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Home » Esteri

Lezioni per i giovani dalla rivolta della Generazione Z in Nepal

Immagine di copertina
Credit: AGF

Le proteste scoppiate nel Paese himalayano contro una proposta di legge volta a oscurare 26 piattaforme social hanno messo in ginocchio l'establishment di Kathmandu, dando vita a una vera sollevazione contro corruzione e nepotismo. Ma il sistema ora prova a reagire

«D’ora in poi, qui ci saranno solo i giovani della Generazione Z. I leader corrotti saranno cacciati dal Paese». Da Kathmandu a Jakarta, da Lima a Rabat una nuova stagione di mobilitazioni sta facendo tremare governi da una parte all’altra del mondo. Proteste improvvise, spesso organizzate sui social, sono riuscite a mobilitare migliaia di persone portando alla caduta, nelle ultime settimane, di governi in Nepal, Madagascar e Perù e a instabilità in Paesi come Marocco e Indonesia.

Protesta globale
Si tratta di movimenti diversi, nati in luoghi distanti tra di loro, ciascuno con le proprie rivendicazioni, che vanno dalla lotta alla corruzione a quella ai tagli allo stato sociale, fino a quella contro il genocidio. Ma la caratteristica comune a cui i media hanno dato maggiormente risalto è stata in particolare una: la giovane età dei partecipanti. Un’appartenenza rivendicata dagli stessi manifestanti, che non hanno esitato ad appropriarsi dell’etichetta di Generazione Z, usandola negli slogan e nell’organizzazione delle proteste.
Come in Marocco dove il gruppo “GenZ 212”, un riferimento al prefisso internazionale del Paese, ha coordinato le proteste usando un server Discord. O in Perù dove, durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni, sono comparsi manifesti che inneggiavano alla “Generacion Z”, accompagnati dalla bandiera dei pirati di Cappello di paglia del manga “One Piece”. Anche in Madagascar i giovani di “Gen Z Ankatso” hanno usato la bandiera con il teschio, aggiungendo un cappello tradizionale malgascio per adattarlo al contesto locale. Lo stesso simbolo è stato visto durante le proteste oceaniche in Italia, in questo caso contro i crimini israeliani nella Striscia di Gaza.
Il successo, almeno iniziale, di questa ondata di proteste ha convinto molti osservatori che la generazione dei nati tra il 1997 e il 2012  è «la nuova forza nella politica globale», come afferma il Financial Times. Secondo il quotidiano della City, la Generazione Z può rappresentare, all’interno dei rispettivi Paesi, sia una fonte di instabilità che un fattore positivo, in grado cioè di ricordare alle élite che la politica è basata su un contratto sociale e non dà diritto a «una licenza per saccheggiare».

Il caso Kathmandu
Il caso che più di altri ha portato questi temi alla ribalta è stato quello del Nepal, dove a inizio settembre le proteste contro la corruzione e i privilegi delle élite al potere hanno provocato in poco tempo la caduta del governo. A far precipitare gli eventi è stata la reazione delle autorità alle proteste indette l’8 settembre scorso, per contestare le restrizioni imposte dal governo sui social media. Dopo che alcuni manifestanti avevano tentato di fare irruzione in parlamento, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco causando la morte di 19 persone, la maggior parte con meno di 30 anni. Il giorno successivo gruppi di manifestanti hanno preso d’assalto i palazzi del potere, facendo implodere nel giro di un giorno e mezzo il governo di Khadga Prasad Sharma Oli, al suo quarto mandato da primo ministro. In un Paese in cui metà dei 30 milioni di abitanti ha meno di 25 anni, molti dei manifestanti non ricordano l’ultima volta che il Nepal è stato attraversato da proteste che hanno portato a cambiamenti così repentini.
Per trovare un precedente nella storia del Paese himalayano, stretto tra India e Cina, bisogna tornare infatti a 19 anni fa, quando è scoppiata la rivoluzione che ha poi portato, nel 2008, alla fine di una monarchia con 239 anni di storia. All’epoca il Paese, che usciva anche da una guerra civile durata 10 anni, guardava con speranza al passaggio dal regno hindu a una nuova repubblica democratica e laica.
Il nuovo regime avrebbe dovuto, come afferma la costituzione del 2015 «costruire una società egualitaria fondata sui principi di proporzionalità, inclusività e partecipazione al fine di garantire uguaglianza economica, prosperità e giustizia sociale». Quella speranza di cambiamento, per molti dei giovani cresciuti nel primo quindicennio della repubblica, non è stata realizzata.

