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Home » Esteri

L’economista Zamagni a TPI: “Oggi le guerre sono figlie della ribellione del Sud Globale all’Occidente”

Immagine di copertina
Stefano Zamagni, 81 anni, presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Credit: AGF

"Per costruire la pace bisogna cambiare le istituzioni politiche ed economiche. Sono ottimista, ecco perché"

Stefano Zamagni, economista, presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, è una voce molto ascoltata in Vaticano. Il suo piano per la pace in Ucraina, scritto nel settembre 2022, è finito sul tavolo di Papa Francesco ed è probabile che anche da quel documento abbia attinto il cardinale Zuppi nel suo tentativo di mediazione tra Putin e Zelensky. 

S&D

Zamagni, 81 anni, formatosi tra la Cattolica e Oxford, una carriera accademica spesa a insegnare tra l’Università di Bologna, la Bocconi e la John Hopkins, è convinto che, non solo al confine est dell’Europa ma anche in Medio Oriente e in tutto il mondo, prima o poi, prevarrà la pace.

Professore, la missione del cardinale Zuppi in Russia e Ucraina però non è andata come si sperava…
«Sono un economista e le posso dire che nessuna guerra è sostenibile dal punto di vista economico. È vero che nel breve fa aumentare il Pil, ma nel medio-lungo termine è un gioco a somma negativa, perché le risorse che una guerra assorbe non possono essere riutilizzate. Anche chi vince ci rimette. E siccome l’economia di mercato ha le sue regole, arriverà il punto in cui l’economia di mercato dirà basta».

Come fa a essere così convinto che in tutto il mondo la pace sia destinata a prevalere?
«Per fare questo ragionamento, bisogna partire dalle fondamenta. Due sono le posizioni sul tema guerra e pace che esistono nella letteratura e ancora oggi nella prassi politica. La prima è quella che afferma in latino “Si vis pacem para bellum” (“Se vuoi la pace prepara la guerra”), la seconda dice invece “Si vis pacem para civitatem” (“Se vuoi la pace devi preparare la civilizzazione”). Chiunque può capirlo, eccetto quei cosiddetti “acculturati” che pensano di capire e invece non sanno niente. La prima posizione si rifa al pensiero di Hobbes e Machiavelli, secondo cui c’è bisogno di uno Stato forte e di armamenti, perché solo così si può sconfiggere il nemico e ottenere la pace. La seconda – coltivata dalle chiese, non solo quella cattolica – sostiene che, se vogliamo la pace, bisogna cambiare l’asseto istituzionale, cioè delle istituzioni sia politiche che economiche. Ecco, io aderisco a questa seconda tesi. Anche perché la prima sembra vincente ma è diabolica. E da millenni produce guerre».

Torniamo al punto di prima: finora ha sempre prevalso la guerra alla pace…
«Le cito uno studio interessante, che purtroppo mai viene menzionato, realizzato nel 1942 dal politologo americano Quincy Wright. Il titolo è “A Study of War” (“Uno studio della guerra”). La sua tesi è che due democrazie vere mai si sono fatte né si faranno la guerra. La guerra viene scatenata o fra due Paesi non democratici oppure fra un Paese democratico e uno non democratico. Ma due Paesi democratici – democratici per davvero, non sulla carta – non si sono mai fatti la guerra. E si capisce il perché…»

Perché?
«Perché nei Paesi democratici la decisione di muovere guerra deve essere presa da un Parlamento. E la maggioranza dei parlamentari non è mai a favore della guerra. Ecco cosa significa “Si vis pacem para civitatem”: per avere la pace bisogna creare istituzioni politiche di tipo democratico. Ma, attenzione, non basta: alle istituzioni politiche bisogna affiancare istituzioni economiche». 

Cioè?
«Le istituzioni non sono altro che le regole del gioco, in questo caso il gioco economico. Bisogna cambiare gli statuti degli organismi internazionali, come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, che quando furono istituiti furono pensati per il mondo occidentale. All’epoca prevalse l’unilateralismo, in base al quale gli Stati Uniti sono i difensori dell’Occidente. Ma oggi la situazione è radicalmente cambiata. Da almeno vent’anni si è costituito il Sud Globale: i cosiddetti “Brics”, a cui si sono aggiunti ora altri quattro Paesi e che potrebbe ampliarsi ad altri ancora. Questo Sud Globale, nel suo insieme, ha una popolazione superiore e un Pil superiore a quelli di Stati Uniti, Europa e America Latina sommati tra loro. Ebbene, oggi quei Paesi non accettano più l’unilateralismo, cioè che a comandare siano gli Stati Uniti: vogliono il multilateralismo. Questa situazione è il focolaio che alimenta le guerre in atto. Non solo quelle in Ucraina e Medio Oriente, ma anche le altre decine di conflitti in corso nel mondo di cui non si parla perché sono più locali». 

Sta dicendo che i Paesi occidentali non sono autenticamente democratici?
«No no. Sono democratici dal punto di vista dell’assetto interno. Però la democrazia è universale: non basta volere la democrazia in casa propria ma non in quella degli altri».

Quindi dovremmo esportare la democrazia? In passato ci abbiamo provato e non è andata benissimo…
«La democrazia non si può esportare, non la si può imporre. Ma favorire la democrazia negli altri Paesi si può fare».

E come si fa?
«Primo: con la cultura, con quello che insegniamo a scuola e nelle università. Secondo: con la modifica degli assetti economico-finanziari. Molti Paesi ci dicono: “Voi occidentali volete la pace ma date il cattivo esempio, venite in Africa e vi accaparrate le nostre terre”. E hanno ragione: la democrazia è vera se è applicata non solo internamente ma anche nelle relazioni internazionali. Ecco perché, se si vuole parlare di pace, bisogna risalire alle cause delle guerre. Ed ecco perché “Si vis pacem para civitatem” è la direzione che bisogna perseguire».

