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Sudan: cronistoria di una guerra dimenticata

Immagine di copertina
Credit: AGF

Da oltre due anni e mezzo il Paese dell’Africa nord-orientale è dilaniato da un conflitto civile che ha fatto centinaia di migliaia di morti. Lo scontro ha radici che risalgono agli anni ‘80 e coinvolge anche potenze estere. Eppure per le opinioni pubbliche globali è come se non esistesse

È senza dubbio retorico ripetere che non tutte le guerre ottengono la stessa attenzione, ma spesso accade che ciò che sembra un luogo comune sia non solo fondato, ma anche drammaticamente vero. Questo è il caso di un conflitto sanguinoso che da anni dilania un Paese molto povero e già provato da decenni di conflitti e violazioni di diritti umani: il Sudan. 

Questa specifica guerra, che vede contrapposte le forze armate sudanesi (Saf) fedeli ad Abdel Fattah al-Burhan, divenuto leader de facto del Paese nel 2019, e le Forze di supporto rapido (Rsf) fedeli a Muhammad Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemedti, è iniziata nel 2023, ma va a inserirsi sulla scia di una lunga serie di conflitti di natura etnica e politica che attraversano il Paese fin dai primi anni Ottanta, con picchi acuti in alcune regioni. Sono le guerre che hanno portato alla secessione del Sud Sudan e a violenze che periodicamente riemergono in regioni come il Darfur, il Kordofan e il Blue Nile. 

Quarant’anni di caos
Ma veniamo ai fatti. Nell’aprile del 2023, gli uomini delle Rsf presero d’assalto le basi dell’esercito sudanese nella capitale Khartoum, in quella che fu l’esplosione di un lungo periodo di tensioni tra le diverse fazioni, dando così inizio a questa specifica guerra civile. 

L’episodio, tuttavia, non fu un fulmine a ciel sereno, e per capirne le cause bisogna fare un passo indietro, e tornare al 2019, quando una serie di proteste attraversarono tutto il Sudan portando al rovesciamento del presidente Omar al-Bashir, in carica dal 1989. 

Paese di dimensioni estremamente vaste – il più esteso dell’Africa fino al 2011, anno dell’indipendenza del Sud Sudan in seguito a un violento conflitto –, il Sudan è in gran parte desertico e il grosso della sua popolazione vive lungo il corso del Nilo e sulla costa sul Mar Rosso, che rappresenta un accesso a rotte commerciali strategiche e su cui sorge l’importante terminal degli oleodotti che si diramano dai giacimenti petroliferi del Paese, gran parte dei quali peraltro oggi corrono lungo il territorio del Sud Sudan. 

È tuttavia l’oro, e non il petrolio, la materia prima al vertice delle esportazioni del Sudan, le cui miniere sono presenti in varie regioni. 

La popolazione è molto diversificata: seppur vi sia una netta maggioranza di lingua araba e religione musulmana, al suo interno vi sono diversi gruppi nomadi i quali, insieme ad altre minoranze di regioni periferiche, sono negli anni rimasti emarginati dal governo centrale. 

In questo contesto di totale frammentazione e povertà, nel 1983 ebbe inizio una guerra civile dai forti connotati etno-religiosi, soprattutto in seguito al tentativo dell’allora presidente Gaafar Nimeiry di imporre la Sharia in un Paese con una forte presenza cristiana nelle regioni del sud che si sarebbero poi separate. 

Se la questione meridionale si è conclusa con gli accordi del 2005, che hanno portato all’indipendenza del Sud Sudan dal 2011, lo stesso non è accaduto per altri conflitti in regioni periferiche, a partire dal Darfur. Questa regione desertica nell’ovest del Paese a partire dal 2003 è al centro di un sanguinoso conflitto, in cui le truppe di Khartoum, a partire dalla famigerata milizia Janjaweed (da cui nasceranno le Rsf), sono state accusate di uccisioni sistematiche e crimini di guerra, al punto che da più parti si è levata la gravissima accusa di genocidio nei confronti della popolazione del Darfur. 

Quando dunque nel 2019 le proteste popolari hanno rovesciato Omar al-Bashir dopo trent’anni di regime, il Paese era già attraversato da ferite aperte e dilaniato dal potere di gruppi armati sempre più influenti e autonomi che l’indipendenza del sud non aveva fermato. La transizione che ne è seguita, con un Consiglio che attribuiva un potere condiviso tra militari e civili, con al-Burhan presidente e Abdalla Hamdok primo ministro, avrebbe dovuto portare a nuove elezioni e accompagnare il Paese verso la democrazia. Ma nulla di tutto questo è accaduto. 