Promesse mancate
Fin dall’inizio le proteste hanno posto un forte accento sulle disuguaglianze e le promesse mancate di uno sviluppo che, agli occhi dei manifestanti, beneficia sempre più le famiglie al potere senza garantire opportunità per gli altri. Nonostante il successo nella lotta alla povertà, che in 30 anni ha portato la percentuale della popolazione sotto la soglia della povertà dal 55 allo 0,37 per cento, il Nepal rimane uno dei Paesi più poveri d’Asia. Secondo le stime della Banca mondiale il reddito pro capite è di 1.400 dollari all’anno, inferiore a quello di tutti i Paesi della regione escluso l’Afghanistan, mentre la crescita del Pil negli ultimi anni è stata in media inferiore al 5 per cento, un dato basso rispetto ai Paesi vicini.
Molti giovani sono quindi spinti a cercare opportunità all’estero, sia in Asia che in Medio Oriente. Aumentando le schiere di migranti che ogni anno lasciano il Paese (più di 400mila nel 2023) ma continuano a rivestire a ruolo centrale nell’economia del Nepal tramite le rimesse, arrivate a rappresentare circa un quarto del Pil. Nel periodo tra il 2019 e il 2023 il numero di emigrati è addirittura raddoppiato, mentre in altri Paesi asiatici l’aumento è stato meno accentuato o è stato addirittura negativo, come nel caso di Thailandia e Cina.
Le scarse opportunità in patria, dove il tasso di disoccupazione giovanile si colloca al 21 per cento, uno dei livelli più alti dell’Asia meridionale, sono tra i fattori che hanno alimentato la rabbia nei confronti della classe politica saldamente al potere dalla nascita della repubblica, delegittimata da scandali di corruzione e nepotismo, e di chi in Nepal sembra godere di una corsia preferenziale.
Già nei mesi che hanno preceduto le proteste il malcontento ha trovato sfogo sui social media, dove sono diventati virali foto e video che prendono di mira i figli dell’élite politica del Paese. Gli stessi contenuti condivisi dai rampolli delle dinastie politiche nepalesi, facendo magari sfoggio di abiti di lusso e vacanze costose, sono finiti così per essere usati da attivisti e utenti nella loro campagna contro la corruzione, diventata nota con i nomi degli hashtag più popolari, #Nepobabies e #NepoKid. Nati negli Stati Uniti per schernire i figli delle star hollywoodiane, criticando possibili favoritismi a Hollywood, negli ultimi anni questi termini si sono fatti strada fino in Asia meridionale, dove sono stati applicati anche alle dinastie politiche locali.
Una delle foto più condivise, ad esempio, è quella che mostra Saugat Thapa, figlio di un ministro provinciale, che si fa riprendere di fronte a una pila di confezioni regalo di marchi come Louis Vuitton, Cartier e Gucci, addobbata con decorazioni natalizie. «La lista dei regali di una qualsiasi persona non dovrebbe costare quanto una legge di bilancio», recita il testo che alcuni utenti hanno sovrapposto alla foto su TikTok. Ancora più esplicito un video che mostra sempre ragazzi indicati come figli di politici nepalesi, durante feste o alla guida di auto di lusso, alternati a persone sopravvissute a catastrofi naturali e migranti partiti all’estero in cerca di opportunità. Dai social questo tipo di critica è poi arrivato anche nelle piazze, come ricorda uno dei cartelli portati dai manifestanti che sono scesi in strada l’8 settembre: «Noi paghiamo, voi ostentate».

