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Il mio viaggio tra le Alpi sulle tracce dei migranti in fuga da Bardonecchia verso la Francia

Immagine di copertina

Lara Tomasetta di TPI ha seguito la rotta che i migranti percorrono da Bardonecchia, in provincia di Torino, per arrivare a Briançon, in Francia. Il nostro racconto sul campo

ESCLUSIVO TPI, Lara Tomasetta inviata a Bardonecchia. Da Torino Porta Nuova il treno regionale passa le stazioni di Grugliasco, Collegno, Alpignano, Rosta, Avigliana, Meana, Chiomonte, Salbertrand, Oulx; attraversa i boschi, supera un certo numero di gallerie, costeggia fiumi e cascate e giunge nella piccola stazione di Bardonecchia, al confine con la Francia.

È solo l’inizio del viaggio per chi ha nel cuore il deserto, negli occhi il mar Mediterraneo e molti ricordi, talvolta struggenti e spaventosi, da lasciarsi alle spalle.

È la rotta dei migranti che vogliono lasciare l’Italia e sanno che percorrendo pochi chilometri a piedi possono arrivare in Francia, in quella che alcuni considerano la seconda casa, il paese deputato ad accoglierli.

“È un po’ la loro nonna, il paese che sentono abbia il dovere di accoglierli e proteggerli per ricambiare anni di colonie e sfruttamento. Si sentono francofoni e vogliono raggiungere amici e parenti nel luogo che più di altri credono possa farli sentire a casa”.

Marina Morello, dottoressa e volontaria di Rainbow4Africa ne ha incontrati molti di ragazzi ostinati a superare il confine. Con lei abbiamo trascorso un turno di guardia nelle sale della stazione di Bardonecchia, proprio quelle dove il 30 marzo scorso la polizia francese ha fatto irruzione, armata e senza autorizzazione, per svolgere un controllo sanitario a un migrante. (In questa intervista la risposta del sindaco di Bardonecchia alle affermazioni del ministro francese dei Conti pubblici con competenza sulle dogane, Gérald Darmanin sull’accaduto).

È una notte fredda. A Bardonecchia nevica da oltre 24 ore e la neve ricopre ogni cosa, anche le tracce del percorso che dal paese conduce a Briançon, dall’altra parte del colle della Scala, passando per la valle Stretta e superando i ripidi tornanti che conducono in Francia. Lì ci sono altri chilometri da percorrere, ma la strada è battuta e la meta sembra ormai vicina.

Manca solo un ultimo ostacolo: la polizia francese.

I gendarmi conoscono bene le rotte e bloccano molti degli sprovveduti avventurieri proprio nel momento in cui hanno superato le parti più complesse del percorso. A provare l’impresa sono per lo più ragazzi che arrivano da ogni parte d’Italia, “giovani dai 16 ai 30 anni di età. Vengono dal Senegal, dalla Costa d’Avorio, dall’Etiopia. Ma a volte giungono anche donne e bambini, intere famiglie che tentano la rotta”. Ci spiega la dottoressa Morello.

Ma la neve è un elemento che i migranti non conoscono. Non ne immaginano la pericolosità e non valutano il rischio che un viaggio del genere può rappresentare.

“Si incamminano con abiti leggeri, per niente equipaggiati, con scarpe da ginnastica, una maglietta, giacche estive e jeans. Lungo il tragitto, per la fatica della salita, cominciano a sudare e lasciano i vestiti lungo il percorso. Appena si fermano, magari in un posto all’ombra o esposto a nord, vengono colti dal freddo e, nel peggiore dei casi, vanno in ipotermia”.

Lo spiega bene Simone Bobbio del Soccorso alpino di Bardonecchia, che insieme ad altri volontari ha trascorso molte notti e giorni a soccorrere i migranti rimasti bloccati sul percorso, o che si sono persi cercando nuovi sbocchi per oltrepassare la frontiera.

Ma il freddo non ferma questi ragazzi, e nemmeno la neve.

“Partono con qualunque condizione meteorologica. Quando c’è stata la grande nevicata dell’8 dicembre, in molti credevano che i flussi sarebbero diminuiti. È avvenuto il contrario: da quel momento in poi il numero delle operazioni di soccorso è esponenzialmente aumentato. Le persone che cercavano di superare il confine partivano a qualunque ora del giorno, mentre i turisti sciavano a pochi metri di distanza e altri percorrevano la stessa tratta con le ciaspole ai piedi”, spiega Simone.

Le sue parole trovano conferma proprio in queste ore, quando alle tre del mattino giunge la chiamata di soccorso per un migrante rimasto bloccato oltre il colle della Scala, quindi già in territorio francese: “La competenza è loro, per cui appena ricevuta la telefonata, abbiamo allertato le autorità francesi che hanno condotto il migrante nell’ospedale più vicino”, ci dice Simone.

Le situazioni più complesse in cui il soccorso alpino si è imbattuto riguardano sempre casi di principio di congelamento: “Ho incontrato ragazzi del Togo, della Guinea, della Costa d’Avorio. A dicembre ci siamo imbattuti in interi gruppi di persone che avevano perso scarpe e vestiti lungo il tragitto, mostrando i segni di ipotermia”, prosegue Simone.

“Il problema – ci spiega – “è che la loro ostinazione è tale da scontrarsi con i pericoli della montagna. Ci hanno ripetuto spesso che dopo aver affrontato il deserto, le carceri libiche e la traversata del mar Mediterraneo su un gommone, non possono essere certo pochi chilometri a fermarli. Per loro si tratta solo di un ultimo tratto”.

