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La rivincita delle comunità nigeriane sulla Shell

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Credit: AP

La compagnia risarcirà con 15 milioni le zone colpite da sversamenti di greggio. È l’ennesimo indennizzo riconosciuto dalla multinazionale. Ma i soldi non cancellano il devastante impatto ambientale provocato dai giganti degli idrocarburi. Come l’italiana Eni

L’aspettativa di vita media, che in Italia è di 84 anni, in Nigeria è pari a 53 anni. Ma nell’ovest del Paese, nelle regioni bagnate dal delta del fiume Niger, si registra un ulteriore drastico calo: 41 anni. Uno studio britannico ha stimato che in questo lembo di terra affacciato sul Golfo di Guinea solo nel 2012 circa 16mila bambini sono morti entro il primo mese di vita a causa delle fuoriuscite di petrolio dagli impianti di estrazione.

S&D

È un tragico paradosso: l’abbondanza di oro nero, che negli ultimi cinquant’anni avrebbe potuto arricchire a dismisura il popolo nigeriano, si è rivelata finora soprattutto fonte di disgrazie, e non ha impedito che oggi ancora il 41 per cento della popolazione (81 milioni di persone) viva in condizioni di povertà estrema.

Questo perché a gestire la quasi totalità dei pozzi petroliferi del Paese sono multinazionali straniere come l’olandese Shell o l’italiana Eni, che trasferiscono in Europa gran parte dei proventi dell’attività estrattiva.

Non solo: questi colossi occidentali sono accusati di sfruttare il sottosuolo nigeriano senza prestare abbastanza cura ala manutenzione e la sicurezza degli oleodotti, spesso bersaglio di azioni violente di gruppi armati locali, con il risultato che con troppa frequenza si registrano sversamenti di petrolio tossici per la natura e per la salute umana. 

Lo scorso 23 dicembre Shell ha reso noto che pagherà un risarcimento da 15 milioni di euro alle comunità Oruma, Goi e Ikot Ada Udo per un disastro ecologico avvenuto fra il 2004 e il 2007, quando una fuoriuscita di greggio dagli impianti della multinazionale devastò un’area di 400mila metri quadrati che era adibita principalmente ad agricoltura e pesca. A denunciare il gigante olandese, ormai quattordici anni fa, erano stati quattro contadini fra i più colpiti dagli sversamenti, affiancati nella causa dalla ong Friends of Earth. 

Shell ha sempre negato qualsiasi responsabilità imputando l’accaduto ad atti di sabotaggio e furti ai danni dei suoi oleodotti, ma nel gennaio 2021 la Corte d’Appello di L’Aja ha stabilito che ciò non è dimostrabile «oltre ogni ragionevole dubbio»: i giudici olandesi hanno effettivamente accertato che il disastro sia stato in parte provocato da una serie di manomissioni, tuttavia hanno ritenuto che la responsabilità dell’azienda resti «aperta» sia per le dimensioni enormi della fuoriuscita sia perché a distanza di anni la zona è rimasta contaminata e non sono stati effettuati sufficienti interventi riparatori.

La Corte ha ordinato a Shell di migliorare il sistema di sorveglianza dei suoi oleodotti per evitare il ripetersi di episodi come questo, mentre l’ammontare economico del risarcimento danni è stato definito in via extragiudiziale dalla compagnia petrolifera con Friends of Earth.

Questa vicenda – ha osservato il portavoce della ong, Donald Pols – dimostra che «le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo possono ottenere compensazione dalle multinazionali che le danneggiano». 

Tuttavia «l’accordo non prevede alcuna ammissione di responsabilità», ha precisato Shell. Quanto ai quattro agricoltori che hanno denunciato il gigante europeo degli idrocarburi, due di loro nel frattempo sono purtroppo morti.

Risarcimenti come questo restituiscono un senso di giustizia, ma non bastano a riparare i devastanti impatti sull’ambiente prodotti dalle inondazioni di petrolio.

Peraltro non è la prima volta che Shell si trova a dover indennizzare le popolazioni del delta del Niger. Nel 2015 la multinazionale olandese – che da circa un anno ha trasferito la sua sede a Londra – è stata condannata al risarcimento di 70milioni di euro in favore della comunità di Bodo.

