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Home » Esteri

La tensione estenuante ai check point per entrare e uscire da Gaza | Diario dalla Striscia

Immagine di copertina
Credit: Valerio Nicolosi

Il reporter Valerio Nicolosi si trova a Gaza. Ecco il suo diario per TPI.it

Il giornalista Valerio Nicolosi si trova a Gaza. Ecco il suo diario per TPI.it

Oggi nella striscia di Gaza vivono circa 2 milioni di persone, in condizioni economiche e sociali molto difficili.

Gaza dal 2006 è governata da Hamas. Il risultato elettorale di quelle consultazioni scatenò gli scontri tra le due fazioni, che degenerarono in una guerra civile, in cui morirono oltre 600 palestinesi.

Da allora la Palestina è de facto un paese diviso: Hamas continua a controllare la Striscia di Gaza, nonostante il suo governo non sia riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre Fatah amministra la Cisgiordania. Hamas è un movimento radicale islamico, con un proprio braccio armato.

Le origini risalgono agli anni Settanta ma fu fondato ufficialmente nel 1987, quando cominciò l’insurrezione palestinese nota con il nome di prima Intifada.

Al-Fatah o Fatah è un’organizzazione politica e paramilitare palestinese, che fa parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, l’Olp. Fatah è un movimento politico laico, che si oppone alla lotta armata e gode del supporto della comunità internazionale.

Settimo giorno – domenica 9 settembre 

“Erez è chiuso”. La notizia era nell’aria ma con il check point israeliano non si sa mai: adesso è chiuso, adesso è aperto. E viceversa.

Entrare e uscire da Gaza non è mai facile, sia da un punto di vista burocratico ma soprattutto da un punto di vista emotivo. Per quanto possa essere uno dei luoghi meno vivibili al mondo riesce a trasmettere sempre una grande ospitalità e una grande vitalità.

Per fortuna vista la situazione avevamo già avvertito le Nazioni Unite per essere messi in una loro lista per uscire dalla Striscia e poter prendere con calma i nostri aerei. Il problema è che da oggi pomeriggio è iniziato lo Rosh haShana, il capodanno ebraico, e Erez resterà chiuso fino a mercoledì mattina e nello sfortunato caso che non fossimo usciti avremmo perso anche i biglietti aerei.

Inizia una lunga attesa fatta di tè in un bar sulla spiaggia e telefonate fatte da Valentina del CISS al check Point e alle Nazioni Unite per sollecitare la nostra uscita. Il progetto della boxe contro l’assedio è finito e anche loro sono stanchi e vogliono tornare a Palermo.

Per fortuna alle 11:00 si sblocca la situazione e in pochi minuti siamo in taxi per iniziare la lunga trafila dei check point. Arriviamo prima a “arba^a arba^a” (che tradotto vuol dire 4.4) ovvero quello controllato da Hamas e dopo una serie di domande sulla nostra attività ci dirigiamo verso “khamsa khamsa” (5.5) ovvero quello controllato dall’Autorità Nazionale Palestinese. Le pratiche sono veloci e alle 12 siamo liberi di attraversare la buffer zone.

Una volta si doveva attraversare a piedi, un chilometro di tunnel fatto con una rete che dava il senso di isolamento e ingiustizia che questo luogo vive da oltre 10 anni. È un posto disumano ma quel silenzio e quella tensione che ti metteva (per via delle telecamere e dei militari che ti controllano dalle torrette) erano un modo per distaccarsi da questo mondo prima di poter tornare nel mondo reale fatto di elettricità, acqua potabile, internet veloce e persone che possono viaggiare. Insomma avevi il tempo di distaccarti da questa realtà dura ma bella, chiusa ma ospitale.

Oggi non è così, il tunnel è presidiato e chiuso quindi ci accompagnano con una navetta fino ai tornelli proprio davanti al muro.

A questo punto iniziano le attese senza senso. La prima porta è chiusa e viene aperta solo elettronicamente dall’interno. Ce la caviamo con 15/20 minuti di attesa e poi la luce verde si apre. Il secondo step sono dei tornelli dentro un capannone anch’essi comandati a distanza da dentro il check point.

Passano in 4 e io non so perchè vengo lasciato in una terra di nessuno sospeso tra il muro e un tornello senza nulla attorno. L’attesa dura circa 10 minuti e anche in questo caso all’improvviso chi stava guardando dalla telecamera preme un tasto e la luce davanti a me diventa verde.

Via…corriamo verso step ancora più difficili: controllo dei bagagli in cui ogni cosa elettronica va tirata fuori dalle borse. Inutile dire che il mio zaino fotografico è stato completamente svuotato. Macchina fotografica, obiettivi, videocamera, microfoni, batterie, caricabatteria, computer, alimentatore, luce e tanto altro: tutto dentro una vaschetta che viene mandata in una stanza per i controlli senza che si possa sapere nulla. A questo punto è il momento del bodyscanner e solo perché il sorvegliante si dimentica di dirmi che va fatto senza scarpe mi prendo una doppia razione di raggi X.