“Il soccorso alpino in Francia è gestito dalla polizia e dalla gendarmeria per cui ha regole diverse dalle nostre. Ma anche quando vengono bloccati e riportati a Bardonecchia, il giorno dopo alcuni di quei ragazzi ci riprovano, e qualcuno ci riesce. I passaggi dal colle della Scala stanno diminuendo perché sono aumentati i tentativi tra Claviere e Monginevro, dove non ci sono difficoltà tecniche, ma dove è maggiore la probabilità di essere bloccati”.

“Il grosso dei passaggi è cominciato quest’estate, con la chiusura di Ventimiglia e del Brennero, appena le condizioni meteo torneranno buone, non sappiamo cosa potrà accadere”.

Simone ci accompagna sulla rotta dei migranti, proprio sul percorso che quotidianamente il soccorso alpino compie per recuperare chi si trova in difficoltà.

Dopo i primi chilometri di strada asfaltata, si costeggiano le pista da sci e da lì si prosegue necessariamente a piedi, sul percorso battuto e fino al bivio che separa la strada turistica dal sentiero non battuto. Lì il tragitto si fa impervio, nelle giornate di pesante neve come questa restano poche tracce a condurre il percorso. Ma i migranti sanno quale strada seguire: seppur coperta di neve e appena percettibile all’occhio, resta un traccia, un segno centrale che altre persone prima di loro hanno tracciato. Lì la neve è compatta e non c’è il rischio di sprofondare. Ma basta un piede in fallo per restare sommersi dai centimetri di neve gelata.

“Si informano con il passaparola e poi si armano di qualche cartina dove segnano in modo elementare i punti di interesse. Non tutti sono così preparati, altri partono senza nemmeno capire cosa significhi camminare per chilometri affondando nella neve. Questo significa un pericolo per loro, ma anche per chi poi andrà a soccorrerli”, specifica Simone.

Tra questi ragazzi c’è chi la neve non l’ha nemmeno mai vista e non ha mai provato cosa significhi perdere la sensibilità di un arto, o peggio.

“Ricordo di un ragazzo appena 17enne”, racconta la dottoressa Morello, “al quale provavo a spiegare i rischi della neve. Lui ne era semplicemente entusiasta. La vedeva e saltellava come un bambino. Era deciso a proseguire il viaggio. Lo invitai a camminare nella neve alta per un po’. All’inizio ne fu felice, poco dopo mi guardò e mi disse ‘è peggio del deserto'”.

Dalle sale del soccorso alpino tutto è sempre pronto per qualunque tipo di intervento. Anche loro condividono gli spazi con Rainbow4Africa. I volontari fanno fronte comune all’emergenza che oggi si gestisce in modo pragmatico.

“Fino a un anno fa questo fenomeno non c’era. Durante l’estate abbiamo notato i primi arrivi ma il tutto era sommerso: i migranti si confondevano tra i grossi flussi di turisti che popolano il comune durante il periodo estivo. Una volta che abbiamo compreso come i passaggi fossero costanti e in aumento, abbiamo provato a gestire la situazione. Una piccola amministrazione comunale non si gira dall’altra parte, prova a capire chi può fare cosa. Noi oggi forse riusciamo a districarci perché gestiamo numeri ancora bassi, ci stiamo adoperando per non creare una ‘Ventimiglia bis'”, racconta il sindaco di Bardonecchia Francesco Avato.

“Da inizio dicembre, nonostante le grandi nevicate e le difficoltà che questo percorso presenti specie con il maltempo, i migranti hanno continuato a incamminarsi. All’aumentare dei tentativi di passaggio, sono aumentati anche i soccorsi che abbiamo dovuto prestare. Sempre più ragazzi sono rimasti bloccati nella neve e ci siamo resi conto che dovevamo cercare di spiegare loro i pericoli di un viaggio simile”, prosegue il sindaco.

È per questo motivo che, dopo aver istituito un tavolo operativo, il comune si è fatto affidare da RFI alcune sale presenti nella stazioni ferroviaria. Le stesse sono ora utilizzate dai volontari della ong Rainbow4Africa e dai mediatori culturali della rete dei comuni solidali “Recosol”.

“Quelle stanze sono un luogo istituzionale nel quale far fermare i ragazzi per capire ogni singola situazione. La nostra impressione è che la maggior parte di questi migranti non ha la minima consapevolezza né del luogo in cui va, né del tipo di documenti e diritti di cui può avvalersi”, spiega il sindaco.

“L’attività svolta in stazione è utile, molti ragazzi sono stati reindirizzati e anche quelli spediti indietro dalla polizia francese si sono convinti a non riprovare il passaggio. Adesso stiamo lavorando per limitare i flussi, anche su Claviere, che è in realtà ora la rotta più battuta. Poche settimane fa, ne sono passati 120 in tre giorni, tutti giunti in una casa comunale di Briançon che era al collasso”.

L’attività del centro si è rivelata fondamentale anche in occasione del respingimento della donna nigeriana incinta, respinta alla frontiera francese il 9 febbraio e morta dopo alcune settimane all’ospedale Sant’Anna di Torino.

“Insieme al marito e al figlio è stata rispedita in stazione a Bardonecchia, il nostro mediatore ha capito subito che c’era un problema di salute e ha allertato il medico di turno che ha mandato la donna all’ospedale di Rivoli. Lì hanno verificato che c’era un cancro allo stadio avanzato. Quando hanno capito che la situazione era irrecuperabile è stata trasferita al S. Anna dove i luminari hanno tenuto in vita la mamma fino al punto in cui il feto fosse in grado di vivere autonomamente. Il bimbo ora sta migliorando”, racconta il sindaco.

“Al di là del comportamento della polizia francese, per quel papà è stato un bene che lei sia stata assistita dal sistema sanitario italiano”.

Ed è proprio in questo spirito di solidarietà che l’intera comunità di Bardonecchia continua a lavorare.

Di seguito altre immagini realizzate sulla rotta dei migranti.

          

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