Nel novembre 2021 l’azienda ha accettato di pagare 95 milioni di euro alla comunità di Ejama-Ebubu nell’Ogoniland per delle fuoriuscite di greggio avvenute tra il 1967 e il 1970, in piena guerra del Biafra (secondo Shell, il disastro fu provocato da sabotaggi ad opera di gruppi militari locali). 

È ancora pendente in tribunale, invece, l’esecutività della multa da 3,6 miliardi di dollari comminata dal Parlamento nigeriano al colosso europeo per il più grande incidente degli ultimi anni: lo sversamento di circa 40mila barili di petrolio nel giacimento di Bonga, il 20 dicembre 2011, che ha investito le comunità Ogoni, storicamente la più bersagliata dall’inquinamento da oro nero.

Friends of Earth ha calcolato che fra il 1976 e il 1991 nella regione abitata da questa etnia, che si estende per mille chilometri quadrati, sono avvenute quasi 3mila fuoriuscite di greggio, per circa 2 milioni di barili. Nel 2009 Shell ha accordato un risarcimento da 15 milioni di dollari per chiudere un processo negli Stati Uniti nel quale era accusata di aver collaborato all’esecuzione dello scrittore Ken Saro-Wiwa e di altri otto leader Ogoni.

«Sebbene fossimo pronti a riabilitare il nostro nome in tribunale, crediamo che la strada giusta sia quella di concentrarsi sul futuro del popolo Ogoni», spiegò Malcolm Brinded, direttore della divisione Exploration&Production della multinazionale.

Secondo la National Oil Spill Detection and Response Agency (Nosdra), responsabile del monitoraggio e della risposta agli sversamenti di petrolio in Nigeria, fra il 2011 e il 2021 nel Paese si sono registrati oltre 9mila incidenti per un totale di quasi mezzo milione di barili che hanno inquinato il territorio.

Anche l’Eni è coinvolta. La comunità Ikebiri, che vive nello Stato di Bayelsa, sempre sul delta del Niger, ha denunciato la multinazionale italiana per l’esplosione di una conduttura  petrolifera a 250 metri da un torrente a Clough Creek, il 5 aprile 2010: l’incidente privò di fatto la comunità locale delle sue principali fonti di sostentamento, ovvero pesca e agricoltura.

Chiamata in giudizio davanti al Tribunale di Milano, Eni ha poi avviato una trattativa privata con gli Ikebiri che ha portato all’estinzione del processo in attesa della definizione di un accordo transattivo.

Ma nello Stato di Bayelsa la società partecipata dallo Stato italiano è accusata anche di scaricare sostanze tossiche nelle acque. Nel novembre 2021 il Governo nigeriano ha esortato Eni a garantire indennizzi alla comunità locale.

L’azienda sostiene però che «l’inquinamento ambientale è riconducibile alle attività illegali di raffinazione e distribuzione di petrolio che avvengono in impianti rudimentali in aree remote di foresta e attraverso fiumi» ad opera di «cartelli criminali» e che «Eni provvede in ogni caso alla bonifica dei terreni». L’azienda precisa inoltre di aver «contribuito costantemente allo sviluppo del territorio (…) attraverso la fornitura di energia elettrica, acqua, lo sviluppo di infrastrutture e opportunità di studio e lavoro».

Eni e Shell sono state anche al centro di un importante processo davanti al Tribunale di Milano per la presunta maxi-tangente da un miliardo di dollari pagata per aggiudicarsi a condizioni favorevoli la licenza a sfruttare il prezioso giacimento off shore nigeriano Opl 245, al largo del delta del Niger.

Il 17 marzo 2021 i giudici meneghini hanno tuttavia assolto entrambe le multinazionali e le 15 persone fisiche imputate perché «il fatto non sussiste». La Procura ha rinunciato all’appello e la sentenza è così diventata definitiva.

LEGGI ANCHE C’era una volta il modello Mattei: quando Eni divideva i profitti del petrolio con i Paesi produttori

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