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Home » Opinioni

A Bucha sono morti anche i segnali stradali

Immagine di copertina
Ricordo una misteriosa definizione che il poeta W. H. Auden diede della guerra: «Un’infinita distanza dalla Madre». Oggi mi torna in mente, carica del raccapriccio provato davanti alle foto giunte dall’Ucraina. Ricordo anche una pagina di Céline, in “Viaggio al termine della notte”. Col suo sarcasmo intriso di pietas, lo scrittore francese, che adorava Parigi e la città, includeva, tra le crudeltà del primo conflitto mondiale, il fatto che, oltretutto, si svolgesse in campagna, nella campagna da lui tanto odiata. Nulla di tutto questo nelle immagini della strage di civili ucraini compiuta dai russi a Bucha. Anzi, a impressionare l’osservatore, qui, sta appunto la distorsione della realtà urbana. Infatti, come se niente fosse, questi scatti mescolano cadaveri e segnali stradali, che continuano a “significare” anche se ormai non c’è più nulla da significare.

Che cosa vuol dire «divieto di svolta a sinistra», in un mondo seminato da morti? È come se una spaventosa stasi si fosse impadronita dell’ambiente metropolitano. Siamo in un universo parallelo, dove solo pochi sopravvissuti vagano tra macerie e semafori inutili e inutilizzati. Questo ci fa riflettere sulla dimensione del senso, quella che Jurij Lotman chiamava «semiosfera». A ben vedere, tutti i cartelli per la circolazione sono messaggeri di pace, ossia, per funzionare, presuppongono la pace. Adesso, invece è come se la realtà abituale fosse stata messa tra parentesi, sospesa per un tempo indefinito. Ora, ogni cosa è diventata possibile: malgrado il segnale che lo vieta, puoi girare a sinistra, se ne hai voglia. Fine delle sanzioni, niente più multe. Nessuno ti dirà nulla, così come nessuno dirà nulla ai carri armati che avanzano contromano.

S&D

Eccolo, il vero stato di eccezione: un’eccezione rispetto all’umanità. È l’anomia, la caduta delle leggi, orrendamente rappresentata dalla violenza che i militari esercitano sulla popolazione inerme. Citando Ermanno Rea, ho spesso ripetuto come le strisce pedonali siano il simbolo della democrazia, in quanto hanno lo scopo di difendere il debole dal potente (ossia l’automobilista). Ebbene il divampare della guerra cancella questo piccolo scudo semiotico, spalancando l’atrocità di un mondo in cui l’unica regola è la mera sopraffazione. E allora mi fermo a guardare il triangolo che invita a «dare la precedenza», accanto a un altro che intima ai veicoli l’obbligo di «seguire la rotatoria». Cosa rappresentano indicazioni del genere, davanti a due corpi buttati per terra? A chi si rivolgono ormai, in uno spazio da cui è sparita ogni forma di condivisione? Questo sistema dei segni, sopravvissuto all’uomo, ha lo stesso destino dei geroglifici, cioè di una scrittura senza più lettori. Forse la guerra è anche questo: un’infinita distanza, oltre che dalla Madre, dalla lingua della socialità, della socievolezza, del rispetto reciproco e della coabitazione.

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