“Perché sei andato in Libano?” mi chiedono all’ultimo step dopo aver atteso per circa un’ora tra i vari passaggi. “Ero con la Croce Rossa Internazionale, documentavo i campi profughi siriani al confine”. Per quanto possa dimostrare questa collaborazione la soldatessa decide che tutti possono passare tranne io. Mi chiede maggiori informazioni: il mio indirizzo, dove andrò a dormire stanotte, quando è il mio volo, perché sono venuto a Gaza, il mio numero di telefono italiano e quello palestinese e a quel punto mi innervosisco e dico in tono provocatorio: “Perché mi vuoi chiamare stasera?”. Diciamo che da sempre il sarcasmo non è una delle caratteristiche principali dei militari quindi non apprezza molto il commento ma comunque va avanti con le sue domande.

“Nome di tuo padre”, “Nome di tuo nonno”…una serie infinita di domande che finisce con: “Torna indietro e aspetta”. Ad Erez è così, sembra di giocare a monopoli e in qualsiasi momento puoi prendere la carta: “riparti dal via”. In questo caso ho “vinto” solo uno step indietro e quindi mi accomodo su delle sedie molto scomode da sala d’attesa.

Attorno a me non c’è nessuno, il check point più controllato al mondo in quel momento è “tutto per me” con le sue telecamere, i soldati, la polizia e la vigilanza privata. Si avvicina un ragazza che fa parte proprio della vigilanza privata e mi gira attorno con il suo fucile automatico a tracolla. Non dice niente, guarda e se ne va. Resto totalmente da solo e il silenzio e il vuoto in questo posto mettono ansia. Guardarsi intorno in modo nervoso è come se fosse un’ammissione di responsabilità di non si sa bene quale reato. “Sostenitore dei palestinesi” o peggio “della Resistenza”. In passato il mio vecchio passaporto era stato bollato con un cartellino rosso e una scritta in arabo che mi definiva “soggetto da controllare” e il motivo era proprio la mia lunga permanenza a Gaza e i corsi di fotografia che tenevo all’università.

Passano i minuti e non succede nulla, continuo solo a sentirmi le telecamere puntate addosso e gli occhi dei servizi di sicurezza israeliani addosso. Loro sono sopra la mia testa ma io non posso vederli e questa è sempre stata la cosa che mi infastidiva di questo limbo in cui mi trovo.

“Prego, vieni qui”. A dirmelo è una soldatessa che in passato mi ha interrogato ripetutamente sulle mi attività nella Striscia. Solo a vederla l’ansia fa un balzo in avanti e diventa padrona del mio stato d’animo. Mentre mi avvicino inizio a pensare a tutti i video, le foto e le mail che ho che possano dimostrare quello che ho fatto in Libano per farle capire che non ho incontrato i militanti di Hezbollah che quotidianamente combattono contro Israele al confine sud.

“Prego può andare, grazie per l’attesa”, la sua gentilezza è disarmante tanto che devo chiedere conferma perché mi sembra di non aver capito bene. “Prego può andare, grazie per l’attesa”…a quel punto apro l’ultima porta elettronica che si è appena illuminata di verde e raggiungo gli altri.

Lasciare Gaza non è mai facile per le contraddizioni, i contrasti e tutto quello che di forte si vive in quel pezzo di terra. Il tempo sembra non passare mai e ogni giorno passato là dentro sotto assedio corrisponde a 3 giorni fuori. Tutto è denso e pesante ma anche emozionante.

Per fortuna so che è un arrivederci e non un addio perché altrimenti sarebbe stato tutto più difficile o forse impossibile. Gaza è da 4 anni parte di me e con il “Centro Vik” e Meri Calvelli stiamo già pensando a un nuovo corso di fotografia e film making da fare in una storica università di Rafah, al confine sud. Forse ci vorranno mesi o anche un anno ma è modo per pensare che sia davvero un arrivederci e rendere tutto più facile.

Sesto giorno – sabato 8 settembre
striscia di gaza vita
Credit: Valerio Nicolosi

“Sei stanco eh?” esordisce così Rehaf quando ci vediamo nel pomeriggio per salutarci.

Effettivamente in questa settimana non mi sono fermato un attimo, gli scontri al confine di ieri sono stati solo l’ultimo lavoro in ordine cronologico e di sicuro sono stati stancanti fisicamente e psicologicamente e il Muezzin che canta davanti alla finestra della camera da letto tutte le mattine alle 4 non aiuta a riposare.

Il bilancio di ieri è salito a 2 morti, entrambi adolescenti. Due ragazzi di 16 e 17 anni morti davanti a una rete che nasconde un nemico invisibile.

“Pam”, quel suono secco che ritorna nella mente anche grazie al video che ho registrato mentre in quei momenti e dico: “Stanno sparando…Pam…Stanno sparando…Pam”.

È che bisogna sapere quando fermarsi e questo era uno di quei giorni.

Ho chiamato ripetutamente il ministero dell’Interno di Gaza e poi l’associazione dei pescatori per avere il permesso per uscire e andare in barca con loro.

