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Reportage TPI – Nabi Saleh: l’assedio dei coloni è un’altra prigione per i palestinesi

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Il villaggio dista solo pochi chilometri da Ramallah ma è circondato da insediamenti illegali e checkpoint. Gli abitanti non possono spostarsi, nemmeno per lavoro, e subiscono i continui soprusi degli occupanti. Come denunciano a TPI la madre dell'attivista palestinese Ahed Tamimi, in carcere per un post su Instagram pubblicato da un profilo fake, e il padre di un bimbo di due anni ucciso a giugno dall'esercito israeliano

Nabi Saleh è un villaggio di circa 600 persone in Cisgiordania. Si trova a 20 chilometri da Ramallah ma, dopo l’inizio dei bombardamenti a Gaza, e con i tantissimi checkpoint dei militari israeliani installati sulle strade principali, per arrivarci di chilometri bisogna farne 64. A causa di questo, molti palestinesi non possono più muoversi dalle zone rurali per andare a lavorare. Il costo della benzina (molto cara e proveniente da Israele) per raggiungere i luoghi di impiego, costerebbe più del guadagno di una giornata di lavoro.

S&D

Entrando a Nabi Saleh, la prima cosa che si nota sono fotografie e poster ovunque: sono i “martiri”, persone, molto spesso ragazzi giovanissimi, uccisi durante i continui raid israeliani.

“Mia figlia è innocente”
Questo villaggio è salito agli onori della cronaca grazie ai video di Ahed Tamini, attivista palestinese di 22 anni, filmata mentre difende la sua casa dalla minaccia di demolizione dei soldati israeliani. Il 5 novembre, Ahed è stata arrestata per aver pubblicato un post su Instagram (è stata poi rilasciata il 29 novembre, ndr). A raccontarci questa storia (prima del suo rilascio, ndr) c’è sua madre: Nariman, che ci accoglie nel giardino di casa sua.

«Ahed è sempre stata combattiva, sin da bambina. Era stata già arrestata quando aveva 16 anni. Giornali e tv hanno raccontato che aveva preso a schiaffi e calci un soldato. In realtà la storia del primo arresto è molto diversa», ci spiega. «Abbiamo sentito degli spari e delle urla che venivano dalla strada. Ahed ha studiato delle basi di primo soccorso, quindi si è precipitata fuori, dove ha trovato suo cugino per terra, ferito. Mia figlia capisce l’ebraico e ha sentito un soldato dire all’altro: “Ho finito i proiettili di gomma, cosa faccio?”. Il secondo ha risposto: “Usa quelli veri, ammazzali!”. Questo ha fatto scattare in piedi Ahed che si è messa tra suo cugino e i soldati, schiaffeggiandone uno», ricorda.

«Per quanto riguarda l’ultimo arresto invece, la scusa è abbastanza ridicola. I soldati sono arrivati in casa, hanno perquisito tutto e l’hanno portata via dicendo che, su un post di Instagram, aveva minacciato di voler uccidere uno dei coloni», aggiunge sua madre. «In realtà il profilo di Ahed era già bloccato da molto tempo prima. Il post in questione era una delle tante pagine, di fan o fake, che si aprono in tutto il mondo. In particolare, in questo caso, l’account si è scoperto poi essere di un ragazzo algerino. Nonostante l’innocenza di mia figlia sia stata provata, si trova ancora in carcere».

Da quanto vanno avanti questi attacchi verso le vostre case e, dopo quello che sta accadendo a Gaza, cosa è cambiato?
«Gli attacchi da parte dei coloni, insieme a quelli dei soldati, ci sono sempre stati da quando sono arrivati i primi insediamenti. Qui, a Nabi Saleh, la colonia è arrivata nel 1976. La nostra terra è stata pian piano inglobata nelle loro proprietà e ora, sono arrivati a poche centinaia di metri dalle nostre case. Io sono nata qui, ci hanno sempre provocato, da che ne ho memoria. I “settlers” (così vengono chiamati i coloni in Palestina), con la protezione dei soldati dell’IDF (Israeli Defence Force), attaccano tutti i villaggi nelle loro vicinanze. Piazzano posti di blocco, assaltano i mezzi che trasportano cibo e acqua, rendono le vie di comunicazione sempre più difficili, a volte impossibili. Ci lanciano lacrimogeni, irrompono di notte nelle nostre case per perquisirle danneggiandole e, quasi ogni giorno, ci tagliano la corrente. Di recente, alcuni settlers ci hanno rubato anche i pannelli solari. I coloni sono diventati più aggressivi e violenti non dal 7 ottobre, ma dallo scorso dicembre, quando sono stati annessi alla riserva dell’esercito. Il punto dove tutto qui è cambiato è stato quello, non Gaza. Facendo parte della riserva, ora i coloni hanno più armi, persino i ragazzini hanno un fucile. Essendo parte della forza armata, ora si sentono legittimati a fare qualsiasi azione senza temere nessuna conseguenza.  Quest’ anno, non abbiamo potuto nemmeno raccogliere le olive per fare l’olio, cosa molto preziosa per il nostro sostentamento. Ogni volta che ci recavamo nei campi ci aggredivano a bastonate. In altri casi, per provocarci, hanno tagliato e bruciato gli alberi».

