Malala, la ragazza che fa paura ai talebani
Nel 2012, quando aveva solo 15 anni, il gruppo fondamentalista attivo in Pakistan cercò di ucciderla per metterla a tacere. Due anni dopo vinse il Premio Nobel per la Pace per il suo Coraggio. Oggi Malala Yousafzai è una donna laureata e sposata. E continua a battersi per il diritto all’istruzione delle ragazze
«I talebani mi hanno sparato per farmi tacere. Invece ora il mondo intero sta ascoltando il mio messaggio», osservava dodici anni fa Malala Yousafzai nel suo primo libro, “Io sono Malala”, scritto insieme alla giornalista Christina Lamb e diventato un bestseller planetario (pubblicato in Italia da Garzanti). Ed è proprio così: la drammatica condizione di essere perseguitata dal gruppo fondamentalista islamico quantomeno ha contribuito a rendere ancor più potente la voce dell’attivista pakistana che nel 2014, a soli 17 anni, fu insignita del Premio Nobel per la Pace (è tutt’ora la persona più giovane di sempre ad aver ricevuto un Nobel).
Il prossimo 21 ottobre, in contemporanea mondiale, Malala tornerà nelle librerie con una nuova opera autobiografica, dal titolo “Finding my way” (edito sempre da Garzanti), che parla della sua «seconda vita», quella intrapresa insieme alla sua famiglia nel Regno Unito dopo la fuga dal Pakistan. «È il racconto di una rinascita, di nuove amicizie, del primo amore, della ricerca di un nuovo equilibrio dopo la celebrità e dello sforzo di rimanere fedeli a sé stessi», si legge nel comunicato stampa che presenta il libro.
Come tutto ebbe inizio
Malala oggi ha 28 anni, ma è già una veterana delle battaglie per i diritti civili: era ancora una bambina quando iniziò a lottare per il diritto all’istruzione delle ragazze. La sua prima fonte d’ispirazione è stato suo padre Ziauddin, insegnante e fondatore di una serie di scuole femminili in Pakistan, ancora oggi al suo fianco in prima linea nell’attivismo.
La vita della famiglia Yousafzai iniziò a cambiare nel 2008, quando i talebani presero il controllo della città in cui vivevano, Mingora, nella valle dello Swat, 200 chilometri a nord di Islamabad. Gli studenti coranici misero al bando televisori e musica, ma soprattutto vietarono alle bambine e alle ragazze la cultura: fu ordinata la chiusura di tutte le scuole femminili. Il conflitto che si generò tra gli estremisti islamici e l’esercito pakistano spinse gli Yousafzai a cercare riparo fuori dalla città.
Quando la situazione tornò apparentemente calma, la famiglia tornò a casa. Malala aveva appena 11 anni, ma in lei era già ben radicato il senso di ingiustizia per le restrizioni sessiste imposte dalla Shari’a. Sostenuta dal padre, insieme ad alcune compagne riprese a frequentare la scuola sfidando il diktat dei talebani. Nel settembre 2008, tenne un discorso a Peshawar: il titolo era “Come osano i talebani privarmi del mio diritto fondamentale all’istruzione?”.
Un giorno un giornalista della Bbc contattò Ziauddin: l’emittente britannica cercava una studentessa che fosse disposta, in via anonima, a tenere un blog su cui descrivere la vita sotto il regime oscurantista dei fondamentalisti. Malala si offrì subito come volontaria: la sua candidatura venne accettata. Pochi giorni dopo debuttò online “Diario di una studentessa pakistana”, scritto con lo pseudonimo di Gul Makai, ovvero “fiore di granturco”. Quella bambina era appena diventata un’attivista.
L’iniziativa ebbe fin da subito enorme successo. Tuttavia ben presto l’anonimato dell’autrice cadde: nel dicembre 2009 suo padre, orgoglioso, rivelò pubblicamente la sua identità e poche settimane più tardi anche il New York Times, in un documentario, fece apertamente il suo nome, dandole notorietà a livello planetario ma al tempo stesso consolidandola come bersaglio dei talebani.
L’attentato
Nel 2011, a 14 anni, Malala Yousafzai era ormai diventata una celebrità nel campo dei diritti. Fu ricevuta dal primo ministro del Pakistan, Syed Yousuf Raza Gilani, che le consegnò personalmente il Premio Nazionale per la Pace dei Giovani.
Nel contempo, però, le arrivavano anche frequenti minacce di morte. Il 9 ottobre 2012 la giovane stava tornando a casa dopo le lezioni insieme ad altre studentesse su uno scuolabus che lei stessa aveva comprato grazie ad alcune donazioni ricevute, quando improvvisamente il mezzo inchiodò. Un uomo armato e dal volto coperto salì a bordo: «Chi di voi è Malala?», chiese. Nessuna delle ragazze rispose, ma – forse per gli sguardi terrorizzati istintivamente rivolti verso di lei – l’uomo individuò il suo bersaglio. E aprì il fuoco. Malala fu colpita da uno sparo in testa. I
«Non volevamo ucciderla, perché sapevamo che ciò ci avrebbe causato una cattiva reputazione sui media. Ma non c’era altra scelta», spiegò successivamente, intervistato dal Time, Sirajuddin Ahmad, comandante di alto rango e portavoce dei talebani dello Swat.
