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Migranti: la politica dovrebbe occuparsi delle cause dei flussi, più che degli effetti

Immagine di copertina
Credit: Afp

L'analisi per TPI di Anja Palm, ricercatrice dell'Istituto Affari Internazionali

Le prime tre settimane del governo Conte hanno visto il dibattito politico concentrarsi quasi esclusivamente sulla questione migrazione.

Paradossalmente, però, l’attenzione politica e mediatica al tema, in costante crescita dall’anno passato, pare avere progressivamente semplicizzato un fenomeno molto più complesso della sua rappresentazione quotidiana.

Lo studio del fenomeno migratorio inizia solitamente dall’analisi dei flussi: le dinamiche delle rotte migratorie e i dati sugli arrivi in Europa hanno progressivamente acquisito il ruolo di riferimento chiave, sia nella valutazione del successo e delle sconfitte delle politiche migratorie, che nell’illustrazione del fenomeno stesso.

Questi dati ci forniscono però solo un’immagine parziale e semplificatoria del fenomeno, tralasciando altre dimensioni quali il contesto globale e gli effetti dell’azione esterna dell’Unione europea e dei suoi stati membri.

Per prima cosa è fondamentale porre la dimensione europea in una prospettiva globale, prendendo in considerazione le dinamiche esterne al nostro continente.

Oltre ai dati ben conosciuti sulla preponderante presenza di rifugiati in paesi in via di sviluppo (83 per cento), l’immagine ampiamente diffusa che vedrebbe flussi migratori interminabili dall’Africa indirizzati verso l’Europa è pesantemente fuorviante.

Non solo le migrazioni africane sono da sempre parte integrante della vita locale, per le popolazioni di origine nomadiche e la diffusissima mobilità per lavori stagionali, ma spesso hanno per lo più una dimensione intra- e trans-regionale prima ancora che trans-continentale.

In aggiunta a regioni come il Sahel, fondate su una forte mobilità interna, il Nord-Africa è stato per moltissimi anni un hub industriale e di attrazione di forza lavoro.

Ma queste dinamiche sono state e possono ancora essere influenzate da fattori sia interni ai paesi – dai conflitti violenti a collassi di governance e incapacità degli stati di fornire i servizi essenziali – sia da fattori (e attori) esterni.

I flussi migratori devono essere inquadrati all’interno della più ampia politica estera promossa dall’Europa, dai suoi stati membri e da altri attori internazionali, che può essere fondamentale nella comprensione non solo nella variazione dei flussi stessi, ma anche nella loro composizione e nelle cause della migrazione.

È importante ricordare come alcuni stati europei, come Francia e Inghilterra, abbiano svolto un ruolo determinante in paesi che sono oggi di origine (ad esempio la Siria) o di transito (ad esempio la Libia), mediante scelte di investimenti e di politiche economiche, oppure mediante il supporto fornito ad alcuni attori all’interno di conflitti locali e regionali.

Inoltre, le politiche migratorie esterne che l’Ue e i suoi stati membri hanno promosso mediante accordi con paesi terzi, mirati a un maggiore controllo dei confini locali, hanno in parte contribuito a influenzare le variazioni nei flussi.

Questo sia all’interno della dimensione regionale, poiché gli accordi con stati terzi per il controllo delle frontiere possono avere effetti ‘collaterali’ e determinare una riduzione forzata della migrazione intra-regionale – ad esempio nel Sahel – sia in termini trans-continentali.

Le politiche migratorie europee e soprattutto bilaterali di stati membri chiave come Spagna e Italia hanno infatti contributo a influenzare in parte i movimenti lungo le diverse rotte del Mediterraneo.

Fonte: Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), Four Decades of Cross-Mediterranean Undocumented Migration to Europe, A Review of the Evidence, 2017
Fonte: Elaborazione dell’autore sulla base di: UNHCR, Desperate Journeys (per il periodo 2015-2017) e UNHCR, Mediterranean Situation (per il 2018; dati aggiornati al 10 giugno 2018)

Nonostante ciascuna di queste rotte presenti dinamiche diverse che meriterebbero un’analisi a sé stante – riunendo persone che migrano per cause differenti, portatori di nazionalità e status giuridici differenti – è indubbio che l’Italia sia stata al centro del fenomeno migratorio nella sua dimensione europea.

È infatti stata uno dei principali paesi di arrivo, soprattutto in seguito alla forte riduzione dei flussi dalla Turchia alla Grecia avvenuta nel 2016.

Se nel 2017 il 67 per cento di tutti gli arrivi in Europa sono stati sulle coste italiane, questo trend non si è però confermato nel 2018, indicando una parziale riapertura di rotte precedentemente meno attive e, secondo alcuni, anche un potenziale spostamento del punto di passaggio per alcune nazionalità come conseguenza delle politiche migratorie implementate nel 2017.

L’Italia, anche grazie alla sua (es)posizione geografica, è stata da molti anni una forza trainante nella spinta per una politica estera europea migratoria, che però, vista l’insufficiente reattività europea, si è spesso tradotta in significative politiche bilaterali prese dall’Italia con paesi di origine e di transito.

L’Ue si è rivelata come paralizzata dal preponderante accentramento di competenze in questa materia in capo agli stati membri, veri attori decisionali della politica migratoria.

Vista la forte opposizione di alcune fazioni di stati allo sviluppo di una politica comune, l’Ue ha proceduto zoppicante nell’ultimo biennio facendo passi avanti nell’approvazione di strumenti quadro come il Fondo Fiduciario per l’Africa e il Nuovo Quadro di Partenariato per la Migrazione, ma senza porsi come attore incisivo nella dimensione estera e soprattutto fallendo sulla terreno della solidarietà fra stati membri.

Questa problematica si riflette anche nella dimensione economica.

Che ad oggi i costi dell’accoglienza, delle procedure di asilo e dell’integrazione ricadano in modo quasi esclusivo sugli stati membri costieri, è un aspetto emblematico di un modello di gestione delle migrazioni fortemente sbilanciato a sfavore dei paesi di primo arrivo, senza che il supporto economico dell’Ue a questi ultimi riesca a riequilibrare la situazione.

Non bisogna però dimenticare che è ampiamente dimostrato che l’impatto economico della migrazione è positivo nel lungo periodo.

Questo è particolarmente vero all’interno di un contesto di declino demografico in cui un’aggiunta alla forza lavoro locale è necessaria non solo da un punto di vista di mercato di lavoro, ma anche di sostentamento del sistema pensionistico e di welfare.

Oggi, come in passato, per affrontare il fenomeno migratorio è necessario confrontarsi con le cause dei flussi e non con i loro meri effetti.

Continuare a parlare di politiche migratorie in un’ottica emergenziale e impugnare una politica di ferro contro gli sbarchi non risolverà infatti le molteplici cause che spingono le persone a cercare una vita migliore altrove.

Se per l’Italia la partita di una reale politica migratoria di medio e lungo raggio si gioca quindi principalmente nel continente africano, è da un’analisi delle cause che bisogna ripartire.

Per quanto possa sembrare difficile nell’attuale clima politico, potrebbe essere proprio qui la chiave per uscire dall’impasse superando la forte polarizzazione dell’opinione pubblica.

Ma solo se possiamo essere d’accordo sul presupposto di base che il diritto a una vita dignitosa ce lo abbiamo da entrambi i lati del Mediterraneo.

Testo a cura di Anja Palm

Anja Palm è ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali dove si occupa di politica estera migratoria italiana ed europea.

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