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Le schiave del sesso della seconda guerra mondiale

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Tra il 1932 e il 1945, migliaia di donne - soprattutto coreane - furono costrette a lavorare come schiave sessuali per i soldati giapponesi

Kim Bok-dong aveva poco più di 14 anni quando una pattuglia dell’esercito giapponese si recò nel suo villaggio in Corea, per chiederle di dare un contributo alla causa bellica. Le dissero che l’avrebbero portata in una fabbrica di cucito, ma era quello che raccontavano a tante altre ragazzine come lei. La loro vera destinazione, però, era un’altra.

Kim fu una delle comfort women – letteralmente donne di conforto – che in piena seconda guerra mondiale furono consumate come carne da macello per mitigare le angosce di uomini segnati dalle efferatezze della guerra. Oggi la donna ha 89 anni e ha raccontato la sua storia all’emittente televisiva statunitense Cnn, ricordando la terribile esperienza che segnò per sempre la sua vita.

L’esercito imperiale giapponese, tra gli anni 1932 e 1945, adescò nelle sue comfort stations – dislocate in ogni regione dell’Asia orientale sotto il dominio imperiale – tra le 80mila e le 200mila donne e bambine. La maggior parte di loro proveniva dalla Corea, ma ve ne erano tante altre di origine giapponese, cinese, filippina o vietnamita. Vi è anche testimonianza di alcune centinaia di donne di origine europea.

Sedotte da offerte di lavoro illusorie che promettevano mansioni di ogni genere in fabbriche o ristoranti, o talvolta rapite mentre passeggiavano per strada, migliaia di donne e bambine – alcune sin dall’età di 12 anni – furono deportate nelle fabbriche del sesso. Vi rimasero per mesi o anni, subendo l’umiliazione di orde di soldati che facevano ritorno dai campi di battaglia e che potevano abusare dei loro corpi a proprio piacimento.

A molte di loro le violenze subite costarono l’infertilità. Quando Kim racconta del dolore provocato dal non poter avere un figlio, non riesce a trattenere le lacrime. Nel 1940 fu portata con l’inganno in uno dei tanti bordelli gestiti dall’impero giapponese e fu costretta a restarci fino alla fine della guerra. Nel 1945 riuscì finalmente a ritornare nel suo Paese, ormai libero dall’occupazione giapponese.

Conclusa la guerra, in molte delle comfort women divamparono sentimenti contrastanti: spavento, vergogna, una dignità calpestata fino allo stremo, ma anche una grande voglia di urlare al mondo le proprie disgrazie. Per lunghi anni è stato steso un velo di silenzio su quanto accaduto e soltanto nei primi anni Novanta le donne sopravvissute hanno cominciato a denunciare gli abusi subiti.

Oggi, tuttavia, si continua a sapere troppo poco su questo tema, che andrebbe invece approfondito e discusso, consentendo alle vittime ancora in vita di ricevere maggiore attenzione e sostegno. Bisognerebbe quanto meno dar loro la speranza che quelle profonde ferite, nate in seguito alle mortificazioni patite, possano col tempo essere scalfite, per poi risultare meno dolorose.

Un grande contributo in questo senso è stato dato da Chang-Jin Lee, artista coreana stabilitasi da tempo a New York, e realizzatrice di Comfort Women Wanted, una mostra multimediale che ha lo scopo di ricordare le decine di migliaia di donne coinvolte nel massacro, e di aumentare la consapevolezza sulle violenze di cui sono state vittime le donne in tempi di guerra. Il titolo della mostra – Comfort Women Wanted – riprende i vecchi messaggi pubblicitari presenti nei giornali di guerra, utilizzati dai giapponesi per reclutare nuove donne di conforto“La maggior parte di loro era adolescente […] e veniva violentata ogni giorno da 10 o 100 soldati…”, scrive Lee sul suo sito.

È quanto racconta anche Kim, ancora tormentata dai ricordi indelebili dell’adolescenza perduta. “Il sabato [i soldati] cominciavano a mettersi in fila a mezzogiorno. E si andava avanti fino alle 8 di sera. C’era sempre una lunga fila di soldati [in attesa] … Non ci sono parole per descrivere il mio dolore. Ancora oggi. Non riesco a vivere senza prendere medicine. La mia sofferenza è continua”.

Nonostante l’età e le cicatrici che si porta dietro, Kim però continua a raccontare con grande determinazione la sua storia, per far sì che le umiliazioni vissute non vadano dimenticate. Non è intenzionata ad arrendersi fino a quando non riceverà scuse formali dall’attuale governo giapponese.

Prima di morire, il mio desiderio è poter raccontare cosa è realmente accaduto in passato”, dice Kim, a testimonianza di quanto ancora siano tesi i rapporti tra i Paesi interessati. Alcuni primi ministri giapponesi in passato si scusarono personalmente per quanto successo durante la guerra, ma l’atteggiamento dell’attuale premier giapponese è spesso risultato ambiguo.

Koichi Nakano, professore di scienze politiche presso l’Università Sophia di Tokyo, sostiene che da quando il premier giapponese Shinzo Abe è al potere, il suo governo è riuscito a far rimuovere da molti testi scolastici diversi riferimenti sull’argomento delle comfort women, un fatto gravissimo e mortificante per le donne coinvolte. Vedere ridimensionate o addirittura negate le violenze subite significherebbe essere stuprate una seconda volta, sostiene il professor Nakano.

È per questo che le comfort women ancora in vita continuano a combattere per ricevere le scuse ufficiali dal governo giapponese. Ed è quello che pretende anche il governo della Corea del sud, che invita il Giappone ad affrontare la questione direttamente con le vittime coinvolte. E a farlo in fretta, visto che la maggior parte di loro, a causa della veneranda età, è prossima a morire. 

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