Odissea nordcoreana
Un sopravvissuto ai campi di lavoro racconta il regime dei Kim
Kang Chol Hwan è stato rinchiuso per dieci anni nella campo di prigionia di Yodok, in Corea del Nord. Quando vi è entrato, assieme alla sua famiglia, aveva appena 9 anni. La sua unica colpa è stata essere il nipote di una persona ritenuta non conforme alla vita nello stato socialista. Suo nonno aveva vissuto in Giappone, dove aveva accumulato una ricchezza considerevole e sebbene per fare ritorno in patria avesse dovuto cedere tutti i suoi averi al regime di Kim il Sung, la sua mentalità era stata irrevocabilmente infettata dal germe capitalista. Kang, che ha pubblicato la sua storia nel best-seller internazionale “Gli Acquari di Pyongyang”, racconta a The Post Internazionale vita e atmosfera in Nord Corea.
A causa del yeon-jwa-je (colpevolezza per associazione), non è raro che anche i bambini vengano deportati nei gulag. “L’esperienza dei bambini è resa ancor più difficile dal fatto che sono più sottomessi e obbedendo a qualsiasi ordine si caricano di compiti più gravosi di quanto in realtà possano sopportare”,spiega Kang, “sono quelli che muoiono più rapidamente nei campi, a causa della loro debolezza e dell’alto tasso di gravi incidenti durante le ore di lavoro.”
Dopo dieci anni Kang è stato liberato, probabilmente a causa della morte di suo nonno. Così è iniziata la sua odissea per fuggire dal paese, senza permessi o documenti e con il rischio costante di finire nuovamente a Yodok. Il percorso di un rifugiato politico nordcoreano attraversa Pechino, Shanghai e Guangzhou prima di addentrarsi nel sud-est Asiatico passando per il Vietnam, il Laos e infine la Tailandia. Da Bangkok si può fare domanda per l’asilo in Corea del Sud.
Ma se il viaggio in sè comporta dei rischi enormi, l’essere arrivati a Seoul per un nordcoreano non significa aver trovato la serenità. “La maggior parte di chi arriva è stata vittima di torture e sofferenze e trasferendosi in Corea del Sud è difficile superare queste cicatrici psicologiche” prosegue Kang “ad esempio, gran parte delle donne ha subito violenze sessuali e stupri e ne porta tuttora i segni sul corpo e nello spirito. Quasi il 70% delle donne che attraversano il confine affronta qualche tipo di violenza sessuale. Molte sono anche vendute come mogli in Cina e ci vogliono anni prima che riescano a imparare il cinese e trovare il modo di arrivare in Corea del Sud”.
La situazione non è migliore neanche per i bambini, i quali vengono cresciuti con un’educazione completamente diversa prima di arrivare in Corea del Sud: “Ѐ difficile per loro adattarsi ad una società così concitata e competitiva. Tuttavia sono gli individui maggiori di trent’anni che devono affrontare i maggiori ostacoli per adattarsi alla Corea del Sud: devono ricominciare da zero e per loro è difficile utilizzare le capacità che avevano al Nord”.
Nonostante il flusso di rifugiati politici continui a crescere – ormai in Corea del Sud ci sono oltre 23mila nordcoreani – Pyongyang continua a negare l’esistenza di qualsiasi problema dei diritti umani. Ma nelle ultime settimane una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite è stata incaricata di verificare possibili violazioni dei diritti umani nei campi di prigionia, un timido segnale da parte della comunita’ internazionale che pero’ comincia a muoversi nella giusta direzione. Almeno secondo Kang, il quale sostiene che “ nel breve termine le informazioni e le indagini svolte dall’ONU permetteranno di avere un quadro più dettagliato dei numeri e della collocazione dei campi di lavoro. Ѐ essenziale avere prima una profonda comprensione del sistema penale e di lavori forzati, per poter poi formulare accuse concrete”. L’obiettivo finale, almeno per i rifugiati politici nordcoreani, rimane un processo al regime di Kim Jong Un davanti alla comunità internazionale.
L’ultimo erede della dinastia Kim, tuttavia, non sembra voler cedere davanti alle richieste dell’Onu. Neanche stavolta gli ispettori verranno lasciati entrare nel paese. Eppure c’era stato un breve spiraglio di speranza da parte della comunità internazionale quando Kim Jong Un era salito al potere. Gli osservatori presumevano che essendo stato educato in Europa egli sarebbe stato più attento al tema dei diritti umani all’interno del paese. Invece poi sono arrivati il lancio dei satelliti e le tensioni regionali che hanno fatto temere addirittura lo scoppio di una guerra.
Speranze mal riposte? “Ѐ evidente” spiega Kang “che Kim Jong Un ha provato a seguire le strategie diplomatiche del padre, adottando le stesse minacce e la medesima retorica bellica. Nonostante questo le sue azioni gli sono sfuggite di mano, rompendo l’equilibrio dimostrato da Kim Jong Il tra minacce e trattative con i maggiori esponenti internazionali”.
Kim Jong Un si troverà davanti alla necessità di attuare riforme che gli piaccia o no. E se da una parte egli vorrebbe conservare il regime come è sempre stato, dei cambiamenti devono avvenire, spiega Kang: “Il governo nordcoreano sta provando ad implementare riforme di carattere puramente economico, i mercati privati inevitabilmente si espanderanno e ciò avrà certamente un impatto sulla società nordcoreana.”
Nel frattempo gli Stati Uniti d’America sono sempre alla finestra. Due settimane fa il Segretario di Stato John Kerry ha annunciato che l’intervento in Siria sarebbe potuto servire anche come monito per i regimi come l’Iran e la Corea del Nord. Frasi che sono state viste di buon occhio da alcuni rifugiati politici nordcoreani. “La Siria è un Paese che ha relazioni molto strette con la Corea del Nord” dice Kang “Le azioni recentemente prese dal governo siriano e l’uso di armi di distruzione di massa non possono essere tollerate dalla comunità internazionale. Sono favorevole all’intervento militare da parte del governo americano e penso che sarà un buon esempio per la Corea del Nord. Guardando agli eventi in Siria, la Corea del Nord dovrà riconsiderare il percorso su cui si è avviata”.
Ma un intervento più efficace della comunità internazionale potrebbe riguardare il tema dei disertori, secondo Kang ancora più importante del tema nucleare. In Corea del Nord anche un civile viene giudicato disertore a tutti gli effetti se lascia il paese senza autorizzazione.
“Il problema più grande per i disertori” conclude Kang “è il rimpatrio forzato da parte delle autorità cinesi”. Mettere fine a questa prassi sarebbe giá una piccola vittoria per la comunitá internazionale.