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Una lady di ferro al comando della Nato? Ecco chi è (e come la pensa in politica) la premier danese Mette Frederiksen

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Testarda, idealista e con un forte senso di giustizia. La più giovane capo del governo della Danimarca potrebbe sostituire Jens Stoltenberg alla guida dell’Alleanza. Di provata fede atlantista, da anni la leader socialdemocratica spinge per aumentare le spese militari ed è in prima linea al fianco dell’Ucraina

Mette Frederiksen ha un bernoccolo sul naso, un forte senso della giustizia e non si tira mai indietro, proprio le qualità che Usa e altri Stati membri cercano per la prossima guida della Nato. Era il 1991 e l’attuale premier danese, in lizza come successore di Jens Stoltenberg per la carica di segretario generale dell’Alleanza, aveva appena 13 anni. Frequentava la scuola media Byplanvejens ad Aalborg, nel nord della Danimarca, dove da poco erano stati accolti sei studenti rifugiati dal Libano. Un giorno tre alunni più grandi, simpatizzanti del movimento razzista dei cosiddetti “Giubbetti verdi”, se la presero con uno dei ragazzi stranieri e lei intervenne. Prima la apostrofarono come una “perker-elsker” – un’espressione spregiativa e intollerante che significa più o meno “amante delle persone di origine mediorientale” – e poi passarono alle mani. Ma Frederiksen non si fece paura e ancora ne porta i segni sul viso.

La politica nel sangue
Sebbene dalla sua ultima visita a Washington del 5 giugno scorso non abbia ancora ricevuto la benedizione di Joe Biden e abbia poi ribadito di «non essere una candidata» (proprio come fece il suo predecessore danese Anders Fogh Rasmussen), Frederiksen sembra avere tutte le carte in regola per sostituire Stoltenberg, che lascerà l’incarico a fine settembre. Non è una missione facile, anche perché molti Paesi membri vorrebbero evitare un’altra leadership della Danimarca dopo il quinquennio di Rasmussen tra il 2009 e il 2014, ma non è impossibile. D’altronde l’attuale premier di Copenhagen ha la politica nel sangue.

Da quando fu fondato nel 1871, il partito Socialdemocratico danese ha sempre contato tra i suoi membri qualcuno della famiglia Frederiksen. Il bisnonno fu incarcerato dopo una protesta in cui i lavoratori chiedevano salari più alti, il nonno Svend Erik invece era membro del Consiglio della contea dello Jutland settentrionale, come fu poi il padre Flemming. Così, come raccontò proprio il genitore qualche anno fa, a soli sette anni Mette si interessava già delle questioni politiche di cui discutevano gli uomini della famiglia nello scantinato di casa.

Un’indole favorita anche dall’ambiente in cui ha vissuto. Nata nel 1977 nella zona sud-orientale di Aalborg, la premier è cresciuta nel quartiere operaio di Grønlandskvarteret, dove si conoscevano tutti e tutti frequentavano la scuola dove erano stati iscritti i loro genitori, spesso con gli stessi insegnanti. Proprio tra i banchi mosse i suoi primi passi in politica. A soli 12 anni, insieme a due compagne di classe, fondò l’associazione Sneleoparden, i cui membri si potevano contare sulle dita di una mano, con il nobile intento di salvare la foresta pluviale in Sud America e fermare i test dell’industria cosmetica sugli animali. Di quella piccola iniziativa Mette era la presidente, così come si assegnò la carica di “Ispettore capo” quando – ispirati dalla serie di libri “I tre detective” – mise su insieme agli amici un’agenzia investigativa locale.

Era poco più di un gioco ma il carisma della futura premier riusciva già a conquistare chi le stava intorno, anche perché Frederiksen faceva sul serio. Poco dopo spese la sua intera paghetta per “adottare” a distanza un capodoglio di nome Jens e infine si unì al movimento Anc Youth League contro l’apartheid in Sudafrica. Fu anche capo scout nell’associazione volontaria giovanile cristiana Fdf, membro del consiglio studentesco del suo liceo e, nel tempo libero, allenatrice di nuoto, bagnina e istruttrice di acquagym, finché nel 1992, a soli 15 anni, entrò ufficialmente a far parte del ramo giovanile dei Socialdemocratici.

