“La vita qui è un inferno”: viaggio nel cuore di Kharkiv, città-simbolo della resistenza in Ucraina
Macerie, palazzi sventrati, lutti e sirene d’allarme ma la popolazione non si arrende alle truppe russe. Grazie ai forni sociali, alle scuole sotterranee e alla solidarietà di ong e volontari, anche italiani, che ogni giorno sfidano la morte. Il reportage di TPI dal fronte
«Buonasera signori», dice un uomo intento a fumare nei ballatoi del cortile interno di un ostello. «Se suonano le sirene non dovete preoccuparvi», spiega in un italiano arrugginito, ma gioviale: «Qui a Lviv non dovete scendere nei rifugi». L’uomo si chiama Igor e sta accogliendo una decina di volontari italiani che si sono mobilitati da tutta Italia per portare solidarietà agli abitanti di Kharkiv, la più grande città ucraina nella regione orientale del Paese a non essere caduta sotto l’occupazione russa.
«State andando a Kharkiv?», dice Igor con un sussulto, mentre si fa scuro in volto. «Mamma mia! Quando andate lì guardate sempre in cielo», prosegue, e mima i droni kamikaze che attaccano in continuazione la città. L’uomo ha 55 anni e viene proprio da Kharkiv, dove abitava insieme alla moglie e alle due figlie, morte sotto ai bombardamenti. «Dio ha voluto così», dice laconico Igor, che oggi sopravvive grazie ai risparmi che gli manda dall’Italia sua sorella, che per anni ha lavorato come badante nel nostro Paese.
In fuga dalla violenza
Igor è uno dei circa tre milioni e ottocento mila sfollati interni ucraini. Ovvero, tutte quelle persone che si sono ritrovate a fuggire dalle aree più calde del conflitto, ma che continuano a vivere all’interno dei confini ucraini. Per molti, tra cui Igor, si tratta di una scelta obbligata. Parla italiano perché lavorava come operaio a Garlasco, dove aveva un contratto a tempo indeterminato presso una ditta edile e guadagnava più di 2.500 euro al mese. Igor vorrebbe tornare in Italia, ma la legge gli impone di rimanere nel Paese: finché non avrà 60 anni non potrà lasciare l’Ucraina.
Al netto dei bombardamenti saltuari e imprevedibili, le grandi città come Lviv, situate nelle regioni occidentali dell’Ucraina, sono riuscite a raggiungere una sorta di equilibrio. Ma la guerra procede e chi vive nelle regioni orientali ucraine, dove il fronte continua ad avanzare, spesso non ha i mezzi per attraversare il Paese. Oppure spera di poter tornare a casa quanto prima e quindi sceglie di non allontanarsi troppo. Infatti, secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, il 43% degli sfollati interni trova rifugio all’interno dello stesso Oblast.
Per centinaia di migliaia di ucraini la scelta ricade su Kharkiv, la seconda città più grande dell’Ucraina e un vero baluardo nella regione orientale. L’Oblast di Kharkiv, infatti, è la seconda regione ucraina con il più alto numero di sfollati interni, dietro quello di Dnipropetrovsk. Secondo I’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), sarebbero oltre 460mila gli sfollati che hanno trovato rifugio nella regione di Kharkiv, di cui oltre 200mila in città. Ed è proprio qui che un’organizzazione italiana – Rescue Team – ha deciso di concentrare i suoi sforzi. Aiutando chi sceglie di fuggire, ma soprattutto chi sceglie di rimanere.
Il fronte di Saltivka
Camminando per i viottoli che collegano i complessi residenziali di Saltivka, uno dei quartieri di Kharkiv più colpiti dai bombardamenti, è difficile immaginare che qualcuno possa scegliere questa città come rifugio. Prima della guerra, Saltivka era un quartiere densamente popolato in cui vivevano circa 300mila persone, noto per essere uno dei complessi residenziali più grandi di tutta l’ex Unione sovietica. Oggi la sua collocazione geografica rende il quartiere particolarmente esposto alle operazioni belliche: il confine con la Federazione Russa dista appena 37 chilometri e Saltivka è il primo quartiere in cui ci si imbatte entrando in città da nord-est. Ovvero, venendo dalla Russia.
