Il grande equivoco di Donald Trump: così il divario tra aspettative e realtà può cambiare gli Usa
Ex richiedenti asilo, arabi-americani e moderati pro-choice hanno votato in gran parte per il neopresidente Usa. Ma dalle deportazioni di massa, ai tagli all’assistenza e all’aumento degli aiuti a Israele, la nuova Casa bianca adotterà politiche che non tutti accetteranno
Questa volta non ci sono stati dubbi. Con 2,3 milioni di voti di vantaggio, la vittoria di Donald Trump alle elezioni di novembre è stata netta. L’affermazione del magnate newyorkese su Kamala Harris non è stata guastata da polemiche come quelle del 2016, con le accuse di intromissioni all’ultimo minuto per il caso relativo alle e-mail di Hillary Clinton, e non si è limitata alla mera conquista del collegio elettorale. Mettendo insieme una coalizione variegata, per molti versi inedita per i repubblicani, Trump è riuscito a centrare la vittoria nel voto popolare, la prima volta per un repubblicano dal 2004 e la seconda dal 1988.
Grazie a un aumento esteso dei consensi, anche tra gruppi che i democratici considerano da decenni parte della propria base, Trump è diventato il primo dai tempi di Grover Cleveland, più di 100 anni fa, a fare il suo ritorno alla Casa bianca dopo una sconfitta. La sorpresa tra gli osservatori è soprattutto legata ai consensi tra gli elettori latinos e ispanici, in particolare uomini, che hanno contribuito ad abbattere il “blue wall” a difesa del vantaggio dei democratici.
Gli exit poll hanno rilevato un aumento di 14 punti per Trump tra gli ispanici, che hanno votato per il candidato repubblicano al 46 per cento rispetto al 32 per cento del 2020, secondo l’indagine di Edison Research, citata da Reuters. Per decenni questo gruppo è stato una componente centrale della coalizione democratica. Ma quest’anno i consensi per Trump sono stata i più alti mai registrati negli exit poll dagli anni ’70, superando il 44 per cento rilevato per George W. Bush nel 2004.
Latinos for Trump
Il sostegno a Trump sembrerebbe inspiegabile. Durante la campagna elettorale, il presidente eletto ha ripetutamente offeso i migranti, definiti «assassini» e «stupratori», promettendo di dare il via, subito dopo il suo insediamento, alla più grande campagna di espulsioni nella storia degli Stati Uniti.
Nonostante un passo falso come quello del comico che ha definito Puerto Rico, «un’isola di spazzatura galleggiante» durante il maxi-evento elettorale di Trump al Madison Square Garden di New York, molti portoricani non hanno fatto mancare il loro sostegno in stati chiave come la Pennsylvania. Sulla stampa sono comparse numerose storie di immigrati, o loro parenti, che non hanno nascosto il sostegno per Trump, nonostante la promessa di espellere i circa 11 milioni di “undocumented”, senza documenti, presenti negli Stati Uniti.
È il caso di Rosa, raccontato dal sito d’inchiesta ProPublica. Di mestiere inserviente, si è stabilita quasi 30 anni fa a Whitewater, in Wisconsin. Negli ultimi anni la sua cittadina, in cui si trova una sede dell’università del Wisconsin, ha accolto diversi richiedenti asilo del Nicaragua, che lavoravano negli stessi luoghi e frequentavano le stesse scuole di molti parenti e amici di Rosa. A differenza loro però chi non ha i documenti non può chiedere permessi di lavoro o la patente. «Non è giusto», ha detto a ProPublica . «Quelli di noi che sono qui da anni non ottengono nulla». Due dei suoi figli, cittadini statunitensi, hanno votato per Trump, scelta che lei condivide. Ha anche detto di non essere preoccupata delle espulsioni, pur chiedendo di non citare il suo nome, perché queste riguarderanno solo i criminali. Secondo lei, «sanno chi si è comportato bene e chi no».
In generale, circa il 25 per cento degli ispanici intervistati nell’exit poll di Edison Research ha affermato che la maggior parte degli immigrati irregolari nel Paese dovrebbe essere espulsa, rispetto al 40 per cento per gli elettori in generale.
Vera minaccia?
Molti dei sostenitori di Trump sembrano sperare in un boom economico, favorito magari dalle sue ricette aggressive sul piano del commercio internazionale e della de-regolamentazione interna.
Ma, come scritto da Adam Serwer per la rivista The Atlantic, la cerchia ristretta trumpiana si considera a questo punto investita di un mandato per dare una sterzata verso la «destra estrema», con politiche che includerebbero «espulsioni di massa e l’annientamento dei loro nemici politici». Un’eventualità a cui, secondo Serwer, molti suoi sostenitori non sono preparati.