Come ho già detto gli altri giorni fare il pescatore qui è un lavoro molto pericoloso perché la Marina israeliana spara spesso contro i pescatori, anche se quest’ultimi non hanno oltrepassato il limite di 9 miglia che gli viene imposto.

Dopo molte chiamate sono riuscito ad ottenere il permesso per imbarcarmi con un piccolo peschereccio e passare la nottata con loro.

Dalle 17 del pomeriggio alle 6 del mattino, non ci mettiamo in pericolo e stiamo lontani dalle motovedette. Era questo l’accordo che avevamo raggiunto e oggi sarei dovuto andare, solo che nel primo pomeriggio ho seguito il progetto del CISS e della Palestra Popolare di Palermo che con Carlo Bentivegna ha organizzato “Boxe contro l’assedio” e in questi giorni ha insegnato in diverse palestre della Striscia.

Oggi pomeriggio era il turno delle ragazze di un campo profughi un po’ a sud di Gaza e non volevo perdermi l’evento, ma arrivando già stanco quando sono andato via ero praticamente sfinito.

“Ieri notte gli israeliani si sono accorti che c’era la stampa a bordo di un peschereccio e li hanno seguiti per molto tempo sparando anche colpi d’avvertimento. Se sali con noi non puoi usare il flash, lo sai?”, mi dice il presidente dell’associazione dei pescatori.

Non uso il flash e non avrei usato nessun tipo di luce ma a quel punto penso se davvero, con la stanchezza che ho, ha senso andare su di una nave che potrebbe rischiare di essere colpita dai militari.

Stavolta decido che non ne vale la pena perché in alcune situazioni se non sei lucido sei solo un pericolo per te stesso e per gli altri.

Tornerò per dedicarmi solo a loro per più giorni e riuscire ad approfondire ancora di più questa situazione che vivono ormai da anni.

A questo punto resterebbe solo di fare la valigia ma nemmeno per quella ho le forze mentali e quindi, dopo una po’ di relax tra il porto e un ristorante vicino casa, torno dove incontro chi in questi giorni mi ha dato una mano e con i quali ci scambiamo dei regali.

“Questa maglietta ha viaggiato più di me, che bello!” mi dice Jumana, una ragazza che ho conosciuto al workshop di fotografia e che ci ha aiutato in questi giorni. Effettivamente lei ha 25 anni e ha visitato solo per un breve periodo la Turchia mentre per il resto del tempo è rimasta in questo pezzo di terra lungo 47 chilometri e largo 7.

Faccio un conto rapido ed effettivamente la maglietta che le ho regalato ha viaggiato in almeno una ventina di paesi.

Lei è una sportiva, ne pratica 7 e quando le ho spiegato che quella maglia era della Palestra Popolare Valerio Verbano, alla quale sono molto affezionato e per la quale ho portato un po’ di attrezzatura tecnica a supporto del progetto “Boxe contro l’assedio”, lei è rimasta molto contenta.

Stasera quindi a letto presto perché il Muezzin finalmente mi sarà utile: dovrò svegliarmi presto e sistemare tutte le borse per poi partire alla volta del Check Point di Erez per uscire dalla Striscia.

Sarà dura come sempre ma per fortuna anche stavolta sarà un “arrivederci” e non un “addio”, nella speranza che non ci sia una nuova guerra.

Quinto giorno – venerdì 7 settembre
Credit: Valerio Nicolosi

Quando la rabbia esplode è difficile fermarla. Lo scrittore Céline parlava della rabbia come un sentimento che può essere spingere a fare cose, a creare, e per molti dei miei lavori lo è stata.

Quando si tratta di raccontare ingiustizie e disuguaglianze credo che questo sentimento sia fondamentale per farlo al meglio perché fa essere più veri e diretti eliminando le sovrastrutture.

Oggi, come ogni venerdì da marzo ad ora, è stata una giornata di rabbia per il popolo palestinese.

Tante pietre lanciate contro una valle deserta da dove cecchini nascosti tra le piante sparano con fucili di precisione e da dove arrivano i droni che sparano lacrimogeni e proiettili.

Una radio locale parla di almeno un morto al confine di Beit Hanun, nel nord della Striscia e decine di feriti in tutto il territorio, mentre Al Jazeera conferma che la persona morta è un ragazzo di 17 anni, Belal Mustafa Khafaja, ucciso da un cecchino israeliano e che i feriti sono 200.

Il fatto è che quando la rabbia è di popolo non la fermi e in questo caso la popolazione di Gaza ha dimostrato che il movimento della “Grande marcia per il ritorno” è una manifestazione di popolo e che i partiti, tra cui Hamas, non possono controllarla.

È rabbia allo stato puro per le condizioni in cui vivono queste persone da più di 10 anni e oggi non hanno più niente da perdere, nemmeno la loro vita.

Con le prime luci dell’alba si iniziano a vedere già i primi fumi neri dei copertoni che vengono incendiati per impedire ai cecchini di mirare con i loro fucili ma è subito dopo la preghiera del pomeriggio che si incendia la situazione e iniziano a riversarsi in diversi punti del confine migliaia di persone di tutte le età.