Da allora cominciò la sua vera carriera politica, senza mai rinunciare alla sua formazione accademica e alle esperienze all’estero. Diplomatasi presso l’Aalborghus Gymnasium, a 18 anni se ne andò in Kenya a insegnare in una scuola di Nyandiwa, una località sul lago Vittoria senza elettricità né acqua corrente. Nominata nel 2000 segretario giovanile della Confederazione sindacale danese (Lo), nel 2007 si laureò in Amministrazione e Studi Sociali all’Università di Aalborg, conseguendo due anni dopo un Master in Studi Africani all’Università di Copenaghen.

Allora era deputato già da otto anni: fu infatti eletta in Parlamento per la prima nel 2001, a soli 24 anni. Dieci anni dopo divenne ministro del Lavoro, poi della Giustizia nel 2014 finché nel 2015 non assunse la leadership dei Socialdemocratici, portandoli a vincere le elezioni nel 2019 e diventando così premier della Danimarca a soli 41 anni, la più giovane della storia, riconfermata nel novembre scorso. Ma con un programma piuttosto controverso per un politico di centrosinistra e per la sua storia personale.

Armi e diritti
«Era una persona idealista e appassionata e lo è ancora», disse di lei una volta la deputata socialdemocratica Ane Halsboe-Jørgensen, ricordando il periodo di Frederiksen nella sezione giovanile del partito. «Il suo è un impegno ardente: chiede molto sia a sé stessa che alle persone di cui si circonda». Ma allora la sua politica era rivolta all’apertura del Paese, anche verso gli immigrati, al lavoro per tutti e all’ampliamento dei criteri per permettere ai lavoratori di andare prima in pensione. Idee poi lentamente abbandonate nel corso della sua carriera e che le sono valse l’accusa di essere una “voltagabbana” da alcune frange del suo partito.

Tutto cominciò nel 2008, quando Frederiksen presentò le sue “tesi socialdemocratiche” in cui affermava, tra l’altro, che i doveri vengono prima dei diritti, un vero e proprio manifesto della sua politica successiva. Tanto che undici anni dopo sarà eletta premier con un programma restrittivo in materia di occupazione, pensioni e immigrazione, ispirato alle teorie neoliberiste, al risparmio della spesa pubblica e volto a portare fuori dall’Unione europea la gestione dei flussi migratori. 

Non solo, pur avendo sostenuto il referendum dello scorso anno per la partecipazione di Copenhagen alla Politica di difesa e sicurezza comune dell’Ue, la leader è stata definita dai media locali «il primo ministro più euroscettico della Danimarca», viste le sue forti critiche a Bruxelles per la gestione della pandemia di Covid e della campagna di vaccinazione comunitaria. Più che all’Unione infatti, il suo orizzonte politico guarda agli Stati Uniti e alla Nato.

Convinta sostenitrice dell’Ucraina sin dalle prime ore dell’invasione russa, all’inizio del 2022 aprì alla possibilità di ospitare truppe statunitensi in Danimarca. Poi, ad aprile dello scorso anno, insieme al premier spagnolo Pedro Sanchez si recò a Kiev per far visita al presidente Volodymyr Zelensky, inviando armi insieme al resto del continente e arrivando a promettere aiuto nell’addestramento dei piloti per i caccia F16 che Europa e Usa assicureranno agli ucraini soltanto nel maggio scorso. Proprio a causa dell’aggressione russa, lo scorso mese ha deciso quindi di triplicare il bilancio militare danese, abolendo, tra l’altro, un giorno di festa nazionale che si celebrava ogni anno in primavera dal XVII secolo.

Tutto per poter investire oltre 20,5 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni, portando così la spesa annua per la difesa dall’1,38 al 2 per cento del Pil entro il 2030. Un obiettivo da sempre caro all’Alleanza e anche un bel biglietto da visita per ottenere la benedizione di Washington in vista del vertice Nato di luglio a Vilnius.

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