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L’emergenza Coronavirus sta mostrando che la scuola favorisce i ricchi: il grande gap tra chi può e chi non può permettersi la didattica a distanza

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Il Coronavirus a scuola: la didattica a distanza favorisce i ricchi

Nel mondo della scuola in questo momento ci sono due tifoserie che si stanno scontrando: c’è chi invoca la libertà di insegnamento per contestare la didattica a distanza e chi, in risposta, dice che la scuola non è dei sindacati ma degli studenti. Questo dibattito rischia di diventare sterile e fuorviante, anche dal momento che il dibattito pubblico non sta considerando il problema centrale, ovvero il diritto costituzionale all’educazione e all’istruzione. Siamo tutti d’accordo, la scuola è degli studenti, ma la scuola pubblica è di tutti gli studenti, non solo di quelli fortunati che possono permettersi un computer o che hanno una buona connessione internet.

Il vero problema della scuola in questo momento di emergenza e di didattica a distanza è un problema socio-economico. Di questi tempi, purtroppo, la scuola è solo per chi può seguire le lezioni da casa, e stiamo vedendo che questo non è possibile per tutti. In questo momento, il diritto all’istruzione appartiene solo a chi è fortunato e non deve cedere il computer alla mamma o al papà (che stanno lavorando in smartworking, perché mai avrebbero pensato che in casa servisse un portatile per ciascuno), o di chi non ha fratelli con cui dividersi l’iPad. La scuola, mai come ora, è di chi può permettersela, perché chi non ha la fortuna di avere genitori in grado di procurare i mezzi che oggi servono per restare al passo con la classe resta indietro.

Ci sono professori che non sanno da che parte iniziare e altri in grado di utilizzare piattaforme di comunicazione e condivisione, ma questa non è una condizione sufficiente affinché si possa fare didattica a distanza. La condizione necessaria è che gli studenti siano connessi, che abbiano in dotazione un dispositivo per poter seguire la lezione e che siano in grado di utilizzarlo. La scuola è degli studenti, e, soprattutto la scuola pubblica, deve essere di tutti gli studenti. Stiamo dando per scontato che ogni studente abbia accesso agli stessi mezzi, stiamo dando per scontato che non ci siano differenze socio-economiche importanti tra nord e sud, tra chi abita in centro città o chi invece abita nelle periferie, chi abita in collina o in campagna, stiamo anche dando per scontato che studenti di un liceo abbiano le stesse possibilità di chi invece frequenta un istituto professionale.

Se in un primo momento alcuni osservatori hanno sostenuto che questa emergenza potesse diventare una livella sociale perché tutti, senza distinzioni, possono esserne colpiti, in realtà, scendendo in profondità, ci si accorge che questa pandemia rischia di lasciare profonde crepe e contraddizioni. Consultando i Rapporti di Auto Valutazione (RAV) di un campione di istituti superiori della provincia di Vicenza, provincia nella quale viviamo, è stato semplice verificare che l’estrazione socio-economica è mediamente alta nei licei, mentre scende a medio-bassa negli istituti professionali. Inoltre, molto spesso gli istituti professionali si premurano di specificare nei RAV che si trovano ad affrontare situazioni familiari difficili, dovute ad esempio dalla presenza di un’alta concentrazione di ragazzi con BES o DSA, oppure di origine extracomunitaria.

Il tema delle risorse è fondamentale. Se analizziamo l’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI, Digital Economy and Society Index) vediamo come tre persone su dieci non utilizzano ancora il web abitualmente e più della metà della popolazione non possiede competenze digitali di base. Stessi dati preoccupanti sono contenuti nel report “Educare digitale” di Agcom, che analizza la digitalizzazione della scuola italiana basandosi sui dati del Miur: solo il 47 per cento degli insegnanti afferma di utilizzare quotidianamente nelle proprie attività formative le tecnologie. In altre parole, più della metà dei docenti non è in grado di fornire ai propri studenti una corretta formazione, permettendo lo sviluppo di una cittadinanza digitale consapevole.

Non c’è da stupirsi, dato che soltanto il 9 per cento delle scuole primarie, l’11,2 per cento delle secondarie di primo grado e il 23 per cento delle scuole superiori ha la possibilità di usufruire di banda internet di qualità. Per quanto riguarda la fornitura di rete internet veloce nelle famiglie italiane, secondo i dati Istat 2018 una famiglia italiana su quattro non dispone nella propria abitazione dell’accesso alla banda larga, mentre solo in poco più del 30 per cento delle zone rurali italiane arriva una connessione a banda larga. E oltre alla frattura centro-periferia, esiste anche quella, ancora più marcata, dell’istruzione: sempre secondo l’Istat, solo il 16 per cento delle famiglie senza titolo di studio ha un accesso a banda larga fissa o mobile, contro il 95 per cento delle famiglie con laureati. Se si prendono i dati Agcom sulla copertura internet sul territorio nazionale, appare evidente come ancora in molti comuni la maggior parte delle famiglie non ha accesso a una rete sufficiente per garantire, ad esempio, di partecipare a una lezione in streaming, soprattutto nei territori montani delle catene appenninica e alpina.

Se si amplia la velocità di connessione alzandola a 30 Mbps (velocità che permette non più di due chiamate su Skype alla volta, per dare un’idea), la situazione diventa quasi drammatica, evidenziando come capacità di navigazione non è adeguata per fronteggiare un’emergenza.

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