Molti elettori di Trump sembrano infatti pensare che non finiranno per subire direttamente le ricadute delle politiche repubblicane. Una tendenza alla «negazione» che dimostrerebbe, secondo Serwer, come il voto per Trump non sia stato tanto da interpretare come un attestato di sostegno alle sue politiche quanto una batosta inferta al partito in carica per i suoi fallimenti.
Dati interni alla campagna elettorale di Kamala Harris, citati da Greg Sargent di The New Republic, mostrano ad esempio che gli elettori non ritengono Trump responsabile della nomina di giudici della Corte suprema che hanno ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, con cui è stato abolito il diritto federale all’aborto. Questo nonostante il leader repubblicano si sia vantato in campagna elettorale di aver «ucciso» Roe v. Wade «dopo 50 anni di tentativi falliti». La stessa ambiguità manifestata da Trump su molti temi fa sì che molti elettorali non pensano che andrà fino in fondo con le sue promesse.
Anche la minaccia al diritto all’aborto non è stata sufficiente a convincere molti elettori a votare contro Trump. Il candidato repubblicano ha addirittura vinto in quattro stati che hanno votato a favore di referendum per dare maggiori protezioni a chi intende abortire. Secondo l’exit poll di Cnn inoltre, il 49 per cento degli elettori di Trump ritiene che l’aborto debba essere legale nella maggior parte dei casi, lo stesso dato di Harris. Deirdre Schifeling, responsabile politico dell’American Civil Liberties Union (ACLU), ha detto a Time che i risultati sono indice di una «dissonanza cognitiva» su questo tema. «C’è una discrepanza tra le azioni degli elettori», afferma Schifeling.
Oltre al crollo nel voto delle comunità latinoamericane i democratici hanno anche subito defezioni tra le minoranze arabe e musulmane, infastidite dal sostegno dell’amministrazione Biden alla devastante operazione israeliana nella Striscia di Gaza. A Dearborn, Michigan, dove metà dei 110.000 residenti sono di origine araba, Kamala Harris ha ricevuto 2.500 voti in meno rispetto a Donald Trump, diventato il primo repubblicano da George W. Bush, nel 2000, a vincere nella città. Lo stesso Trump che nel 2017 aveva dato il via al suo primo mandato vietando gli arrivi da diversi Paesi musulmani, con il controverso “travel ban” poi confermato dalla Corte suprema.
Un paradosso motivato dall’inflessibilità di Biden e Harris nel sostegno alla risposta israeliana al 7 ottobre, che i numerosi appelli dalla comunità musulmana non sono riusciti a scalfire. Dalla protesta durante le primarie, con migliaia di voti “uncommitted” che hanno portato all’elezione di 30 delegati, fino al rifiuto durante la convention democratica di far salire sul palco qualcuno che parlasse di Palestina, passando per la dura risposta alle proteste sui campus universitari, molti elettori musulmani ritengono che il partito abbia finito per dare il loro voto per scontato. Emblematica in tal senso l’intervista del senatore democratico John Fetterman. «Congratulazioni, sarete contenti del prossimo divieto per i musulmani», le parole di Fetterman dopo le elezioni che, secondo Nbc News, sono state ricondivise nelle chat di molti musulmani democratici.
Secondo un sondaggio condotto a livello nazionale, il Council on American-Islamic Relations, uno dei più grandi gruppi per i diritti dei musulmani nel Paese, solo il 20 per cento degli intervistati ha dichiarato di sostenere Harris, rispetto al 69 per cento favorevole a Biden nell’exit poll del 2020.
Il timore dei democratici è di uno spostamento duraturo, che porti molti musulmani a tornare a votare per i repubblicani. Nel 2000 infatti l’elettorato musulmano scelse Bush, prima di abbandonare i repubblicani dopo le politiche adottate in risposta all’11 settembre, le guerre lanciate in Iraq e Afghanistan e l’ondata di islamofobia che ne è scaturita.
«Il nostro ultimo exit poll tra gli elettori musulmani americani conferma che l’opposizione al sostegno dell’amministrazione Biden alla guerra a Gaza ha avuto un ruolo cruciale, portando a un forte calo del sostegno alla vicepresidente Harris rispetto al sostegno ricevuto dal presidente Biden dagli elettori musulmani nel 2020 e a un forte aumento del sostegno alla terza candidata Jill Stein. Anche il presidente eletto Trump è riuscito a fare breccia tra gli elettori musulmani», ha commentato il direttore del Cair per gli affari governativi, Robert S. McCaw. L’organizzazione ha esortato i democratici «a imparare la lezione legata alla perdita di sostegno (…) tra i musulmani e gli altri elettori contrari al genocidio di Gaza» e ha invitato Trump «a dare priorità al rispetto della sua promessa elettorale di perseguire la pace all’estero, inclusa la fine della guerra di Israele a Gaza».