Le famiglie si posizionano lontano dal confine dove c’è un palco con delle casse e si alternano interventi di persone famose o meno. Poco più in la c’è un fiume di gente che cammina per avvicinarsi al punto in cui lo scontro è più duro e i copertoni garantiscono più sicurezza.

Pietre contro fucili, aquiloni incendiati contro droni armati di proiettili e lacrimogeni.

Davide contro Golia, solo che chi ha come simbolo proprio la stella di David è l’attuale Golia e senza ripensamento con un governo che ha deciso la linea dura contro una popolazione allo stremo per via dell’occupazione che proprio quel governo mette in atto.

Proprio ieri ragionavo sulla sicurezza durante il lavoro e oggi mi ritrovo a pochi passi dall’inferno.

Avete mai provato a combattere contro un nemico invisibile e molto più potente di voi? Lanciare le pietre alla cieca è l’unica cosa che si possa fare anche se sai che quella pietra cadrà in un campo non coltivato utilizzato come “zona cuscinetto”.

All’improvviso il nemico si materializza sotto forma di uno veicolo radiocomandato a centinaia di chilometri da dove sta agendo e dopo un rapido giro sopra i dimostranti inizia a lanciare lacrimogeni sulla folla.

La nube nera di fumo dei pneumatici viene “tagliata” da piccole scie bianche di fumo e i manifestanti iniziano a correre per allontanarsi.

In quel momento arriva il primo colpo. Un suono secco che arriva da lontano: “Pam”.

Tutto diventa più confuso e io per pochi istanti, credo una frazione di secondo che è sembrata un’eternità, mi sento il sangue gelato.

Chiudo gli occhi e penso: “Sono lontani da me, non mi hanno preso”. Li apro e inizio a correre per evitare che quella successiva non sia proprio indirizzata a me.

Non è la prima volta che sento quel suono ma in questa situazione di caos fa più effetto e soprattutto non ci si abitua mai, per fortuna. “Pam-Pam”, due spari com’era prevedibile seguono il primo, io mi giro verso gli “Shebab” (ragazzi) che stanno lanciando le pietre per capire se qualcuno di loro è stato preso ma vedo solo che si buttano a terra per evitare i colpi, stanno tutti bene anche se le ambulanze si avvicinano a sirene spiegate.

Per quanto si voglia essere razionali quel suono sordo che arriva da centinaia di metri fa paura. Proprio ieri io e Daniele siamo andati a trovare i colleghi e la famiglia di Yasser Mortaia, un giovane fotografo ucciso pochi mesi fa da un cecchino israeliano. Yasser era stato uno studente del mio primo corso all’università di Gaza, era bravo ma soprattutto aveva 30 anni quando è morto.

Alcuni ragazzi sono stati feriti”, mi dice un collega che si trova nella parte sicura insieme a me ma grazie alla telecamera con un ottimo zoom riesce a vedere meglio. “Li stanno portando via ora, speriamo bene” aggiunge vedendo la mia faccia tesa.

Gli spari si intensificano così come i lanci di lacrimogeni da parte del drone e alcune persone vengono portate via per intossicazione, che a volte è peggio della ferita da arma da fuoco.

Con il tramonto gli scontri finiscono ma le operazioni militari no. Dalla finestra al settimo piano del Centro Vik vicino al porto di Gaza si vedono fiammate in lontananza e ancora spari.

Alcune raffiche arrivano dal mare, altre dal confine nord. Intanto è arrivata la notizia che l’Egitto ha deciso di chiudere il confine sud, quello di Rafah, perché Hamas non è in grado di fermare le proteste evidenziando ancora una volta che la comunità internazionale non ha capito la natura di questa protesta.

Domani è sabato, si  ricomincia anche se la rabbia che ho sentito in questa giornata è difficile da far scivolare via.

Quarto giorno – giovedì 6 settembre 2018 

Questo posto o lo ami o lo odi. È una città in cui cammini in mezzo ai rifiuti e senti degli odori assurdi e al tempo stesso quando capiscono che sei straniero le persone ti aprono tutte le porte del mondo.

Effettivamente di stranieri qui ce ne sono pochi e quei pochi sono o cooperanti o giornalisti. Non c’è motivo per entrare a Gaza se non per lavoro e a volte non basta nemmeno la motivazione di un buon contratto per vivere sotto occupazione quando non è toccato a te ma a qualcun altro.

Quindi è la passione che deve spingere qualcuno a stare qui, perché le condizioni inumane in cui si vive e la guerra a bassa intensità portata avanti nei confronti dei 2 milioni di gazawi è davvero difficile da sostenere.

“Perché venite qua?” chiede Sara, una ragazza palestinese in attesa del visto italiano per poter studiare due anni in un’università di Siena. “Perché mi piace” rispondo senza pensarci e risponde: “Ma è pericoloso, non sei mica stupido!”, “No, sono un filmmaker…”

Il dialogo con Sara mi ha fatto pensare molto su questa passione e su quello che ho scelto di fare e so che spesso cammino su di una linea di confine molto sottile sospesa tra la ricerca della notizia e il diventarla, tra il raccontare e l’essere raccontato.

