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Il piano di pace di Trump per il Medio Oriente lascia a Israele i rubinetti del gas e dell’acqua

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

La proposta dell’amministrazione statunitense nega di fatto ai palestinesi un’autonoma politica energetica e lascia allo Stato ebraico il controllo delle principali fonti idriche

Il nuovo piano di pace per il Medio Oriente, presentato dall’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, per risolvere un conflitto durato oltre 70 anni, lascia aperte alcune attualissime e fondamentali questioni come il pieno controllo delle risorse energetiche e idriche da parte palestinese, sollevando molti dubbi, in primis riguardo la fattibilità e l’equilibrio del progetto.

Se ogni considerazione in merito deve comunque fondarsi sulla premessa che qualsiasi proposta di pace vada sempre attentamente ponderata e mai rifiutata a priori, seppure come semplice base per futuri negoziati, il successo del piano è già messo in dubbio dalle accuse da parte palestinese di essere “fortemente sbilanciato” a favore di Israele.

Il progetto, che scambia una serie di legittime rivendicazioni palestinesi con ingenti investimenti internazionali per migliorare la vita della popolazione locale, ha sicuramente il merito di fotografare, meglio di altri, la situazione sul campo, eppure rischia di rivelarsi nient’altro che uno spaccato dei rapporti di forza odierni tra gli attori impegnati e quelli collateralmente coinvolti nella contesa.

Cosa prevede il piano di pace Trump

Il cosiddetto “piano del secolo” si basa dichiaratamente su tre principi fondamentali: una soluzione “realistica” al problema dei due Stati, il “primato” della sicurezza per Israele e un “imponente” piano di rilancio economico per la Palestina. Se il tasso di realismo della proposta si fonda di fatto sul riconoscimento della sovranità israeliana sulla maggior parte delle colonie e dei luoghi sacri contesi già controllati da Israele e su una serie di limitati scambi di territori, l’accento posto sulla salvaguardia dello Stato ebraico comporterebbe la creazione di un’entità palestinese praticamente incapace di controllare la propria sicurezza, mentre i nobili propositi di rilanciare lo sviluppo della Palestina dipenderebbero per lo più dalla disponibilità e dalla generosità di eventuali futuri donatori e di alcuni Paesi limitrofi, inserendo i legittimi interessi palestinesi allo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche regionali nel quadro dell’attuale politica israeliana, senza riconoscerne alcuna vera autonomia.

La fondazione di uno Stato palestinese sarebbe subordinata infatti al mantenimento in mani israeliane della responsabilità della sicurezza e del controllo dei territori a occidente della valle del fiume Giordano e al completo disarmo di Hamas, che grazie al golpe del 2007 controlla la striscia di Gaza. Inoltre, lo Stato ebraico potrebbe annettere subito la maggior parte delle colonie in Cisgiordania, pari a circa il 30 per cento del territorio occupato, in cambio di alcune zone desertiche attualmente nella disponibilità di Israele e del congelamento di qualsiasi sviluppo degli insediamenti per quattro anni.

Entrambi gli Stati avrebbero diritto a porre Gerusalemme come capitale, anche se non è ancora chiaro se la porzione più antica della città santa sarebbe assegnata ai palestinesi, il cui centro politico dovrebbe più probabilmente essere stabilito ad Abu Dis, tecnicamente situata nella stessa area urbana ma a est del muro costruito da Israele, che manterrebbe comunque gran parte dei luoghi sacri contesi, come la Tomba di Giuseppe, nella città di Nablus, nel nord della Cisgiordania, e la Tomba dei Patriarchi, conosciuta anche come grotta di Macpelà, nei pressi di Hebron, nel sud dei territori palestinesi, lasciando allo status quo la spianata delle moschee, per i fedeli ebrei il Monte del Tempio, dove si trova la moschea di al-Aqsa.

Dal punto di vista territoriale, la proposta Trump disegna uno Stato palestinese frammentato e diviso tra Gaza e la Cisgiordania, che dovrebbero un giorno essere unite da varie infrastrutture, compreso un tunnel, che passino “sopra o sotto lo Stato” ebraico. Il piano non riconosce poi alcun “diritto al ritorno” in territorio israeliano dei rifugiati palestinesi, che dovranno scegliere se diventare cittadini del nuovo Stato, dei Paesi in cui si trovano oggi o stabilirsi in un’altra nazione.