Ludovico Gualano, 31enne milanese e presidente di Rescue Team, ha portato i volontari italiani qui per far toccare loro con mano cosa significhi vivere la precarietà di questa città. La loro intenzione è quella di aprire un forno sociale in città, consegnare materiale medico e svolgere sessioni di terapia con bambini affetti da disturbi dello spettro autistico. È una mole di lavoro importante, ma Gualano opera sul territorio ucraino sin dal 2022, quando con la Giuditta Rescue Car si occupava di distribuire aiuti umanitari e prestare soccorso agli sfollati: «Ho iniziato a lavorare in maniera costante a Kharkiv nel settembre 2024, quando sono arrivate le bombe a grappolo sui quartieri residenziali», racconta il presidente di Rescue Team a TPI. «Altre volte venivano attaccati i quartieri industriali, era del tutto impossibile prevedere cosa sarebbe stato attaccato il giorno dopo».
Secondo l’Onu, il 70% degli edifici residenziali di Saltivka è stato danneggiato. Ci sono finestre i cui vetri, fatti esplodere dall’onda d’urto delle detonazioni, sono stati sostituiti con pannelli di legno o semplici teli di plastica. E poi ci sono gli appartamenti le cui mura sono ancora avviluppate dal nerume di un vecchio incendio: in molti casi giacciono sventrati e dalla strada si può vedere chiaramente l’interno di un salotto o di una cucina.
Cooperanti sotto attacco
Chi ha scelto di rimanere a vivere qui è refrattario agli sviluppi geopolitici internazionali. Come Viktor, il padre di Olena, una bambina di 12 anni che gioca su un’altalena. Interrogato sull’andamento dei negoziati, il padre di famiglia risponde: «Alaska?», riferendosi al summit di quest’estate tra Putin e Trump. «Non me ne importa nulla», prosegue l’uomo prima di girarsi verso il palazzo di casa sfregiato dalle schegge di un’esplosione e dire in ucraino: «Racketa», ovvero, missile.
Dietro l’angolo rispetto a dove Olena fa avanti e indietro sull’altalena, Gualano richiama l’attenzione dei volontari sull’asfalto, dove sono ancora presenti le impronte dei carri armati che hanno stazionato tra i palazzi. Cento metri più avanti ci sono le trincee scavate nel 2024, quando i russi hanno lanciato una nuova offensiva di terra nella regione, destando seria preoccupazione tra la popolazione locale. Secondo l’Unhcr, nel solo mese di maggio dello scorso anno, 10mila persone sono state evacuate dal fronte e portate a Kharkiv.
«Quando sono stato qui l’ultima volta, pareva che i russi potessero avanzare in direzione della città», ci racconta Gualano. «Anche per questo ho preso parte a centinaia di evacuazioni dal fronte». La quantità di missioni umanitarie svolte da Gualano in Ucraina gli è valsa un’accusa formale da parte delle autorità russe, che hanno spiccato un mandato di cattura con l’accusa di sostegno al terrorismo e inimicizia tra i popoli. Accuse che stridono con il background da attivista di Gualano – già attivo in contesti come Siria e Gaza – il quale ha sporto denuncia presso i Carabinieri per tutelarsi e continuare a fare il volontario in Ucraina. Ma a preoccupare non sono solo le intimidazioni burocratiche: «I russi aprono il fuoco contro i veicoli anche quando sono chiaramente contrassegnati come umanitari», racconta Gualano, e può capitare di trovarsi sotto attacco da parte di droni o addirittura sotto il fuoco dei mortai, come successo a lui.