Però so anche che non è la prima volta qui e che anche altrove ho sempre scelto prima la sicurezza e dopo la foto. Parigi durante il periodo degli attentati, Bruxelles il giorno dell’attentato, il confine Siria-Libano, Gaza tante volte e non ultima la missione per Open Arms. Prima la sicurezza della propria vita per poi poter raccontare quella degli altri.

È un ragionamento sempre complesso e difficile ma che ogni volta che sono qui viene fuori sempre in modo naturale e quasi inaspettato. Forse sono i droni che sorvolano la nostra testa e che sistematicamente colpiscono “obiettivi militari” ma che ogni tanto “sbagliano” mira e da militari diventano civili, donne, bambini, uomini.

Forse perché lavorando a stretto contatto con i pescatori che rischiano spesso la vita è naturale interrogarsi su questo. Forse è solo la stanchezza che inizia a farsi sentire.

Comunque oggi la sveglia è arrivata prima del previsto e il Muezzin che intona la preghiera delle 4 del mattino è stato di fatto la mia sveglia. Alle 5:45 al porto si iniziano a vedere i primi raggi di luce e il mix con le lampare è bellissimo. Riconosco qualcuno che ho incontrato nei giorni precedenti e dopo qualche rituale inizio a scattare e portare a casa qualche foto buono.

In realtà il lavoro di oggi è un altro: ho appuntamento con Hand, una ragazza che ha scelto di fare la modella a Gaza e di farla senza velo.

Da queste parti è qualcosa di coraggioso e importante, un piccolo passo fatto da una ragazza cresciuta con Instagram e Fashion blogger viste solo attraverso le schermo del cellulare, sicuramente lontana dall’idea di resistenza palestinese ma che a modo suo ha scelto di infrangere le regole ferree della religione in una enclave sunnita sotto occupazione militare e con un controllo militare molto rigido da parte di Hamas, un partito religioso.

L’appuntamento è per raccontare la sua storia. Foto e video che servono a raccontare che anche qua è possibile essere ciò che si vuole, nonostante tutto.

Gaza o la ami o la odi e se la ami ti riempi la giornata di appuntamenti perchè sai che ora sei qua e forse per un anno non puoi entrare quindi alle 9:00 mi sembra già passata una giornata intera ma è il momento di tornare di corsa al Centro Vik per tenere un workshop di fotografia con una decina di studenti e studentesse.

Parliamo di come impostare un reportage, del lavoro fondamentale da fare prima con i contatti, lo studio della storia, della cultura del posto in cui si va, della sicurezza e di tanto altro.

Parliamo dei reportage che ho realizzato negli anni scorsi sul movimento zapatista, sulla vita quotidiana a New York, sulla “jungle” di Calais e quello a bordo della Open Arms. Ogni foto è lo spunto per una riflessione, la tecnica finalizzata al racconto.

Come sempre ci sono tante domande, quasi tutti sono giornalisti ma visto che sono tutti di poco più giovani di me quasi nessuno di loro è mai uscito da Gaza. Finisce tutto con un immancabile foto di gruppo come ai tempi del corso all’Al Aqsa University di 4 anni fa.

Sempre a proposito di amore e odio c’è un altro episodio che oggi ha portato a sbalzi d’umore: Valentina e gli altri ragazzi del gruppo che ieri non sono riusciti a passare il check point israeliano di Erez perché chiuso, stamattina hanno trovato di nuovo chiuso.

Ovviamente la rabbia era tanta e un post su Facebook di Valentina raccontava il loro umore e diceva tra le altre cose: “Capita che non entri. Capita che ti incazzi. Capita che piangi. Capita che ti senti svuotato. Capita che ti scoppia la testa e il cuore. Capita che dici “se solo fossi entrata prima..”. Capita la sfiga. No. Quella no. Quella non capita. Non si chiama sfiga, si chiama assedio. Si chiama punizione per avere manifestato. Si chiama ritorsione. No, non capita la sfiga”.

Uno sfogo comprensibile da parte di chi lavora a un progetto per mesi e poi si trova la porta chiusa perché qualcuno, arbitrariamente, ha deciso di chiudere.

Questa terra o la ami o la odi. Con tutte le sue contraddizioni e le sue follie, il suo assedio che rende tutto difficile ma quel che resta di bello lo è per pochi.

Terzo giorno – mercoledì 5 settembre 2018 
striscia di gaza vita
Credit: Valerio Nicolosi

Alle 6:00 appuntamento in spiaggia per seguire uno dei pescatori che ho conosciuto ieri. La luce è ottima e cerchiamo di parlare in qualche modo prima che arrivi Rehaf, la mia fixer.

Lui conosce qualche parole d’inglese e io negli anni mi sono abituato a capire la gestualità dei palestinesi. Questo tipo di pesca è strano: fermi in mezzo al mare a poche metri dalla riva con la rete in mano. Appena avvistano qualcosa lanciamo la rete e la tirano e loro ogni volta, a prescindere che abbiano pescato o meno, devono tornare a riva per risistemare la rete.