Perché tutta questa violenza, cosa vogliono i coloni da voi?
«La risposta è semplice: dobbiamo andare via. Non importa chi ci sarà a capo del governo in Israele, fin quando ci saranno le colonie, non ci sarà pace. La nostra colpa è solo quella di essere palestinesi. Non è un problema religioso come molti dei media fanno trasparire, noi possiamo vivere accanto a ebrei, cristiani e musulmani. Il problema è che, per i coloni, questa terra è loro, promessa da Dio, e noi siamo solo d’ intralcio. Ad esempio, ho ricevuto un avviso con una data di sgombro. Se non ce ne andremo entro la fine di dicembre, verranno a demolirci la casa con le ruspe. Noi ci opporremo, ma siamo da soli. Non abbiamo nemmeno un vero Stato, chi dovrebbe difenderci?».

Cosa vi dà la forza di resistere?
«È semplicissimo: questa è casa nostra. Siamo stati già profughi nel 1948, non vogliamo esserlo di nuovo. Io dico sempre che i Palestinesi sono l’unico popolo davvero libero nel mondo. Non libero in maniera pratica, perché di fatto non possiamo andare da nessuna parte, non abbiamo quasi diritti. Ma siamo liberi nel senso che siamo fedeli ai nostri princìpi, siamo gli unici che non si abbassano allo strapotere di Israele e Stati Uniti».

Ho incontrato tanti ragazzi dell’età di tua figlia, tutti molto attivi nelle proteste. Ahed si è esposta molto, sei più orgogliosa o preoccupata per lei? Pensi che questa nuova generazione potrà cambiare le cose?
«Non sono preoccupata. Ahed è forte e coraggiosa. Devi capire che qui i ragazzi sono nati in questa situazione. Sono nati sentendo gli spari, sotto il lancio di gas lacrimogeni e le continue provocazioni dei coloni. Una volta ho letto una storia sugli indiani d’ America. In alcune tribù, ai bambini, si somministravano piccole quantità di veleno di serpente ogni giorno, per diventarne immuni. Ecco, i nostri figli hanno visto così tanti episodi di violenza, che il loro coraggio sta diventando immune alla paura. Per quanto riguarda i giovani, si, noi resistiamo per loro. Sono sicura che saranno loro a cambiare le cose».

“I giovani delle Colline”
Gli israeliani sionisti sono arrivati in quest’area a fine anni Sessanta, dopo la guerra dei Sei giorni. All’inizio erano presidi militari, poi le colonie si sono trasformate in comunità che pian piano, illegalmente, hanno occupato sempre più spazio.

I coloni in Israele vengono chiamati: “I giovani delle Colline”. Spesso sono persone dedite alla violenza, poco istruite, estremisti di destra, piantagrane di cui la comunità israeliana moderna farebbe volentieri a meno.

Spostandoli in queste colonie, magari dietro lauti compensi e spese pagate, a queste persone viene affidata la “missione” di presidiare una terra che, secondo le sacre scritture, un giorno sarà soltanto loro.

Nei continui attacchi (sia dell’IDF che dei coloni) da gennaio a ottobre, quindi prima degli eventi di Gaza, sono stati 132 i Palestinesi uccisi in Cisgiordania, 41 di loro erano bambini. 

“Perché uccidere mio figlio?”
Proprio qui, a Nabi Saleh, c’è stata la vittima più giovane fino ad ora: il piccolo Mohammed di due anni e mezzo, colpito da un soldato israeliano lo scorso primo giugno. La strada che arriva a casa dei suoi genitori è tappezzata di foto che raffigurano il volto del bambino. Haitam, il padre che fa il pasticcere, ci accoglie con una tazza di caffè e dei dolci preparati da lui.