Secondo l’organizzazione umanitaria statunitense Care, in Ucraina nei primi sei mesi del 2025 gli attacchi contro operatori umanitari sono aumentati del 50% rispetto al 2023, passando da 62 a 93, con picchi nelle regioni di Kherson, Donetsk e Kharkiv. Ma sono numeri in costante evoluzione: lo scorso 4 settembre, nell’Oblast di Chernihiv, due volontari danesi hanno perso la vita e altre 8 persone sono state ferite da un missile russo mentre partecipavano a un’operazione di sminamento del territorio.
Sforzi umanitari
Nonostante la fanfara che ha accompagnato il summit in Alaska tra il presidente statunitense Trump e il suo omologo russo Vladimir Putin lo scorso agosto, le operazioni di guerra lungo il fronte non si sono attenuate. Anzi. A farne le spese è la popolazione civile, che vede il fronte avvicinarsi inesorabilmente. «Tra luglio e agosto di quest’anno abbiamo notato un aumento delle evacuazioni», afferma Elisabeth Arnsdorf Haslund, portavoce in Ucraina dell’Unhcr. Il numero degli sfollati in fuga dai combattimenti è nuovamente in crescita e «questo è dovuto alle ostilità lungo il fronte e ai costanti bombardamenti». E mentre i finanziamenti internazionali per la cooperazione e lo sviluppo subiscono tagli drastici, il lavoro delle ong locali è diventato fondamentale per garantire la salvezza di migliaia di persone.
Organizzazioni ucraine come quella di cui fa parte Slavik Podgornyy, un ventenne che guida un’ambulanza donata dalla Croce Bianca di Milano, attraverso la mediazione di Gualano, lungo uno dei tratti autostradali più pericolosi al mondo. La sua missione è di portare in salvo chi si è ritrovato a vivere troppo vicino al costante martellamento delle bombe. Slavik è partito da Kharkiv alle cinque del mattino e guida come un forsennato, mentre suo padre Sasha lo rimprovera ogni volta che frena eccessivamente e lo fa sobbalzare dal lettino su cui è seduto nel retro dell’ambulanza. A partire dal 2022, la loro organizzazione ha contribuito a evacuare oltre 10mila persone.
Lungo l’autostrada H-20
Se la situazione a Kharkiv è problematica, nei centri abitati attraversati dall’autostrada H-20 è critica. Il tratto autostradale della H-20 è un’arteria asfaltata lunga 250 chilometri che collega la città di Slovjansk a Mariupol, località che già dalle primissime fasi dell’invasione su larga scala è passata in mano ai russi. L’Institute for the Study of War Ukraine ha rinominato l’H-20 la “Fortress Belt”, ovvero la cintura fortificata che difende la porzione ancora in mano agli ucraini del Donetsk e del Donbas.
«Non ho paura di fare questo tipo di operazioni con mio figlio», ci racconta Sasha mentre l’ambulanza continua a sfrecciare verso Kramatorsk, dove li aspetta una famiglia. «È quello che dobbiamo fare per il nostro Paese». Quando l’ambulanza arriva a destinazione nei pressi di Kramatorsk, nel cortile della famiglia da evacuare, in strada ci sono già un materasso, diverse scatole e perfino un frigo e una lavatrice. Sasha e Slavik non fanno domande di alcun tipo. Il loro servizio è gratuito e nei loro viaggi si sono ritrovati a trasportare di tutto: bambini, anziani, masserizie di ogni tipo e anche cani e gatti di razza.
«Ormai la linea del fronte è molto più vicina», ci riferisce una delle donne che stanno per essere evacuate, ma che preferisce non essere identificata. «Abitavamo in città a Kramatorsk e ci siamo spostati in campagna sperando che fosse più tranquillo. Ma adesso non è sicuro neanche qui», prosegue. «I bombardamenti sono quotidiani, soltanto ieri sera ci sono stati tre attacchi missilistici», continua la donna: «Speriamo di poter stare più tranquilli a Kharkiv».