Ciascuna di queste proposte darebbe vita a uno Stato palestinese circondato dai territori israeliani, fatta eccezione per una piccola striscia di confine tra l’Egitto e Gaza, incapace di difendersi da solo e con un territorio sensibilmente diverso da quello riconosciuto dalle risoluzioni delle Nazioni Unite: il tutto in cambio di “imponenti” investimenti che ne rilancino l’economia. Eppure, anche quest’ultima promessa non sembra soddisfare appieno gli interessi di un futuro Stato palestinese.

Cosa “tralascia” la proposta statunitense

Uno dei principali punti deboli della proposta di pace dell’amministrazione statunitense potrebbe riguardare due aspetti fondamentali della geopolitica della regione, come il controllo delle risorse energetiche e l’impiego e lo sviluppo delle fonti idriche locali, entrambi lasciati ai rapporti di forza esistenti tra le parti, squilibrati in favore di Israele.

Una delle principali e attualissime questioni citate dalla proposta di pace dell’amministrazione Trump e spesso non previste nei piani precedenti riguarda infatti la gestione delle risorse di idrocarburi scoperte al largo dello Stato ebraico e della striscia di Gaza, su cui i palestinesi rivendicano una serie di diritti.

Israele si trova infatti, insieme a diversi Stati rivieraschi, al centro di una disputa internazionale scatenata negli ultimi anni dalla scoperta e dalla ricerca di riserve di gas nel Mediterraneo orientale, una contesa che si sta estendendo sempre più anche alle aree centrali del Mare nostrum.

Se sul fronte energetico, lo Stato ebraico ha raggiunto diversi accordi economici con l’Egitto e la vicina Giordania, gli unici due Paesi della regione con cui ha concluso un trattato di pace, anche i palestinesi rivendicano la propria fetta di questa torta. Alla fine degli anni ’90, furono infatti scoperte importanti riserve di gas al largo della striscia di Gaza, che però da allora restano inutilizzate.

Israele si oppone a uno sfruttamento diretto da parte dei palestinesi di queste risorse. Questi accusano invece lo Stato ebraico di voler impedire lo sviluppo dei territori e di volersi appropriare di questi giacimenti che potrebbero risolvere la drammatica crisi umanitaria in corso soprattutto nella striscia di Gaza, che ospita circa 2 milioni di persone e dove un residente su due vive al di sotto della soglia di povertà.

Al largo del territorio costiero palestinese fu scoperto il giacimento di gas offshore Gaza Marine, situato a circa 30 chilometri dalla terraferma, tra i giganteschi pozzi di Leviathan, sfruttato da Israele, e Zohr, di competenza dell’Egitto e gestito da Eni. Il giacimento palestinese dovrebbe contenere oltre 1.500 miliardi di piedi cubi di gas naturale, ma risulta tuttora non sfruttato.

Alla fine degli anni ’90, i blocchi Gaza Marine 1 e 2 furono oggetto di un contratto tra il British Gas Group, la palestinese Consolidated Construction Company e il Palestinian Investment Fund per l’esplorazione e lo sfruttamento delle riserve ivi scoperte, ma lo Stato ebraico si oppose a qualsiasi attività nell’area. Nel 2016, Shell acquisì dal gruppo britannico una quota del 55 per cento del giacimento, rinunciandovi però due anni dopo per la mancanza di acquirenti.

Il Palestine Investment Fund ne divenne così l’unico proprietario e da allora è alla ricerca di un operatore e di un acquirente per una quota del 45 per cento del pozzo. Nel 2018, la compagnia energetica greca Energean si disse pronta ad acquisire e gestire questa quota, in caso di accordo tra le autorità israeliane e palestinesi, ma un’intesa non fu mai raggiunta. Da allora, il gruppo greco risulta ancora l’unico ad aver presentato una proposta, ma non vi sono prospettive di sfruttamento nel breve periodo.

Il piano di pace Trump, foriero di 50 miliardi di dollari stimati di nuovi investimenti nella futura Palestina, accenna allo sviluppo di queste risorse, “capaci potenzialmente di generare miliardi di dollari di ricavi e di creare migliaia di posti di lavoro ad alto reddito e di elevata qualità”, ma non ne risolve le dispute sul pieno controllo, una questione in grado di influenzare gli equilibri regionali e che tocca l’Europa e l’Italia molto più da vicino di quanto possiamo immaginare.

All’inizio dell’anno, Israele, Grecia e Cipro hanno infatti firmato una serie di accordi intergovernativi per la costruzione del gasdotto East Med, che collegherà i giacimenti al largo del Mediterraneo orientale ai tre Paesi. La Commissione europea ha definito l’opera un “Progetto di interesse comune”, contribuendo con 34,5 milioni di euro al completamento degli studi di fattibilità tecnica.