«Quel giorno, dovevamo andare ad un compleanno di un cuginetto di famiglia. Io avevo notato che, per strada, c’era più tensione del solito. Avevo deciso di non andarci più, ma, i miei figli ci tenevano così tanto che abbiamo deciso di uscire. Ho sistemato il piccolo Mohammed sul seggiolino sui sedili posteriori. Mentre aspettavo che mia moglie e l’altro mio figlio, Osama, mi raggiungessero», ricorda. «Ho visto un primo colpo contro il parabrezza. Non mi sono preoccupato più di tanto all’inizio: coloni e soldati, per provocarci, spesso ci sparano con proiettili di gomma. Subito dopo però, ho capito che questa volta era diverso. Un proiettile, arrivato dal lunotto posteriore, ha perforato il sedile e mi si è conficcato nella spalla. Ne è seguita una raffica più lunga, quando mi sono girato, ho visto Mohammed che era caduto giù dal seggiolino, era immobile. La raffica di colpi è stata talmente fitta che mia moglie non mi ha potuto raggiungere ed è rientrata in casa. Ferito, ho guidato sotto gli spari verso il primo punto dove qualcuno potesse aiutarmi. Con mio cugino abbiamo cercato di uscire dal villaggio, ma i soldati avevano bloccato la strada. Abbiamo urlato che non ci saremmo mossi fin quando non ci avessero fatto passare. Abbiamo raggiunto i cancelli della colonia per cercare aiuto, spiegando che era colpa loro quello che era successo e dovevano fare qualcosa. I settlers hanno fatto arrivare un elicottero che si è portato Mohammed in un ospedale di Tel Aviv. All’inizio ci hanno vietato di andarlo a trovare. Dopo un giorno, lo hanno permesso solo a mia moglie, per un’ora, da dietro un vetro. Dopo tre giorni, ci è stata comunicata la notizia della sua morte. Ci hanno riferito di aver fatto l’impossibile per salvarlo. Io penso che fosse morto già prima, quasi sul colpo, e che questa storia del tentativo di cure, sia stata messa in piedi per mostrare la loro buona fede. Abbiamo provato a chiedere giustizia alle autorità locali. Il soldato che ha sparato si è giustificato dicendo che, sul momento, ha scambiato i fari della mia auto per spari di un fucile. Mi è molto difficile crederlo, soprattutto perché Israele si vanta di avere l’esercito più preparato al mondo. Quale soldato esperto scambierebbe i fari di una macchina per spari? Ci siamo rivolti alle associazioni umanitarie, ma tutte ci hanno risposto che è inutile provarci, Israele è troppo potente».

Haitam e sua moglie non riescono più ad uscire di casa dalla porta dove è stato ucciso Mohammed: «Su quel lato abbiamo i fucili dei cecchini puntati addosso, da quella torre che vedi laggiù. Siamo così traumatizzati che, anche quando dobbiamo andare a trovare i miei genitori, usciamo dal retro e scavalchiamo un recinto». Mi dice mostrandomi i fori di proiettile sul muro e nelle finestre. I genitori di Mohammed mi portano in quella che era la sua cameretta. Nulla è stato toccato dallo scorso giugno: delle piccole scarpe da ginnastica sul comodino, il letto sistemato, alcuni poster alle pareti. L’ altro bambino, il figlio più grande, Osama di nove anni, non ha ancora ben capito quello che è accaduto e continua a cercare il fratellino per le stanze.

Quando gli chiediamo cosa vorrebbe dire a chi leggerà la sua storia, ci risponde: «Dicono che Israele si sta difendendo per quello che ha fatto Hamas il 7 ottobre. Ma Mohammed è stato ucciso a giugno, quando non c’era “guerra” e inoltre, era un bambino. Quindi? Spiegatemi il perché».

La lista nera
Prima di lasciare casa sua, mi regala una medaglietta con l’immagine di suo figlio, dandole un bacio prima di mettermela al collo. Risalendo verso la piazza principale il muezzin comincia il suo canto. Richiama i fedeli per la preghiera del Maghrib, quella delle 16:44 al tramonto. Vengo circondato da tutti i bambini del villaggio.

Gli chiediamo se non hanno paura di giocare fuori con i soldati così vicino: «I soldati ci sono sempre stati. Quando arrivano ci nascondiamo. Quando vanno via torniamo a giocare», ci rispondono.

Camminando per il centro, dietro un grande albero, c’è un piccolo monumento con tutti i nomi di chi è stato ucciso a Nabi Saleh, la maggior parte sono minorenni. Sul tronco dell’albero, un poster più grande mostra la foto di un altro ragazzino scomparso pochi mesi fa. Accanto alla foto, c’è disegnato un piccolo omino.

È Handala, il più famoso fumetto palestinese che si trova su tutti i murales in Cisgiordania. Nonostante il suo autore, Naji al-Ali, sia morto in un attentato nel 1987, Handala è disegnato sempre come un bambino di dieci anni, ritratto sempre di schiena, guardando verso la terra dove vorrebbe ritornare.

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