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Craxi, uno come noi? (di Marco Revelli)

Immagine di copertina
Bettino Craxi. Credit: Ansa

Hammamet, il film di Amelio che sta sbancando i botteghini, mette in scena l’agonia di Craxi, che è anche l’agonia del socialismo italiano, e della prima Repubblica.

Dice molto di quella lunga morte, ma non dice tutto della precedente vita. Scava nel Craxi morente. Ma tace, o solo allude, al Craxi trionfante. Ed è lì che ci sono tutti i veleni allora interrati e riaffiorati poi, come i rifiuti tossici della terra dei fuochi, dieci, venti, trent’anni dopo, oggi, a segnare la Repubblica morente.

Per questo ho intitolato, come paradosso, “Craxi, uno come noi”? Col punto interrogativo, certo. Ma poi nemmeno tanto. Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro di una decina di anni rispetto alle immagini che aprono il film di Amelio, quelle milanesi dell’ex Ansaldo ristrutturata, con la fantasmagorica piramide rossa disegnata da Panseca a far da sfondo all’immagine del Segretario-Capo che concludeva il 45° Congresso del PSI, l’ultimo – nel 1989 – al culmine del successo e prima del diluvio.

Dobbiamo scalare di quattro Assise socialiste e ritornare al Palazzetto dello Sport di Torino, grigio, spoglio dove nel 1978 si era tenuto il 41° Congresso. Un Congresso davvero di “svolta storica”, in cui Bettino (come lo chiamavano i compagni di corrente) si prese il Partito tutto e inaugurò una nuova era, di successo e di caduta.

Craxi aveva avuto allora un’intuizione davvero “felice” (politicamente parlando). Aveva capito prima di tutti gli altri che il “compromesso storico”, lanciato cinque anni prima da Enrico Berlinguer e giunto a parziale e spuria realizzazione con i governi di “solidarietà nazionale”, era una minaccia mortale per il Psi: presa nella tenaglia dell’abbraccio tra Dc e Pci, l’ultima incarnazione del socialismo italiano rischiava in senso proprio l’estinzione (le ultime elezioni politiche e amministrative già suonavano a morto).

E aveva iniziato la propria lotta “per la sopravvivenza” (vera darwiniana “struggle for life”), per difendere e allargare lo spazio vitale del Partito all’insegna del primum vivere. Su quell’istinto pavloviano – istinto di conservazione in qualche modo etologico prima che politico – aveva conquistato, trasversalmente alle correnti, i propri compagni.

Che infatti a Torino lo proclameranno Segretario con il 65% dei consensi: una maggioranza quasi plebiscitaria, senza precedenti nella storia di un partito solitamente afflitto dallo scontro tra correnti, maturata in uno scenario apparentemente continuista (i lavori si erano aperti al canto dell’Inno dei lavoratori e di Bandiera rossa e si erano chiusi con Bella ciao) ma in realtà destinata a spezzare in due la storia del socialismo italiano.

Quella guerra, infatti, Craxi la condurrà “con ogni mezzo”, lecito o illecito, con spregiudicatezza e durezza che gli conquistarono l’ammirazione dei “suoi” e degli “altri” (in generale gli uomini di potere di ogni colore), facendo appunto del Potere (dell’”occupazione” del potere) la propria arma principale, fosse il controllo delle banche o la complicità con le nascenti potenze della comunicazione, interpretando alla lettera il motto per cui “c’est l’argent qui fait la guerre”.

Suggerisco di rileggere la celebre intervista di Enrico Berlinguer a Eugenio Scalfari del 28 luglio dell’’81 – quella intitolata Dove va il Pci? ma passata alla storia come l’apertura della “questione morale” – per cogliere il nocciolo della cosa.

A un certo punto Scalfari chiede a bruciapelo: “Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?”. E Berlinguer risponde: “No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo”.

E in questo è onesto. I comunisti avevano incominciato a corteggiare strati ampi di borghesia e ceto medio ben prima di diventare un catch-all party, un partito pigliatutto, per lo meno da quando Togliatti aveva inventato la “via italiana al socialismo” e sostenuto la necessità di “raccogliere le bandiere lasciate cadere dalla borghesia”.

