Se Draghi va al Colle serve un governo politico (di G. Cuperlo)
Joseph Heller, l’antimilitarista per eccellenza, il suo “Comma 22” lo aveva concepito a quel modo: «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Volendo storpiarla a beneficio nostro suonerebbe così: «Chi vuole Draghi al Quirinale può chiedere al governo di proseguire il suo cammino, ma chi chiede al governo di proseguire il suo cammino non può volere Draghi al Quirinale».
È davvero così? Probabilmente no, le cose sono più semplici e complicate assieme. Primo, perché i 1009 grandi elettori che il 24 gennaio si alterneranno nei catafalchi pronti a inglobarne i segreti avranno sul collo il fiato del picco pandemico e difficilmente potranno dedicarsi a spericolati equilibrismi o furberie. L’Italia avrà gli occhi puntati su di loro, su quelle schede, sezionerà i nomi che usciranno dalle urne, di quei nomi peseranno valore, prestigio, reputazione.
Perché questo è il punto che Enrico Letta ha rilanciato giustamente: l’eredità principale che Mattarella lascia in dote è l’autorevolezza che ha saputo garantire alla più alta magistratura dello Stato in uno dei tornanti più complessi della storia recente. Ed è anche la ragione che spinge a ricercare la massima unità attorno a una figura – e ce ne sono, di uomini e di donne – in grado quel testimone di raccoglierlo e farlo proprio. Attenzione a credere che questa esigenza sia confinata ai circoli ristretti dei partiti, a giudicare lo svolgersi e l’esito del voto sarà un popolo segnato da due anni di dolore e fatiche, oggi alle prese ancora una volta con le scuole a singhiozzo e il bollettino di reparti e terapie intensive da presidiare. Secondo, perché mai come questa volta la sorte del Colle è intrecciata, letteralmente aggrovigliata, al destino del governo e della maggioranza più spuria che si potesse ipotizzare per lo scorcio finale di una legislatura nata malamente e che non si è cappottata al parcheggio solo per la tenacia e sapienza di Sergio Mattarella. Contrastare l’ultima variante, la più contagiosa anche se al momento la meno letale, attrezzare la macchina della sanità pubblica a colmare lacune e tagli dell’ultimo ventennio, portare in salvo (dopo averle “ristorate” in misura non sufficiente) intere categorie professionali, e ancora, completare un pacchetto di riforme che nel 2022 chiederà decine di decreti attuativi per leggi delega che sole non bastano (dalla giustizia alla concorrenza passando per le pensioni e una fin troppo generica transizione energetica): se questa è l’agenda di palazzo Chigi da qui al 2023 sembra ardito scommettere che vi sia chi più e meglio dell’attuale presidente del Consiglio è in grado di reggere saldamente il timone.
Ma appunto qui torna il paradosso iniziale, perché se vale questa convinzione, altrettanto certo è che una preventiva opposizione a Draghi potrebbe disamorarlo dal compito del dopo, e non per ripicca, più semplicemente perché sarebbe chiamato a fare i conti con una maggioranza prodiga negli encomi e assai più avara nelle concessioni. Col pericolo a quel punto di ritrovarsi, come si dice, senza capra e pure senza i cavoli. Che poi è ciò che il Paese non si può permettere, sacrificare in un colpo solo le due figure oggi più rappresentative sul piano interno e internazionale. Da qui l’abilità necessaria nel tenere assieme la partita del Quirinale e un governo che, laddove al Colle giungesse il premier di adesso, dovrebbe giocoforza e per il bene di tutti riconoscere quell’approdo come premessa per un patto politico della maggioranza e un rafforzamento, non indebolimento, del futuro esecutivo. Allora come uscirne? Nel solo modo concesso a una classe dirigente che faccia il suo mestiere: con la politica.
Chi può e ha mandato per farlo si sieda al tavolo (un tavolo, se c’è la volontà di convocarlo, c’è sempre) e stringa un patto che tenga assieme la successione lassù e un governo quaggiù. Il Pd è pronto. Come direbbe Talleyrand, chi a questa responsabilità dovesse sottrarsi non compirebbe un crimine, ma qualcosa di peggio: un errore.