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Don’t Look Up non è solo un film, ma un piccolo trattato di sociologia culturale della società dell’informazione

Immagine di copertina

“Moriremo tutti”, questo urla in tv la dottoranda in astronomia Kate Dibiasky, protagonista di Don’t look Up, esilarante tragedia su questioni del mondo reale maledettamente serie. Un cast stellare – da Leonardo DiCaprio a Meryl Streep – possiamo definirlo uno dei più bei film degli ultimi anni. Segna un certo cambio di passo della narrazione hollywoodiana, ultimamente logora, e lascia il segno come una delle produzioni Netflix più interessanti. Realizzato con un budget di 75 milioni di dollari, con la regia di Adam Mckay, distribuito in Italia da Luky Red e Netflix appunto, il film è indubbiamente da Oscar, probabilmente meritevole di più statuette: per la sceneggiatura dello stesso Adam Mckay, per il miglior attore protagonista maschile – un DiCaprio semplicemente strepitoso, così come la co-protagonista Jennifer Lawrence nei panni della dottoranda ribelle, e come l’esilarante interpretazione di Meryl Streep nei panni della Presidente degli Stati uniti d’America, la perfetta controfigura di Donald Trump al femminile.

Se non fossimo in una fase in cui l’anticonformismo e la contro-informazione sono diventati valori di destra, sovranisti e patriottici, il film segnerebbe il passo di quel grande movimento che, dagli inizi degli anni ’60 ad oggi, abbiamo conosciuto con il nome di contro-cultura, di cui sposa a pieno il significato: “marcato carattere anticonformistico… dichiarata avversione… alle manifestazioni della cultura ufficiale e ad altri aspetti della vita e del costume della società (tra cui il consumismo e il progresso tecnologico)” Treccani.

Con uno stile davvero godevole, disponibile su Netflix dal 24 dicembre, Don’t Look Up è assolutamente da non perdere: da lodare per la cifra ironica che costella tutto l’arco narrativo dall’inizio alla fine e soprattutto per la capacità nel raccontare alcune dinamiche ormai divenute cliché nella società contemporanea. Questo lungometraggio può essere definito un piccolo trattato di sociologia culturale della società dell’informazione, un vademecum di meccanismi sociali, processi psicologici individuali e collettivi, dinamiche politiche e soprattutto mediatiche, tipiche della gestione di un’emergenza e ormai endemiche a una società nativa digitale che si affaccia alla robotica. La cosa forse più interessante è che temi così delicati – in un potenziale scenario fantascientifico – vengono affrontati in barba a ogni sensazionalismo, che viene invece deriso insieme al patriottismo, dando sempre una lettura politica ad ogni passaggio, caratteristica che lo porta molto al di sopra di quel genere del “disaster movie” nel quale molti vorrebbero incasellarlo. Gli espedienti narrativi si attestano sul piano di una normalità terrificante, fatta di antieroi e di una sfrontata scontatezza che rende tutto tremendamente realistico.

Attorno alla vicenda di un asteroide che, scoperto da alcuni scienziati, si dirige verso la terra, si dipana un teatro dell’assurdo governato da un mondo di fake news e negazionismi spinto fino al paradosso, tale cioè da mettere a rischio l’intero pianeta. Non esiste nessuna citazione esplicitata né allusiva, ma è forte l’accostamento con l’America trumpiana di Compton Hill. Un costante rimando al gioco della politica, alle scadenze elettorali sopra ogni cosa, con il pianeta schiavo di un eterno sondaggio, le grandi testate giornalistiche ridotte a follower dei trend sui social senza alcuna dignità ed autonomia.

Capita spesso mentre si guarda il film di fermarsi un attimo a riflettere e sorridere per le assurdità, quasi al limite della fiction, che ogni giorno purtroppo compongono la nostra realtà. L’analogia tra un meteorite che sta per colpire la terra e il Coronavirus è palese, così come è illustrato con sapiente sarcasmo il balletto delle verità, l’umiliazione del ruolo della Scienza ridotta a zimbello oppure a strumento narciso del potere e al servizio dei big dell’economia. Qui l’accostamento ai volti di molti virologi è lampante. E poi ancora il ruolo della tecnologia, l’annullamento della figura umana rispetto al marketing canaglia, altro tema su cui soffermarsi e riflettere. Anche qui l’accostamento a Steve Jobs, Illon Musk e Jeff Bezos è impressionante, così come premonitrice è la critica agli enti economici privati e sovranazionali a cui i governi abdicano asset importanti della sicurezza del pianeta e che nella realtà sono in grado già oggi di mettere in difficoltà intere nazioni.

Non è scontato tracciare un confine tra quello che viene rappresentato dal film è quello che accade o è già accaduto nella realtà: molti momenti della sceneggiatura rimandano a un vissuto in prima persona, mediato da un post, un tweet, una trasmissione televisiva, presente nel nostro immaginario. Nient’altro, una catastrofe raccontata con leggerezza, dove si ride per non piangere ed emerge il ruolo deleterio e potenzialmente incendiario dell’eccesso di informazione giornalistica, dei social, televisiva con la ridondanza di temi, che finisce per alimentare ancor di più le fake, il disgusto e lo scetticismo sociale. Non esiste la ragionevolezza nel film e se esiste nella vita reale ce ne accorgiamo poco. Don’t look Up è una piccola rivoluzione di cui il Cinema aveva oggettivamente bisogno.

Citazioni più interessanti: “va tutto bene”, “moriremo tutti”, “don’t look up”.

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