È un lavoro lungo che necessita di molta pazienza e spesso, come oggi, porta pochi risultati. I pesci infatti sono talmente piccoli che non vale la pena tenerli e quindi vengono ributtati in mare.

Durante la mattinata mi racconta del suo lavoro “ufficiale” per l’Autorità Nazionale Palestinese e del taglio che quest’ultima ha applicato agli stipendi mettendo in ginocchio la già precaria economica della Striscia. Pescare era una passione post lavoro, ma ora è diventato un impiego necessario, ma senza una barca è difficile e come al solito hanno fatto di necessità virtù.

Di barchette a pochi metri da noi ce ne sono molte. Evidentemente ci deve essere un po’ di pesce. Khaled invece continua a lanciare nel nulla. Ne approfittiamo per un tè e quattro chiacchiere: “Continuare è inutile, devo aspettare un po’”.

Parliamo dell’acqua inquinata che è uno dei problemi della Striscia, vista la totale assenza di possibilità di organizzazione dei rifiuti. C’è un canale a pochi metri da noi e quel canale porta lo scarico di tutta la città fino al mare e viene aperto ogni 2/3 giorni.

Credo che questo sia uno di quei giorni perché ho l’impressione di essere stato a galla in una massa fluida non ben identificata e lo sporco continuo a sentirmelo addosso. “Questo e tanti altri problemi come questo sono il risvolto dell’occupazione israeliana che non permette lo sviluppo di nulla”dice un ragazzo che si è unito a noi per il tè e che studia architettura.

Il suo sogno è studiare in nord Europa ed in particolare in Olanda, dove l’architettura ha uno spazio importante nella cultura locale e pullula di studi, mentre ora può pensare solamente alla ricostruzione nella speranza che arrivino i soldi della cooperazione internazionale a finanziare i progetti.

“Erez è chiuso”. Tre parole lapidarie spezzano la giornata in due. Nella prima parte eravamo felici perché stavamo aspettando l’arrivo del resto del gruppo del progetto di cui siamo parte: boxe popolare per maschi e femmine.

Domani dovrebbe iniziare tutto e invece l’imprevisto da queste parti è sempre dietro l’angolo: “Erez è chiuso”. Continuo a leggere quel messaggio incredulo immaginando la rabbia di chi è dall’altra parte del muro e che ha passato gli ultimi mesi a organizzare le giornate di lavoro qui e oggi si vede sbarrare le porte.

Veniamo a sapere che ieri ci sono stati scontri al confine e che un gruppo di palestinesi ha semidistrutto il check point 5.5, quello dalla parte palestinese, e che Israele ha chiuso il confine fino a data da destinarsi.

Ovviamente domani riproveranno ma il morale è basso e si fa sentire anche nel pomeriggio, mentre con Daniele pensiamo a come organizzare il workshop di domani mattina sul racconto per immagini.

Io mostrerò il mio ultimo lavoro a bordo della Open Arms, quello sui profughi siriani in Libano e quello sull’Escuelita Zapatista. Daniele racconterà l’esperienza del reportage sullo sciopero della fame delle donne palestinesi a sostegno dei prigionieri politici.

Questi lavori in realtà saranno solo l’occasione per far vedere i diversi approcci che si possono avere prima di un reportage. Partire da una notizia o costruire ex novo una storia e svilupparla, durante la spiegazione mi concentrerò soprattutto su questo lasciando poi il tempo alle domande che qua già dal primo corso che tenni all’università non sono mai mancate…anzi!

“Vuoi vedere quello che riesco a fare? Così mi fotografi…”, mi chiede un ragazzo con atteggiamento un po’ troppo macho ma con aria bonaria.

Non faccio nemmeno in tempo a rispondere che con le mani si appende a una struttura in ferro per fare palestra e inizia a volteggiare fino a saltare in piedi sulla sbarra orizzontale e per poi fare un salto mortale atterrando quasi perfettamente. Sorride soddisfatto e lo sono anche io, la foto che ho scattato mi piace.

Nella sfortuna di oggi la fortuna è che stasera è “il nostro turno” per l’elettricità. Va via per le 17 come sempre ma alle 20 torna e ora, 22:03, abbiamo ancora elettricità.

Qua per considerarsi fortunati basta qualcosa che per noi è normale.

Secondo giorno – martedì 4 settembre 2018
striscia di gaza vita
Credit: Valerio Nicolosi

“Hanno sparato a voi stanotte?”, chiedo a uno dei pescatori che incontro all’alba nel porto. Stanno rientrando dopo la nottata di pesca ma ci dicono che non hanno sentito nulla nel mare, ma qualcosa che veniva da terra.

Allora probabilmente le raffiche erano dirette davvero al confine nord dove tra gli altri c’è un campo profughi gestito dalla Jhiad islamica che qui è si un partito religioso ma che non c’entra nulla con l’Isis e Al Quada ma anzi, ha spesso fatto da paciere tra le fazioni religiose e non.

Con Daniele Napolitano, mio collega e compagno in questo viaggio, ci svegliamo con il canto del Muezzin che davanti alla nostra finestra canta. Per fortuna siamo andati al letto presto e siamo riusciti a recupera le energie dopo la giornata di ieri e quindi approfittiamo della “sveglia del muezzin” per fare foto con la luce migliore.