Dai social alle piazze
Proprio il tentativo di arginare i social è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. La decisione del governo di imporre restrizioni sulle piattaforme di social media più popolari, come Facebook e Instagram, ha causato disagi in tutto il Paese, impedendo alle persone di comunicare con i parenti e gli amici all’estero o a molte attività di rimanere in contatto con i propri clienti. Il divieto, entrato in vigore il 4 settembre, riguardava tutte e 26 le piattaforme accusate di non aver rispettato una nuova procedura di registrazione imposta dal governo. Una delle poche a non essere soggetta al divieto è stata TikTok, proprio perché aveva ottemperato al precedente obbligo di registrazione. Questo, paradossalmente, ha reso il social cinese uno strumento importante per la mobilitazione, assieme alle reti private virtuali (Vpn), usate dagli utenti per aggirare il blocco. Uno dei momenti chiave della mobilitazione è arrivato il 6 settembre, quando l’attivista e influencer Sudan Gurung, fondatore dell’ong Hami Nepal, ha lanciato un appello sui social, invitando i giovani nepalesi che usavano le reti Vpn a unirsi a «un movimento per la giustizia». Due giorni dopo migliaia di manifestanti, molti dei quali con indosso l’uniforme della propria scuola o università, hanno affollato le strade di Kathmandu. La protesta, inizialmente pacifica, è degenerata in una carneficina dopo che alcuni manifestanti hanno cercato di introdursi nella sede del parlamento. Un tentativo a cui le forze di sicurezza hanno risposto con gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, proiettili di gomma e munizioni vere. Dopo i violenti scontri dell’8 settembre, e le prime vittime, il governo ha deciso di rimuovere le restrizioni per, secondo quanto dichiarato da un ministro, «rispondere alle esigenze della Generazione Z». A quel punto però era già troppo tardi.
Il giorno successivo gruppi di manifestanti hanno assaltato e dato alle fiamme l’edificio che ospita l’ufficio del primo ministro, la Corte suprema e la sede del Parlamento, le sedi dei tre principali partiti del Paese e le abitazioni di diversi politici, oltre a centri commerciali e alberghi che, secondo i dimostranti, appartenevano a personalità legate a politici corrotti. Una dimostrazione di forza tale da costringere alla fuga il capo del governo Oli, una figura chiave della politica nepalese dell’ultimo decennio, lasciando il potere nelle mani dell’esercito. Gli attivisti non si sono attardati e già il 10 settembre hanno eletto il primo ministro ad interim, con un voto tenuto sulla piattaforma di messaggistica Discord, usata principalmente dai gamer: la scelta è ricaduta sull’ex presidente della Corte suprema del Paese Sushila Karki, eletta con 3.833 preferenze su 7.713 dai membri del canale “Giovani contro la corruzione”. Dopo altri due giorni di trattative tra il presidente Ramchandra Paudel, il capo di stato maggiore Ashok Raj Sigdel e i leader della protesta, Karki è diventata la prima donna ad assumere l’incarico di primo ministro del Nepal. Apprezzata dai manifestanti, che la considerano una paladina della lotta alla corruzione, Karki ha promesso che lavorerà «18, anche 20 ore al giorno, se necessario», con l’obiettivo di traghettare il Paese alle elezioni previste il 5 marzo.

Quale futuro per il movimento
Per quanto riguarda il movimento invece non è chiaro quale sarà il suo futuro. Una scritta comparsa fuori dall’edificio del parlamento dato alle fiamme prometteva che i «leader corrotti saranno cacciati dal Paese», assicurando «d’ora in poi, qui ci saranno solo i giovani della Generazione Z». Ma per il momento non sembra che sarà così. L’unico membro del governo appartenente alla Generazione Z è attualmente il ministro dello Sport, il 28enne Bablu Gupta, nominato a fine ottobre. In assenza di un leader e di un programma definito, le rivendicazioni di molti attivisti sono al momento limitate alla lotta alla corruzione, senza ancora rappresentare un’alternativa ai partiti tradizionali che hanno dominato la scena dalla caduta della monarchia.
Il Partito comunista dell’ex premier Oli, il Congress e i maoisti, i tre principali partiti del Paese, sembrano intanto aver ripreso l’iniziativa dopo lo smacco subito a settembre. Dopo aver smentito di voler lasciare il Paese, in un’intervista Oli ha accusato Karki e i manifestanti della Generazione Z di aver orchestrato un «attacco» contro la «sovranità» del Paese, il suo «territorio» e i suoi «interessi». Tutti e tre i partiti hanno messo in dubbio la legittimità del nuovo governo giudicando incostituzionale la procedura con cui il presidente ha nominato un’ex giudice della Corte suprema a capo del governo, al punto da boicottare la cerimonia di insediamento di Karki. Gli occhi sono puntati adesso sulle elezioni previste a marzo. Un appuntamento ravvicinato, che metterà alla prova le finanze e le istituzioni nepalesi e che i partiti potrebbero essere tentati di ostacolare, nella speranza che il vento dell’opinione pubblica cambi. Con il rischio di trovarsi ancora una volta a sfidare la rabbia della piazza.

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