Analisi ineccepibile. Ma tra i leader politici nessuno oggi sembra ragionare in questi termini.
«In primis bisogna lavorare sul piano culturale: i giornalisti dovrebbero approfittare del loro potere per far presente che c’è anche questa opzione. In secondo luogo, a livello politico bisogna agire in positivo: dire “Non mandiamo le armi” è solo una scorciatoia, un argomento sciocco, avanzato da politici che non hanno una visione. Semmai le armi non bisogna proprio produrle. Ma può darsi che ora succeda qualcosa…».

A cosa si riferisce?
«Nel settembre di quest’anno a New York ci sarà un’assemblea straordinaria delle Nazioni Unite per discutere proprio di un “Patto per il futuro”. Io faccio parte del gruppo di lavoro che la sta preparando. E tra i punti in agenda c’è anche il tema di cui stiamo parlando. Chissà che non si arrivi a qualche decisione importante. Sarebbe veramente un punto di svolta. Né i pacifisti né i bellicisti nella storia hanno mai ottenuto la pace. I bellicisti per ovvie ragioni, ma anche i pacifisti, perché piangono sulla guerra ma non fanno nulla per aggredirne le cause. Noi dobbiamo puntare invece sui pacificatori».

A questa assemblea parteciperanno solo i rappresentanti dei singoli Stati?
«Questo è uno dei punti cruciali. Tra le nostre proposte c’è quella di affiancare all’assemblea degli Stati una seconda assemblea che rappresenti il mondo delle associazioni e della società civile». 

L’Onu però ultimamente non sembra avere molta voce in capitolo nelle relazioni internazionali…
«Il problema è il diritto di veto. Noi abbiamo proposto di abolirlo. Il diritto di veto è immorale e va contro i principi della democrazia perché equivale a un potere di monopolio. Lo stesso discorso andrebbe applicato ai meccanismi di voto dell’Unione europea».

Lei ripone fiducia in questo appuntamento di settembre. Due mesi dopo, però, sempre negli Stati Uniti si terranno le elezioni presidenziali. E alla Casa Bianca potrebbe tornare Donald Trump.
«Sarebbe un disastro, una iattura per il mondo intero. Trump parte favorito anche perché il suo avversario è Biden, ma penso che l’americano medio si metterà una mano sulla coscienza e sceglierà il male minore. A differenza di noi europei, gli americani sono pragmatici: me ne sono accorto insegnando da cinquant’anni agli studenti di quel Paese».

Intanto è scoppiata un’altra guerra in Medio Oriente. Pensa davvero che si possa ricomporre anche lo scontro israelo-palestinese?
«Il punto è che lo Stato palestinese esiste solo formalmente ma non dal punto di vista sostanziale. La popolazione palestinese viene mantenuta per via assistenzialistica, ma non si può tenere un popolo che non è padrone del proprio destino. Prima o poi esplode! E ci sono degli esaltati che “pescano” da questa situazione di disperazione. Per la pace serve un piano di sviluppo economico e sociale».

Pensa che Israele sarebbe disponibile ad accettare un piano di sviluppo per il popolo palestinese?
«Ma certo! Netanyahu magari no, ma chi c’era prima di lui era d’accordo». 

Netanyahu però governa quasi ininterrottamente da 14 anni: ha vinto le elezioni.
«E allora? Le votazioni non c’entrano niente con la democrazia, sono uno strumento della democrazia: democrazia vuol dire alternanza di potere. Ecco perché nei Paesi civili sono stati introdotti dei limiti al numero di mandati».

Chi dovrebbe attivarsi per proporre questo piano di sviluppo?
«Gli Stati Uniti, è chiaro! Israele dipende dagli Stati Uniti, lo sanno anche i bambini… E negli Stati Uniti la gente si sta stancando degli attacchi di Israele. Questa situazione non può durare. La via era quella che aveva indicato il Papa Paolo V».

Cosa prevedeva?
«Nella sua enciclica del 1967, dal titolo “Populorum Progressio”, scrisse che “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Perché non partiamo da lì? Attenzione, però: sviluppo non significa crescita. Anche le piante crescono, anche gli animali crescono: lo sviluppo è solo dell’essere umano. La parola “sviluppo” viene dal latino e significa togliere i viluppi, cioè togliere i lacci, le catene che privano della libertà. Gli animali non vogliono la libertà, vogliono crescere: ecco, il fatto che si confonda sviluppo con crescita è all’origine di buona parte dei guasti delle nostra società».

Tutto condivisibile. Ma non saranno discorsi troppo alti rispetto alla realtà dei fatti attuale?
«Assolutamente no! Questo è ciò che fanno credere i mass media, ma la gente la pensa così. E quando la gente si stanca accadono cambiamenti radicali. Ce lo insegna la storia».

La storia ci insegna anche, però, che le guerre ci sono sempre state e che non c’è mai stata una situazione di pace totale.
«Questo è vero, ma è anche vero che dopo la Guerra dei Trent’anni ci sono stati tanti decenni senza conflitti. Così come nell’Europa occidentale da ottant’anni a questa parte non ci sono guerre. Ciò che è accaduto qui da noi deve servire da modello per gli altri».

Quindi lei pensa che non sia la guerra, ma la pace, a essere connaturata all’essere umano.
«Su questo non c’è dubbio. È da una vita che combatto contro la dottrina di Hobbes “Homo homini lupus” (“Ogni uomo è un lupo per gli altri uomini”) e oggi vedo che la stragrande maggioranza degli studenti nelle università è contraria a quella visione. Quei ragazzi poi cresceranno e andranno a occupare incarichi di potere… Per questo sono ottimista».

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