Ci dividiamo, lui segue i suoi progetti e io i miei. Ce lo siamo detto prima di partire perché a volte due fotografi e videomaker che fanno la stessa cosa nello stesso posto si annullano a vicenda.

Con Rehaf, la mia amica e collega che in questi giorni mi farà da fixer e traduttrice ci vediamo alle 7 al porto per iniziare per incontrare proprio i pescatori che rientrano a terra.

Mi raccontano che al momento le miglia entro cui devono stare sono 9 ma spesso i soldati israeliani intervengono anche dentro quel perimetro e arrestano senza motivi i pescatori.

Dietro ai “motivi di sicurezza” si nasconde l’arbitrarietà dell’occupazione militare. “Fare il pescatore qua non è come altrove: è difficile pescare in queste poche miglia e in più devi pensare a sopravvivere”, mi dice Khaled, 50 anni circa e 5 figli.

Intanto il canto del Muezzin è stato sostituito dal ronzio dei droni israeliani che pattugliano la Striscia per tutto il giorno. È un rumore fastidioso ma talmente costante che dopo un po’ ci si abitua e non ci si fa più caso.

Forse è anche il caldo torrido e l’umidità pazzesca che rende tutto difficile e i droni diventano quasi un problema secondario. I pescatori sono curiosi e l’essere italiano qua è sempre un’ottima carta da giocarsi per farsi ben volere.

Il porto di Gaza era il “regno” di Vittorio Arrigoni, il suo ricordo è ancora molto vivo e tutti i pescatori al solo nominarlo quasi si emozionano.

Mi raccontano che Gaza è cambiata molto nell’ultimo anno e che il passaggio di consegne tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese e il successivo litigio tra le due parti ha reso, se possibile, ancora più difficile la situazione.

La crisi è profonda e non vedono una soluzione politica a tutto questo. Mi raccontano anche della Grande Marcia per il ritorno. Mi dicono che alcuni di loro ci sono stati con le loro famiglie e no, non era organizzata da Hamas.

Era il frutto di un movimento popolare a tutti gli effetti. Inizio a gettare le basi per i miei reportage dei prossimi giorni. I pescatori sono una delle esperienze più forti della resistenza civile di Gaza e voglio raccontarli in modo più approfondito che in passato.

Mentre torniamo al centro Vik una colonna di fumo si alza dalla città. A quanto pare i droni hanno trovato un obiettivo “sensibile”. Successivamente mi dicono che probabilmente è stato colpito un campo militare.

“Venite allo Skate-Park nel pomeriggio?”, ci chiede Meri. “Lo abbiamo costruito con il centro Vik e ora c’è un bel gruppo di ragazzi che lo frequenta tutti i giorni”.

Con Daniele ci guardiamo e accettiamo. Questi sono i lavori che si possono fare insieme, ci dividiamo su chi fa foto e chi fa video e dopo un bel pranzo con alcuni amici che ci erano venuti a trovare al centro andiamo insieme e lavoriamo a questa storia.

“La chiamano Little Italy”, ci racconta Meri mentre andiamo. “Dopo questo e quello del Workout vogliamo sfruttare ogni angolo dello spazio antistante al porto e visto che come centro Italiano di scambio e formazione “Vik” siamo i più attivi qui l’hanno rinominata così”.

Al tramonto la lunga giornata volge quasi al termine se non fosse per il “solito” problema: non abbiamo elettricità. Al momento siamo al buio e internet è al bar sul lungomare davanti casa. Approfitteremo per fare una cena al “lume di Led”. Un po’ romantici, un po’ filmmaker.

Primo giorno – lunedì 3 settembre 2018
Credit: Valerio Nicolosi

Da quando ho iniziato a frequentare Gaza con una certa costanza ho notato che l’unica reazione possibile è quella di stupore mista a paura.

Ogni volta provo a contraddirli con dei racconti frutto dell’esperienza, ma comunque l’idea resta quella di un grande campo di battaglia dove ti sparano a ogni angolo. Per me Gaza è anche altro.

Prima di tutto è pazienza, perché so benissimo che ogni volta che devo entrare nella Striscia ho tre diversi livelli di controlli che spesso diventano anche interrogatori e perquisizioni. Fiumicino, Ben Gurion e Erez sono tre scogli in cui la sicurezza israeliana chiede il perché stia andando a Gaza e non importa che stia partendo perché ho già ricevuto l’ok da parte del loro governo dopo pratiche burocratiche lunghe e molto dettagliate per le questioni di sicurezza.

I timbri di alcuni Paesi arabi fanno scattare l’allarme e non basta mostrare i video e le foto che ho realizzato in quelle circostanze come “embedded” di Croce Rossa Internazionale. Quindi partenza all’una di notte da casa e arrivo a Gaza alle 16 del giorno successivo.

15 ore di viaggio in cui 40 minuti sono per arrivare a Fiumicino, 3 ore di volo, un’ora di taxi da Ben Gurion a Erez in cui il tassista israeliano di origini russe, quando ha capito che eravamo italiani, ha messo “lasciatemi cantare” a tutto volume cantando a squarciagola e facendosi serio subito dopo.