Vivere sotto le bombe
Ma la tranquillità a Kharkiv è un concetto del tutto relativo. Soltanto 24 ore dopo l’evacuazione effettuata da Sasha e Slavika, Kharkiv viene attaccata da uno sciame di droni Geran-2, ovvero la versione prodotta in Russia dei droni originariamente realizzati in Iran. Intorno alle cinque del mattino del 18 agosto quattro di questi droni si abbattono contro una palazzina residenziale nel quadrante sud-est della città. Perdono la vita sette persone, di cui cinque appartenenti allo stesso nucleo familiare: tre generazioni spazzate via in un istante, dalla nonna alla nipotina che non aveva ancora compiuto due anni, passando per il fratellino di 16 anni e i due genitori.
Nonostante i lutti quotidiani – o quasi – il cuore di Kharkiv continua a battere. Lungo le strade del centro è possibile imbattersi in una donna intenta a provarsi l’abito da sposa. Orgogliosa del suo matrimonio come qualsiasi altra sposina al mondo. E nelle discoteche della città si può prendere parte a rave pomeridiani – per consentire il rispetto del coprifuoco disposto dalla legge marziale ancora in vigore. Lo scorso agosto, ad ascoltare l’incalzante drum and bass ucraina al Some People, una delle discoteche più rinomate della città, c’era addirittura il celebre artista dissidente cinese Ai Wei Wei, che ha poi fatto visita alla brigata militare della città.
Ogni interazione in città ruota intorno a una dinamica di guerra condivisa tanto dalla popolazione locale, quanto dai volontari internazionali. Ed è così che ci si può ritrovare a finanziare l’acquisto di droni pagando l’ingresso in un locale, o a sfornare pagnotte destinate ai feriti ricoverati in ospedale. Come fanno i cuochi di Hell’s Kitchen: «Il nome è piuttosto appropriato, ci serve a ricordare a tutti che la vita qui è un inferno», ci spiega Franklin Orosco, un volontario californiano che aiuta a gestire la struttura. Grazie al lavoro assiduo di 60 volontari locali e 15 internazionali, Hell’s Kitchen riesce a sfamare mille persone al mese, consegnando razioni di borsch e pane in ogni quartiere della città. «Parte del mio lavoro consiste nel contattare i volontari e spiegare loro le condizioni in cui operiamo», racconta Franklin. «Io li chiamo e gli chiedo: lo sapete che la città viene attaccata ogni giorno? E loro mi rispondono: sì ed è per questo che vogliamo venire».
Imparare sotto terra
Il primo settembre, come nel resto dell’Ucraina, a Kharkiv hanno riaperto anche le scuole. Perfino il mondo dell’istruzione viene declinato seguendo i canoni della guerra. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, sono 17mila i bambini che frequentano istituti della città realizzati sottoterra per mitigare le conseguenze dei bombardamenti. Ma sono tanti i bambini ucraini che possono seguire le lezioni esclusivamente online, e tra questi i minori con disabilità o affetti da disturbi cognitivi rischiano di rimanere esclusi da ogni forma di socialità, con il rischio che le loro condizioni di salute ne risentano gravemente. E a Kharkiv c’è chi lotta anche su questo fronte. Come Valentina Butenko, direttrice di uno dei pochi centri di riabilitazione per bambini rimasti aperti in città. «Ufficialmente il centro è chiuso perché la struttura non dispone di bunker antiaerei», ci riferisce Butenko. Ma gli oltre 150 bambini seguiti da lei e dal suo staff non hanno un altro luogo dove poter socializzare e l’unica alternativa è quella di rimanere segregati in casa. Per questo la direttrice ha scelto di tenere aperto il centro e proseguire con le terapie riabilitative, sfidando le autorità locali. «Mi prendo le mie responsabilità», afferma Butenko.