Il gasdotto dovrebbe avere una capacità compresa tra i 9 e i 12 miliardi di metri cubi all’anno e, in futuro, dovrebbe esser connesso al nostro Paese, tramite il progetto Igi Poseidon, un tratto di collegamento tra East Med e la Puglia. Con un costo stimato di 5,8 miliardi di euro per il solo East Med, quest’opera dovrebbe trasportare il gas estratto al largo delle coste cipriote e israeliane verso l’Europa, riducendo al contempo la dipendenza del continente dal gas russo e da quello algerino, anche con l’aiuto dell’Egitto, che intende diventare sempre più un hub energetico regionale.

Attualmente, il ruolo del Cairo riguarda la lavorazione e la liquefazione del gas estratto dai due giacimenti israeliani di Leviathan e Tamar allo scopo di esportare queste risorse via nave, in particolare verso l’Europa, in attesa dell’entrata in funzione dei nuovi gasdotti. Proprio quest’anno, Israele ha cominciato a rifornire di gas naturale l’Egitto, che dal 2014 ha inoltre concluso vari contratti di esplorazione e sfruttamento delle risorse di idrocarburi del Paese con un totale di 82 diversi investitori, per un investimento minimo di circa 16 miliardi di dollari e la trivellazione di almeno 340 giacimenti.

Il piano Trump prevede proprio di incanalare gli interessi energetici dei due Stati all’interno del “hub regionale per il gas naturale” dell’Egitto, finanziando un progetto quinquennale da 1,5 miliardi di dollari per sostenere i terminal di gas naturale liquefatto (GNL) del Paese africano, dove affluirebbero anche le risorse eventualmente estratte dai pozzi palestinesi, e costruendo un gasdotto da 80 milioni di dollari tra il giacimento Gaza Marine, il territorio costiero palestinese e la rete israeliana. Questo comporterebbe l’inserimento degli interessi del futuro Stato nell’attuale quadro della politica energetica israeliana, limitando di fatto l’autonomia palestinese nello sfruttamento di una così vasta torta energetica regionale.

Tuttavia, nonostante l’entità delle risorse in ballo, la proposta economica del piano di pace, presentata lo scorso giugno dall’amministrazione statunitense in Bahrein, intitolata “Peace to Prosperity”, non sembra poi concentrarsi molto su questo aspetto della disputa israelo-palestinese. Il piano prevede circa 5 miliardi di dollari da erogare ogni anno in Palestina per il decennio successivo all’accettazione della proposta di pace, per un totale di oltre 50 miliardi di dollari di nuovi investimenti, impiegati per lo più in altri settori, mentre gli impieghi previsti per la promozione dello sfruttamento delle “risorse naturali palestinesi” ammontano nel complesso a circa di 3 miliardi.

Gli obiettivi della proposta mirano in generale a “stimolare” l’economia palestinese; a creare oltre 1 milione di nuovi posti di lavoro nei territori; a raddoppiare il Pil della Palestina; a ridurre la disoccupazione al di sotto del 10 per cento e a dimezzare il tasso di povertà della popolazione: tutti nobili quanto ambiziosi piani fondati su una serie di investimenti in attività per lo più manifatturiere e sullo sviluppo dell’economia reale locale.

A questo proposito, oltre all’Egitto e a Israele, il progetto intende coinvolgere anche la Giordania e il Libano nella crescita economica di un futuro Stato palestinese, investendo in particolare sul turismo, sullo sviluppo immobiliare, sull’agricoltura locale, sul commercio internazionale attraverso accordi di libero scambio anche con gli Stati Uniti; e su una serie di parchi industriali high-tech da realizzare in un’area attualmente desertica nei pressi del confine egiziano e che lo Stato ebraico dovrebbe cedere ai palestinesi.

Se anche l’idea di una specie di Piano Marshall per la Palestina dovesse tradursi in realtà, questa proposta economica si fonda per lo più sulla “generosità” dei donatori e sulla disponibilità di Israele a far affluire e a non ostacolare gli investimenti per i palestinesi, mentre il pieno controllo sulle proprie risorse energetiche e il loro autonomo sfruttamento, che in qualsiasi altra area del mondo rappresenta uno dei fondamenti della sovranità di uno Stato, consentirebbe invece a questi ultimi di finanziare e soprattutto orientare da soli il proprio sviluppo e la propria politica regionale e globale.