Gravemente ferita, Malala fu trasportata nel più vicino ospedale, dove fu sottoposta a un delicato intervento. Il proiettile aveva perforato la pelle appena dietro l’occhio sinistro, aveva percorso la parte esterna del cranio, lesionato la mascella, attraversato il collo e si era conficcato nel muscolo appena sopra la scapola sinistra. I medici le estrassero un pezzo di cranio per alleviare la pressione sul cervello dovuta al gonfiore, poi indussero il coma farmacologico in modo che, a bordo di un’ambulanza aerea, la ragazza potesse trasportarla nel Regno Unito per le cure.
Poco più di una settimana dopo essere stata quasi uccisa a pochi chilometri da casa, Malala si risveglio e riuscì a mettersi in piedi appoggiandosi al braccio di un’infermiera dall’altra parte del mondo, al Queen Elizabeth Hospital di Birmingham. Era sopravvissuta, era viva. E ancora più risoluta a portare avanti la sua battaglia di giustizia contro i talebani.
Gli occhi del mondo
Nel giorno del suo sedicesimo compleanno, il 12 luglio 2013, l’attivista pakistana tenne un discorso a New York davanti all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. «Io non sono contro nessuno», volle puntualizzare. «Sono qui a parlare per il diritto all’istruzione per tutti i bambini. Voglio un’istruzione per i figli e le figlie dei talebani e di tutti i terroristi e gli estremisti. Non odio nemmeno il talebano che mi ha sparato». «Il saggio proverbio “La penna è più potente della spada” – aggiunse – dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa». In suo onore, l’Onu istituì il 12 luglio come “Malala Day”.
Il 10 ottobre 2013, un anno esatto dopo l’attentato a cui era scampata, anche il Parlamento europeo rese omaggio a quella carismatica adolescente tributandole il Premio Sacharov per la libertà di pensiero. In quegli stessi mesi Malala pubblicò la sua autobiografia, “I Am Malala”, divenuto un successo editoriale in tutto il mondo, e, insieme al padre, costituì il Malala Fund, organizzazione che da allora è impegnata per promuovere e difendere il diritto di tutte le bambine e ragazze a completare un ciclo di studi di almeno dodici anni.
Il 10 dicembre 2014 l’importanza della sua battaglia fu riconosciuta al livello massimo: a Oslo, in Norvegia, le fu consegnato il Premio Nobel per la Pace. Nel suo discorso di ringraziamento, disse: «Racconto la mia storia non perché sia unica, ma perché è la storia di tante ragazze. Questo premio non è solo per me. È per quei bambini dimenticati che desiderano un’istruzione. Sono qui per difendere i loro diritti, per far sentire la loro voce. Non è il momento di compatirli. È il momento di agire affinché sia l’ultima volta che vediamo un bambino privato dell’istruzione».
Idealismo e amarezza
Undici anni dopo quelle parole, la battaglia di Malala è ancora purtroppo attuale. Secondo l’Unesco, nel mondo ci sono ad oggi 251 milioni di bambini e ragazzi che non vanno a scuola: negli ultimi dieci anni il loro numero si è ridotto appena dell’1%.
Nel frattempo, l’attivista si è laureata a Oxford in un corso triennale che comprendeva come materie filosofia, politica ed economia e ha sposato Asser Malik, dirigente della Federazione Cricket pakistana.
Nel 2018, protetta da un blindato protocollo di sicurezza, ha fatto ritorno per la prima volta nel suo Paese d’origine, dove ha incontrato il premier Shahid Khaqan Abbasi, mentre lo scorso marzo – tredici anni dopo l’attentato che l’ha quasi uccisa – ha fatto una breve visita alla sua città natale, Mingora, dove i talebani continuano a minacciare la stabilità. «È stata una gioia immensa, per me, essere circondata dalle montagne, immergere le mani nell’acqua fredda del fiume e ridere con i miei amati cugini. Questo posto mi è molto caro e spero di tornarci ancora e ancora», ha detto.
Qualche anno fa Malala dichiarò la sua ambizione a diventare un giorno primo ministro del Pakistan, indicando come suo modello d’ispirazione Benazir Bhutto, prima donna eletta a capo di un governo democratico in un Paese a maggioranza musulmana, morta nel 2007 in seguito a un attentato suicida ad opera di Al Qaeda.
In una recente intervista concessa a Vatican News, la paladina del diritto all’istruzione ha lasciato trasparire una certa dose di amarezza: «Quando ho iniziato a impegnarmi per l’educazione delle bambine – ha ammesso – ero piena di speranze. Credevo che i leader governativi e istituzionali che esprimevano il loro sostegno avrebbero utilizzato il proprio potere per adottare misure rapide e decisive per trasformare il mondo delle giovani donne. Oggi, a 28 anni, devo ammettere una verità più frustrante: il cambiamento richiede tempo. L’esperienza mi ha insegnato che il progresso richiede più che delle promesse: esige soluzioni creative, risorse continue e pazienza». È l’idealismo che si scontro con la cruda realtà. La determinazione, però, è sempre la stessa: «Queste sfide – assicura Malala – non hanno attenuato il mio senso di urgenza di creare un futuro migliore per le ragazze. È questa la mia missione nella vita e lo sarà sempre».