“Ma andate a Erez per andare a Gaza?”, ci chiede preoccupatissimo. “Si” rispondo con serenità. Inizia un discorso difficile da capire per via dell’inglese ma di cui abbiamo perfettamente inteso il senso.

Fino a qualche anno fa lavorava per una società di proprietà di un palestinese di Gaza. Lui si trovava bene e il suo capo era uno bravo. “Anche le altre persone di Gaza erano brave”, peccato per questa situazione.

Una conversazione inaspettata che dà l’idea di come la gente spesso sia più ragionevole di molti governanti.

Ricapitolando: 40 minuti casa/Fiumicino, 3 ore Fiumicino/Ben Gurion, un’ora Ben Gurion/Erez che sommate fanno circa 4 ore e 10 minuti. Tutto il resto è attesa, domande, controlli.

Una volta entrato però tutto questo diventa diventa “l’altro” che provo a spiegare alle persone. Sono amici e colleghi che nonostante siano nati e cresciuti qua dentro e alcuni di loro non siano mai usciti da questo pezzetto di terra, rimangono allegri e hanno tanta voglia di lottare per una vita normale.

È una generazione quella che va dai 20 ai 30 anni che si è ritrovata tra l’occupazione militare e le rigide leggi di Hamas. Un’incudine che li tiene fermi e un martello che periodicamente fa cadere bombe e spara tra la folla.

“Come la trovi Gaza?”, mi chiede Rehaf, una cara amica fotografa che è stata una studentessa del primo corso che feci all’università Al Aqsa.

Per rispondere devo prendere tempo perché è un luogo così pieno di contraddizioni che è difficile dargli un’etichetta o farsi un’idea con così poco tempo. Approfitto della vista sul mare che offre la terrazza in cui stiamo prendendo un tè, il sole ci regala un bel tramonto e le prime barche dei pescatori che escono completano un quadro che sembra una “natura viva”.

“L’ho trovata meglio”, rispondo di colpo come se fosse una verità da sputare. Soprattutto rispetto alla prima volta, quando venni nel 2014 a fine guerra, sembra un altro posto. Il lungomare pieno di bar con i tavolini vista mare, negozi ovunque, la solita vitalità tipica delle grandi città arabe che qui ha assunto una funzione di lotta e resistenza, molti palazzi ricostruiti completamente.

In realtà durante la nostra conversazione Rehaf mi racconta che ormai le ore di elettricità si sono ridotte a 2/3 al giorno, che il dissalatore è sempre rotto e che il mare è molto inquinato, che la crisi economica è la peggiore degli ultimi anni e che i supermercati e i negozi che vedo sono attivi grazie ad alcune famiglie benestanti che stanno cercando di creare lavoro.

La crisi politica tra Hamas e Autorità Nazionale Palestinese è profonda e anche questo ha contribuito a uccidere l’economia locale. La serata continua ad un concerto chiamato “Rooftop Festival” perché prevede l’organizzazione di un concerto sul tetto di una grande casa in riva al mare.

I finanziamenti sono arrivati dall’Unione europea. Anche questa è la Gaza che resiste quotidianamente all’occupazione. Un gruppo di donne con i bambini al seguito si diverte, canta e balla.

Approfitto per fare una foto iniziare così a raccontare la Striscia. Le donne sono sempre state il centro del racconto e continueranno ad esserlo anche stavolta.

“Le batterie sono scariche”, è quello che ci dice Meri Calvelli, la responsabile del Centro italiano “Vik” di Gaza che ci ospita in questi giorni.

“Le batterie” sono quelle dei tir che vengono ricaricate quando c’è corrente e danno energia nelle restanti 21/22 ore al giorno. C’è stato un problema e non si sono ricaricate quindi siamo al buio e senza connessione.

Se avessi scelto di andare da un’altra parte sono sicuro che mi sarei arrabbiato ma a Gaza è così, tutto aleatorio ma dove tutto è ridotto all’essenziale e stasera l’essenziale è un piatto di pasta al pomodoro e poter scrivere questo diario.

Nel buio totale vedo le lampare dei pescatori che sono vicino la costa, all’improvviso sento due raffiche ben distinte. Non vengono dal mare ma da Nord, verso il confine.

Forse sono i droni che tutto il giorno hanno sorvolato le nostre teste, forse sono i militari israeliani veri e propri. Quello che è certo che questo è quello che la gente sa di Gaza mentre io da quando sono venuto ho sempre cercato di raccontarla attraverso la sua bellezza e la sua vita quotidiana.

La pasta è pronta, ci sistemiamo nel balconcino e ci facciamo luce con i telefoni, vediamo alcune casa non distanti con le luci accese. La turnazione oggi è toccata a loro per l’orario migliore. Un istante dopo arriva il blackout e Meri dice: “Niente, è Gaza. Buon appetito”.

Il diario di bordo di Valerio Nicolosi dalla nave Open Arms, dal 22 luglio all’11 agosto 2018

striscia di gaza vita

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