Le proteste sono state represse, spesso brutalmente, da al-Burhan, utilizzando proprio le Rsf, emanazione dei famigerati janjaweed, guidate da Hemedti: la convivenza tra i due, tuttavia, si è progressivamente incrinata. 

Nel 2021 un nuovo colpo di stato ha messo da parte i civili e rimosso il premier Hamdok, congelando la transizione e riaprendo il confronto diretto tra le fazioni militari: due anni dopo lo scontro si è trasformato in guerra aperta. 

Influenze straniere
L’attuale guerra civile è iniziata il 15 aprile 2023, quando le Rsf hanno assaltato le posizioni dell’esercito nella capitale Khartoum e in altre città strategiche, espandendosi gradualmente in scontri su larga scala in tutto il Paese, che si sono sommati agli scontri etnici e tribali già esistenti, facendo ripiombare nella guerra civile questa terra che non sembra trovare pace. 

In un territorio così vasto, con armi non paragonabili a quelle usate dalle grandi potenze e in cui lo scontro tra le fazioni si interseca a quello di etnie minoritarie che cercano spazio e a scontri tribali tra pastori e agricoltori o tra famiglie che si contendono l’accesso a una sorgente d’acqua, la guerra non si limita a una sola linea del fronte ma coinvolge angoli del territorio distanti tra loro mentre lo Stato non sembra più esistere. 

Come spesso accade, a questo si aggiungono attori esterni che si contendono l’influenza su un territorio che si affaccia su acque strategiche come quelle del Mar Rosso e si trova in un’area a sud del Sahara cruciale per gli attraversamenti dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa. 

Le Rsf, ad esempio, hanno trovato un sostegno determinante negli Emirati Arabi Uniti, destinatari di gran parte dell’oro proveniente dalle miniere del Paese e che rappresentano il primo foraggiatore dell’esercito. 

Le forze armate legate ad al-Burhan, invece, hanno ricevuto sostegno materiale sia da parte dell’Arabia Saudita che dall’Egitto, due importanti attori regionali preoccupati dal deteriorarsi della sicurezza nell’area. 

In questo quadro così complesso si sono aggiunti, inoltre, soggetti con un ruolo presente ma più sfumato, dalla Russia – la Wagner ha una notevole presenza nel Paese – alla Cina, dall’Iran alla Turchia. Presenze che hanno attirato ulteriori tensioni: quello che è a tutti gli effetti uno strascico della guerra in Ucraina, nel 2023 Kiev ha colpito con droni alcune forze della Wagner presenti in Sudan. Tutto questo, senza che nessuna delle due parti riesca a prevalere in modo netto sul campo. Cosa significa tutto questo coinvolgimento? Che la pace non sembra dietro l’angolo. 

In tutto questo, gli Stati Uniti non sembrano interessati a giocare un ruolo nella partita: maggiormente interessati ad altri teatri geopolitici, gli Usa non hanno mai fatto particolare pressione per porre fine a questo conflitto, almeno finora. 

L’Europa, invece, nonostante l’importanza del Mar Rosso e del Sahel sia nei commerci che nelle rotte migratorie, ancora una volta sembra essere rimasta miope di fronte a una situazione drammatica ed esplosiva che sembra lontana ma ci riguarda da vicino. 

Ma intanto, ogni giorno che passa, con tutti questi attori coinvolti in modo più o meno diretto, il quadro politico e bellico diviene sempre più complicato. Ogni proiettile in più, ogni arma, ogni drone inviato nel Paese rende qualsiasi soluzione possibile più lontana, mentre il numero di vittime è incalcolabile in un territorio in cui la presenza dei media è marginale ed è impossibile avere cifre attendibili. Alcune stime parlano di oltre 150mila morti, e – dopo l’assedio di El Fasher, la capitale del già martoriato Darfur – sono emerse documentazioni drammatiche di uccisioni di massa da parte delle Rsf: addirittura, gruppi umanitari segnalano la presenza di macchie di sangue visibili dal satellite. Ci chiediamo quindi perché in Occidente questo massacro non trovi la stessa attenzione e non causi la stessa indignazione di altri conflitti. 

L’imprenditore anglo-sudanese Mo Ibrahim una sua teoria ce l’ha: per lui questa guerra è ignorata «per il colore della pelle» di chi vive in Sudan. Non sappiamo se la ragione sia questa, ma certo è che ogni soglia è stata da tempo superata perché si possa ancora far finta di nulla.

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