Subito dopo però aggiunge che questa “apertura” è apprezzabile solo a condizione che questi “nuovi voti” eventualmente strappati alla Dc dai socialisti e dai partiti laici siano utilizzati per una vera politica di mutamento.

Se sono invece, come non mancherà di rilevare, solo frutto di trasferimenti clientelari per “consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e amministrare che ne conseguono”, il giudizio non potrebbe che essere durissimo.

E infatti lo sarà, perché proprio di lì parte il fuoco ad alzo zero del Segretario del Pci sulla pratica politica craxiana, la sua occupazione del potere e la sua contaminazione morale: “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo – dice -. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali […] Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico – conclude -: Tutte le ‘operazioni’ che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti”.

Il J’accuse coinvolge la Dc, ma si capisce che la vera pietra dello scandalo è lo “stil nuovo” socialista e l’inedita spregiudicatezza – per usare un eufemismo – dell’ex partito fratello diventato coltello (e “forchetta”).

Visto ora da lontano, quello scenario, giudicato col senno del poi, bisogna dire che quella diagnosi impietosa era in qualche modo un’“inattuale” – un’altissima “Inattuale” -, e che lo spirito del mondo in quella congiuntura lo interpretava in realtà il protagonista negativo dell’invettiva, il Craxi che per difendere il proprio spazio di sopravvivenza si allontanava dalle proprie stesse origini fino a diventarne altro…

Infatti quello che andava nascendo tra la seconda metà degli anni Settanta e gli anni Ottanta era davvero un mondo nuovo, già diverso – strutturalmente diverso – dal resto del Novecento e, per molti versi, dalla stessa modernità politica in senso proprio.

È del settembre del ’79 l’”epocale” discorso del Presidente della Federal reserve americana, Paul Volker, con cui si proclamava esaurito il lungo ciclo inaugurato della crisi del ’29 e segnato dall’obiettivo cardinale della lotta alla disoccupazione e del perseguimento, da parte di qualunque istituzione di governo, della piena occupazione e si apriva un nuovo ciclo all’insegna dell’inflazione come fattore da abbattere e della rigidità del salario operaio come nemico principale.

Incominciava allora quella che Luciano Gallino definirà la “lotta di classe dopo la lotta di classe”, cioè l’inversione di direzione del conflitto sociale, non più dal basso verso l’alto ma dall’alto, dalla ricchezza, contro il basso, il lavoro – dai Palazzi contro le Capanne – per riprendersi tutto ciò (diritti, reddito, status) che nei decenni precedenti il Capitale aveva dovuto cedere all’azione organizzata dei lavoratori.

Poi verranno Donald Reagan e la reaganomics, con il ciclone delle privatizzazioni e delle de-industrializzazione, Margareth Thatcher e il suo proclama su “La società non esiste, esistono solo gli individui”, le sconfitte storiche dei “35 giorni della Fiat”, dei minatori delle Midlands inglesi, dei siderurgici francesi… Non più il Lavoro, ma il Denaro diventava la misura dei valori.

Contemporaneamente cambiavano ruolo e peso del sistema mediatico, con l’avvento delle TV commerciali, la pubblicità fattasi linguaggio universale capace di disegnare l’immaginario collettivo più di ogni antica sacra scrittura.

L’edonismo (“reaganiano” come lo denominarono “Quelli della notte”) assurto a cifra del comportamento approvabile e conforme, leggibile persino (così almeno i neosocialisti di allora lo lessero) come forma, sia pur spuria, di un laicismo dissacratore, portato, in qualche modo, dello stesso voto referendario del ’74 sul divorzio (quello in cui Pasolini vide un’ombra di inedito egoismo di mercato, nell’affermazione della sovranità assoluta dell’individuo e dei suoi interessi particolari sciolti da ogni vincolo sociale e inter-personale).

E poi la frammentazione del linguaggio e dei linguaggi, condotta all’estremo, fino a rendere impossibile ogni punto di vista collettivo, e la performabilità dei comportamenti (la loro possibilità di avere “successo”) come principale se non unico criterio di scelta.

