossier autonomia differenziata: dopo oltre un paio di anni di studi e approfondimenti, si fa sul serio o è stato solo in bluff? Ora non che il Sud soffra dei sogni di libertà del Nord, ma insomma. Sentite qui il presidente della Campania Vincenzo De Luca. «Il Veneto che ha 800 mila abitanti in meno rispetto alla Campania, per quanto riguarda il fondo sanitario nazionale percepisce pro capite 60 euro in più rispetto a un cittadino campano. Potremmo fare un lungo elenco delle operazioni di rapina consumate a danno del Sud. Sono stanco di subire queste furbate. L’efficienza? Siamo la Regione che nella sanità pubblica paga a 27 giorni, in alcune Asl a 17 giorni, neanche in Svizzera». In compenso Sardegna, Piemonte, Lazio, Puglia, Basilicata, Sicilia e Toscana hanno già il fucile puntato: il ministro dell’Ambiente Roberto Cingolani sta per svelare quali siti dei 67 inizialmente ritenuti idonei in queste regioni, restano candidati a ospitare il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Una lista custodita da un mese circa in gran segreto in attesa del “via libera si pubblichi” di Palazzo Chigi. Dove nel dubbio hanno già indossato l’elmetto.

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