Risiko mediorientale: come sono cambiati gli equilibri geopolitici nella regione a due anni dal 7 Ottobre
Gli attacchi frontali Israele-Iran. Il ridimensionamento di Hamas e Hezbollah. Il ruolo degli Houthi. La caduta di Assad in Siria. E gli stop&go degli Accordi di Abramo. Ecco come sono cambiati negli ultimi due anni gli equilibri geopolitici nella regione
L’attesa si fa sempre più concitata perché la storia insegna che chiudere un accordo in Medio Oriente non è mai una cosa semplice, tanto più quando il principale regista dell’ultima manovra di pace, Donald Trump, non vuole limitarsi alla cessazione delle ostilità, ma punta a creare una qualche forma di stabilità in una delle regioni più turbolente del globo, per giunta in una fase in cui tanti fronti sopiti sono esplosi e nel mondo i venti di guerra sembrano soffiare più forti del solito.
Come sappiamo, i due anni successivi al massacro del 7 ottobre 2023 non hanno riguardato solo Gaza e non hanno coinvolto solo Israele, Hamas e la martoriata popolazione civile. Oltre a strascichi di operazioni militari in Cisgiordania, lo Stato ebraico ha fronteggiato lanci di razzi e missili da Hezbollah e Houthi, cui ha risposto con una dura operazione in Libano – che ha portato alla clamorosa operazione dell’esplosione dei cercapersone e alla successiva uccisione del leader dei miliziani sciiti Hassan Nasrallah – nonché con una serie di attacchi nello Yemen. Sono stati colpiti gangli delle milizie alleate di Teheran, ci sono stati scambi di colpi diretti tra Israele e Iran, culminati con l’attacco dello Stato ebraico contro i siti del programma nucleare iraniano e la successiva guerra dei dodici giorni, chiusa dal raid statunitense su Fordow.
Israele per tentare di decapitare la leadership di Hamas ha colpito persino a Doha, nel cuore del Qatar, piccolo Paese dove si incrociano mediazioni e trattative, lo stesso in cui Teheran aveva colpito la base americana di Al Udeid in risposta all’attacco al programma nucleare.
In Siria, intanto, il regime di Bashar al-Assad è definitivamente caduto: al suo posto ha preso il potere l’ex jihadista Abu Muhammad al-Joulani, che per l’occasione ha dismesso gli abiti del guerrigliero islamista, indossato un completo all’occidentale e assunto il nome di Ahmed al-Sharaa. Ma nel Paese le minoranze etniche, a partire dai curdi, cercano garanzie di sicurezza, con i drusi che si scontrano con gli arabi della loro regione forti del sostegno israeliano, e con Israele che avanza in alcuni caposaldi nel Golan conquistando la strategica vetta del monte Hermon.
Il quadro complessivo
Non c’è dunque solo Gaza. E, anche se dovesse cristallizzarsi la situazione così com’è oggi, siamo dinnanzi a un Medio Oriente molto diverso rispetto alla vigilia del 7 ottobre di due anni fa.
L’Iran, ad esempio, ha visto ridimensionati i suoi alleati nella regione: Assad, come detto, è caduto definitivamente, Hezbollah è un gruppo dalla capacità molto più limitate dell’epoca – tanto che il Libano sta seriamente ragionando di disarmarlo una volta per tutte –, Hamas è alle strette e gli Houthi sono gli unici che sembrano avere ancora margini di iniziativa autonoma.
Ma, dall’altra parte, il processo ben avviato di allargare lo schema degli accordi di Abramo che avevano portato alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e molti Paesi arabi, fiore all’occhiello della prima amministrazione Trump, è stato fortemente frenato proprio dal massacro del 7 Ottobre, e la percezione di Israele nel mondo, dopo ormai due anni di guerra a Gaza e un numero estremamente elevato di vittime civili, sembra incrinata.
Questo è il punto di partenza del Medio Oriente che verrà e in cui Trump cercherà di costruire una qualche forma di equilibrio.