Craxi imparerà prima, e meglio di ogni altro, perlomeno qui da noi, a nuotare in quelle acque nuove e un po’ torbide, e in esse alla fine naufragherà. Si assicurò una posizione egemone nel nuovo sistema mediatico stringendo un detestabile pactum sceleris con il nascente dominus del mercato televisivo e pubblicitario, indifferente alle spesse ombre e ai legittimi sospetti sulla natura e sull’origine di quel potere, regalandogli, con forzature inimmaginabili fino ad allora, le concessioni televisive necessarie (i cosiddetti “Decreti Berlusconi”, i primi ad personam).

Portò a compimento la mercatizzazione della politica, incorporandovi come naturale componente il voto di scambio e la pratica tangentizia (“Mi spiace deludervi, ma la democrazia ha un costo” gli farà dire Amelio nel film).

Nel febbraio del 1984 spaccò il sindacato (con quello diventato celebre come l’”accordo di San Valentino”) tagliando per decreto la scala mobile e quindi il reddito dei lavoratori. In compenso favorì la rendita, tanto quella edilizia (suo è il primo “condono”, ancora nell’’84) che quella finanziaria.

I quattro anni dei governi da lui presieduti e in generale il periodo del “pentapartito” o, se si preferisce, del CAF (Craxi, Forlani, Andreotti) sono quelli in cui si è formato l’enorme debito pubblico che ancora oggi ci tormenta, per l’uso non solo spregiudicato ma esplicitamente smodato della spesa pubblica (e in particolare degli abnormi tassi d’interesse dei Bot) che portò la percentuale d’incidenza sul Pil a esplodere (era intorno al 60% all’inizio degli anni ’80, è balzato al 120% un decennio più tardi…). Era il modo con cui i partiti di governo si compravano il consenso del ceto medio-alto…

Infine Craxi interpretò politicamente l’individualizzazione del mondo rafforzando e personalizzando la propria leadership, fino al limite del rapporto proprietario col suo partito e con le stesse istituzioni statali, con l’idea sottintesa che controllando la Cassa si controllino gli uomini.

E con la tendenza, via via crescente man mano che si dilatava il suo Ego, a confondere la Cassa comune con i propri conti privati, secondo una deriva tendente alla confusione del confine tra pubblico e privato che conosceremo fin troppo bene nei decenni successivi.

Per tutte queste ragioni, quella lunga intervista dell’’81 di Berlinguer, mi sembra una sorta di testamento, e insieme una profezia in buona misura “visionaria” di quanto ci sarebbe toccato vedere nei decenni successivi.

Non riesco a togliermi di dosso la sensazione che fosse il documento di un uomo lacerato, che vedeva l’accelerazione crescente del tempo vissuto “spaccare” per così dire la Storia, la “sua” storia, divaricando ferocemente futuro e passato e costringendo al taglio cruento delle radici chi volesse stare attivamente nel presente.

Le immagini finali dell’ultimo segretario del Pci vissuto sacralmente dalla propria gente, quel 7 giugno dell’’84, su quel palco di Piazza della Frutta a Padova, il corpo scosso dai conati, i capelli scomposti, lo sforzo estremo di continuare a parlare mentre dentro qualcosa si rompeva, sono il simbolo di quella lacerazione, giunta a spezzare persino gli organi fisici dell’uomo, nell’impossibilità di tenere insieme i lembi di una faglia che si allargava implacabilmente e si rappresentava in quell’ictus devastante.

Berlinguer, nei tre decenni e mezzo che hanno seguito la sua scomparsa è stato intensamente rimpianto e venerato, ma le sue tracce nelle pratiche politiche sono pressoché assenti.

Craxi, nei sei anni di latitanza ad Hammamet e dopo la morte, il 18 gennaio del 2000, è stato largamente deprecato, ma i segni di una sua presenza (o della presenza della sua ombra) nella politica della cosiddetta Seconda Repubblica e poi oltre, nel nostro sconcertante presente, sono evidenti.