La proposta statunitense lascia ai rapporti di forza esistenti tra Israele e i palestinesi anche l’impiego delle fonti idriche, in una delle regioni del mondo più povere d’acqua e dove, secondo le Nazioni Unite, almeno 17 Paesi risultano al di sotto della soglia di povertà idrica e il 6 per cento della popolazione mondiale ha a disposizione soltanto l’1 per cento delle risorse globali di acqua dolce.

Secondo un rapporto pubblicato dalla Banca mondiale, sia Israele che i territori palestinesi si trovano ad affrontare una situazione di “scarsità assoluta” d’acqua ma, se lo Stato ebraico è capace di far fronte alla crisi per lo più tramite impianti di desalinizzazione, forte della propria prosperità economica e del livello tecnologico raggiunto, la Cisgiordania e Gaza fanno ancora affidamento in gran parte su fonti sotterranee, invece di “produrre” acqua in proprio, pagando così un prezzo enorme in termini di maggiori costi sanitari, perdita di produttività e tassi di mortalità più elevati, quantificato in quasi l’1,5 per cento del Pil locale annuo.

Inoltre, in un ambiente caratterizzato da scarse precipitazioni e da una diseguale distribuzione delle piogge, Israele controlla attualmente tutte le risorse idriche della regione, anche quelle su cui sono riconosciuti i diritti palestinesi, utilizzando circa l’80 per cento delle acque sotterranee locali. Gli accordi di Oslo prevedono il riconoscimento da parte dello Stato ebraico dei diritti di sfruttamento delle fonti idriche da parte dei palestinesi, subordinando però l’effettivo controllo su questa ricchezza ai negoziati di pace. Inoltre, gli accordi hanno suddiviso la Cisgiordania in tre diverse aree, assegnando a Israele il controllo della sicurezza proprio nell’area più ricca di risorse idriche, attinente alla valle del Giordano e riguardante i maggiori insediamenti di coloni nella zona.

In questo contesto, la proposta di pace Trump assegna a Israele la piena sovranità su tutta la riva occidentale del fiume Giordano attualmente compresa nei territori palestinesi, mentre soltanto il 3 per cento di questo bacino fluviale ricadeva nel territorio dello Stato ebraico secondo i confini precedenti alla guerra del 1967. Il piano dell’amministrazione statunitense garantisce inoltre il controllo israeliano sulla maggior parte della principale risorsa idrica sotterranea condivisa tra i due Stati, il cosiddetto “Acquifero montano”, alla base della dorsale montuosa centrale che si estende per quasi 150 chilometri lungo l’asse nord-sud attraverso Israele e la Cisgiordania.

Insomma, nonostante i sostanziosi investimenti (oltre 2,3 miliardi di dollari in totale) previsti dal piano Trump nelle infrastrutture necessarie allo sfruttamento delle risorse idriche locali, per “raddoppiare l’offerta di acqua potabile pro-capite disponibile per i palestinesi entro cinque anni”, la proposta statunitense mantiene di fatto in mano israeliana anche il controllo su queste fonti, limitandosi a promuoverne la “condivisione”. Per rendersene conto basta infatti confrontare la mappa delle fonti idriche della regione disponibile sul sito del ministero degli Esteri dello Stato ebraico con quella proposta dal presidente degli Stati Uniti.

Una pace senza giustizia

Se l’approccio scelto dall’amministrazione Trump fa apparire Washington un mediatore sempre meno neutrale nella disputa tra Israele e i palestinesi, lo spirito di questa proposta di pace rischia di mettere in dubbio anche una serie di dolorosi progressi compiuti dallo Stato ebraico nel corso degli anni, come il disimpegno unilaterale israeliano da Gaza (e da 4 insediamenti in Cisgiordania), deciso dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, nel giugno del 2004 e attuato ad agosto dell’anno successivo.

Il messaggio lanciato dall’attuale amministrazione statunitense alla politica e ai cittadini dello Stato ebraico, a cui si propone di mantenere le redini dei destini palestinesi, prende invece la forma di un progetto politico che svilisce le istituzioni del nuovo Stato e potrebbe non giovare nemmeno a Israele, la cui esistenza resta inestricabilmente legata ai suoi vicini.

D’altronde, “la pace, secondo gli insegnamenti dei profeti di Israele, è un frutto della giustizia e del diritto”, ricordava Papa Giovanni Paolo II incontrando oltre 30 anni fa i rappresentanti della comunità ebraica a Vienna.

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