Trump ha dichiarato a più riprese che intende porre fine alle guerre in Medio Oriente ma non è chiaro quanto la soluzione cercata dal presidente eletto sarà gradita dall’elettorato musulmano. Durante il suo primo mandato, Trump si è dimostrato uno strenuo sostenitore di Israele, al punto da rinunciare a diversi punti fermi della politica estera statunitense nella regione, con il riconoscimento di Gerusalemme come capitale e della sovranità israeliana sulle Alture del Golan, considerate dalla comunità internazionale territorio siriano. Secondo quanto riportato dall’emittente israeliana Channel 12, fonti vicine a Trump hanno promesso che la nuova amministrazione rimuoverà ogni ostacolo alla consegna di armi a Israele.
Riguardo Gaza, Trump ha detto in un’intervista a Time che il premier israeliano Benjamin Netanyahu «sa che voglio che finisca». Alla rivista, che lo ha nominato Persona dell’anno, ha detto inoltre di sostenere un «piano di pace» ma non ha confermato di appoggiare ancora il controverso “accordo del secolo” che aveva messo al centro dei suoi sforzi diplomatici in Medio Oriente, su cui hanno pesato le numerose concessioni a Israele.
Nelle scorse settimane Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, ministri appartenenti all’estrema destra israeliana, hanno accolto la rielezione di Trump come un’opportunità per Israele di annettere la Cisgiordania. Smotrich, ministro delle Finanze israeliano, ha detto che questo potrebbe già avvenire l’anno prossimo. Da parte sua Trump, nell’intervista a Time, non ha escluso questa possibilità.
Tagli ed espulsioni
Un’altra promessa del nuovo corso trumpiano riguarda la revisione bilancio federale. Trump ha già incaricato il miliardario Elon Musk e l’ex candidato alla presidenza Vivek Ramaswamy, che ha un patrimonio stimato in 950 milioni di dollari, di sovrintendere a tagli drastici.
Qualsiasi taglio significativo avrà però un forte impatto sul territorio, anche negli stati che hanno votato per riportare Trump alla Casa bianca. Circa due terzi dei 6.200 miliardi spesi ogni anno, secondo le stime di Reuters, sono destinati a pensioni, assistenza sanitaria e altri programmi che garantiscono benefici tangibili ai residenti degli Stati Uniti. Questo significa che qualsiasi taglio di rilievo finirà per generare malcontento.
Trump ha escluso tagli per i due principali programmi di welfare, Social Security e Medicare, che forniscono pensioni e assicurazioni sanitarie agli anziani e hanno un peso rilevante negli stati che hanno votato a suo favore. Altri programmi potrebbero comunque finire sotto la scure. Come Medicaid, che garantisce assicurazioni sanitarie ai poveri, e Snap, che eroga aiuti per comprare generi alimentari. Questi tendono a essere più utilizzati in stati che votano per i democratici, anche se i tagli finirebbero per colpire stati poveri e conservatori come la Louisiana.
Ma per Trump la priorità sul fronte interno sarà soprattutto l’immigrazione. Durante la sua campagna elettorale, Trump ha detto a più riprese che intende lanciare, al suo ritorno nello Studio ovale, «il più grande programma di deportazione di criminali nella storia d’America».
Dopo la sua inaugurazione, attivisti e gruppi di opposizione prevedono una raffica di ordini esecutivi per annullare le misure di Joe Biden e facilitare le espulsioni. «Trump cercherà di fare le cose in grande e di dipingere il suo sforzo come incentrato sui criminali», ha detto a The Guardian Vanessa Cardenas, direttrice di America’s Voice. «Ma ovviamente stanno confondendo le acque su chi è considerato un criminale e chi no».
La prima amministrazione Trump ha espulso circa 1,4 milioni di persone, a fronte degli 1,6 milioni stimati sotto Biden, secondo il Migration Policy Institute. Durante il secondo mandato, il vicepresidente eletto JD Vance ha proposto di espellere un milione di persone all’anno.
Un obiettivo ambizioso, oltre che costoso. Secondo l’American Immigration Council le espulsioni ipotizzate da Vance avrebbero un prezzo di 88 miliardi di dollari l’anno. Un conto salato, che esclude anche i possibili costi politici. Quello che attualmente sta più facendo discutere riguarda le separazioni famigliari. Si stima infatti che 4,4 milioni di minorenni sono cittadini statunitensi che vivono con genitori privi di documenti. Un problema che Trump non sembra interessato a risolvere. «Non voglio distruggere le famiglie, quindi l’unico modo per non farlo è tenerle insieme e rimandarle tutte indietro», ha detto in una recente intervista.