Li vediamo nell’altalenante ciclo berlusconiano. Li vediamo nelle esibizioni funamboliche e nella spregiudicatezza impudica di Matteo Renzi (che di recente l’ha celebrato con la frase “Fece riforme pazzesche!”).

O in quelle muscolari di Salvini (tutti, diciamolo, leader in sedicesimo se confrontati con la ben più alta statura politica del capostipite). Li ritroviamo, sistemici, nel rapporto profanante tra politica e denaro, politica e corruzione, politica e mercato.

Nella scomparsa dal giudizio politico del senso morale bollato come “moralismo”. Oltre che nella sempre più sfrontata esibizione di personalizzazione e arroganza del potere. Quando nel 1984 (Craxi era già Primo ministro) a conclusione del Congresso di Verona venne eletto Segretario “per acclamazione”, Norberto Bobbio – che pure era socialista e in un primo momento aveva appoggiato il nuovo corso craxiano – scrisse un severissimo editoriale sul quotidiano “La Stampa” dal titolo La democrazia dell’applauso (che gli costerà la qualifica di “intellettuale dei miei stivali” da parte del leader irato).

Incominciava così: “Non riesco a capire come il partito socialista che si considera democratico, ed anzi si ritiene al centro del sistema democratico italiano di cui avrebbe reso possibile in questi anni la governabilità, abbia acconsentito ad eleggere per acclamazione il suo segretario generale”.

E proseguiva: “L’elezione per acclamazione non è democratica, è la più radicale antitesi della elezione democratica. È la maniera […] con cui i seguaci legittimano il capo carismatico; un capo che proprio per il fatto di essere eletto per acclamazione non è responsabile di fronte ai suoi elettori. L’ acclamazione, in altre parole, non è una elezione, è un’investitura. Il capo che ha ricevuto un’investitura, nel momento stesso in cui la riceve, è svincolato da ogni mandato e risponde soltanto di fronte a se stesso e alla sua ‘missione’”.

L’articolo concludeva con qualche parola di comprensione per “l’entusiasmo” dei militanti di quel partito felici di avere per Segretario “un uomo politico di forte carattere, autorevole, che ha dato al partito un’unità sinora sconosciuta” ma con l’invito, perentorio “a ricordare ancora una volta che la democrazia è il governo delle leggi non degli uomini”.

Sembrano parole scritte oggi, in un tempo tuttavia in cui il governo degli uomini e non delle leggi non fa più scandalo. E un capo – partito – anzi un “Capitano” – può sbertucciare la Suprema Corte, custode appunto della “Legge fondamentale”, come “sacca di resistenza del vecchio sistema” senza sollevare scandalo.

O utilizzare il fatto di aver violato la legge (caso nave Gregoretti) come strumento elettorale per accrescere il proprio consenso senza tirarsi addosso una valanga di Daspo, anzi moltiplicando le proprie comparse televisive.

Né stupisce che ad Hammamet, in questi giorni, per celebrare i vent’anni dalla morte, siano sbarcati in tanti, trasversalmente, dal verdiniano Barani al piddino Gori (“per non lasciare Craxi alla destra” ha detto, e poi aggiunto “Berlinguer aveva torto e Craxi ragione”), al salviniano Rixi, fresco di condanna a tre anni e cinque mesi, accompagnato dal suo pari Armando Siri, da Giggino ‘a purpetta alias Luigi Cesaro, forzista, curvo sotto i suoi carichi penali, al renziano doc Davide Faraone oltre al fedelissimo di sempre Ugo Intini.

Giorgetti (che qualche tempo fa aveva dichiarato che “Craxi è nel pantheon dei miei politici ideali insieme a Sturzo e Bossi” sic!) e Zaia hanno mandato un messaggio (la Lega, quelli, ricordate?, del cappio in Parlamento, era rappresentata ufficialmente dall’ex ministro Garavaglia), mentre Silvio Berlusconi si è limitato a paragonare l’amico Bettino a De Gasperi…

Per questo ho intitolato Craxi, uno di noi. Lasciando il punto interrogativo come optional.

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Viaggio ad Hammamet, 20 anni dopo: perché Craxi non può diventare una bandiera (di Luca Telese)
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