Se il piano venisse approvato così come lo ha proposto il presidente degli Stati Uniti, il primo passaggio sarebbe fare in modo che le varie fasi di liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas, dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane, il cessate il fuoco, e la smilitarizzazione riescano a reggere senza complicazioni grazie anche al ruolo dei Paesi arabi della regione, coinvolti nel processo di pace in un contesto in cui i rischi rimangono alti. Se questo progetto dovesse funzionare, c’è da aspettarsi un aumento della collaborazione tra Israele e i Paesi arabi, sia quelli con cui lo Stato ebraico intrattiene rapporti da tempo, come Egitto e Giordania, che quelli che hanno aderito agli accordi di Abramo, a partire dagli Emirati Arabi Uniti, fino a quelli con cui non c’è riconoscimento formale ma con cui si ragiona a un approfondimento dei rapporti, Arabia Saudita in primis.
Stati come il Qatar e la Turchia, che mantengono un dialogo con la leadership di Hamas, dovranno anche loro avere un ruolo nella fase di pacificazione e normalizzazione, per quanto i rapporti con Israele siano ancora tesissimi, soprattutto dopo il raid israeliano a Doha. Questo mentre parallelamente, una figura molto vicina ad Ankara e desideroso di affermarsi come leader credibile nello scacchiere internazionale, il nuovo leader siriano Ahmed al-Sharaa, è in trattative – anche tramite gli Stati Uniti – per cercare una forma di stabilità con il vicino israeliano, con cui non mancano ragioni del contendere, dalla questione dei drusi al confine nel Golan, che allontanano trattati al pari degli accordi di Abramo ma non escludono forme più blande di pacificazione.
Da Abu Mazen a Ben Gvir
In questo contesto si cercherà, con ancora tanti punti interrogativi, di ricostruire la Striscia e, al tempo stesso, costruire una nuova governance del territorio. Quest’ultimo tema, tuttavia, rischia di essere particolarmente legato alla situazione del grande assente nel piano di pace, la Cisgiordania, dove nei territori governati dai palestinesi l’Autorità nazionale palestinese (Anp) dovrà compiere le riforme e i passi avanti richiesti per ottenere in futuro il controllo di Gaza, non senza rischi, tra cui quello di nuove operazioni israeliane nell’area dove continua peraltro la costruzione di colonie e avamposti.
Con la politica interna israeliana sempre più radicalizzata e la presenza nel governo di figure estremiste come Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, i rischi che lo Stato ebraico debba rendere conto anche al loro elettorato e compiere azioni che mettano i bastoni tra le ruote al processo di pace non possono essere sottovalutate, così come i rischi legati a una radicalizzazione della società palestinese, dopo anni di impopolarità per l’Olp e sondaggi che hanno registrato una crescita di consenso per Hamas anche in Cisgiordania: le situazioni di politica interna e le loro possibili conseguenze non vanno dunque sottovalutate.
Gli ayatollah
In tutto ciò, ai margini di questo quadro, c’è l’Iran, provato dalla guerra dei dodici giorni che ha bersagliato duramente il suo programma nucleare, frustrato dalle sanzioni snap-back dell’Occidente e indebolito dai duri colpi subiti dai suoi alleati del cosiddetto “Asse della Resistenza”, è il grande assente, e non è detto voglia restare a guardare.
Non è da escludere, infatti, che, se Trump non cercherà formule di vario genere che coinvolgano anche Teheran, quest’ultima provi ad aumentare azioni ibride tramite i suoi alleati, magari colpendo le rotte marittime nello strategico Mar Rosso tramite gli Houthi, indubbiamente il gruppo meglio attrezzato della rete a guida iraniana.
È invece da capire cosa succederà a Hezbollah, con il governo di Beirut che vorrebbe disarmarlo come previsto da risoluzione Onu: se riuscisse nell’impresa, non sarebbe da escludere una clamorosa pacificazione definitiva tra Israele e Libano.
Ma Teheran è anche l’alleato più stretto di Russia e Cina nella regione, e in questo momento storico ciò non può non essere considerato. I venti di crisi che soffiano ovunque e le tensioni internazionali sono più concatenate di quanto si possa pensare, con gli occhi puntati su Ucraina e Taiwan in primis.
Trovare la pace in Medio Oriente è per definizione una delle cose più difficili esistenti, ma Trump sembra essere particolarmente determinato a riuscirci: basterà? Sarà in grado di toccare le corde giuste? In un contesto così delicato, in un mondo più instabile che mai, questo potrebbe non essere sufficiente, ma se c’è qualcosa cui Trump ci ha abituati è proprio saperci stupire.