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Intervista di Andrea Purgatori alla fidanzata di Khashoggi: “Vi racconto cosa è successo quel giorno a Istanbul”

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

A pochi giorni dalla pubblicazione del rapporto dell'intelligence Usa che accusa il principe saudita Mohammed Bin Salman di essere il mandate dell'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi (avvenuto il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul), vi riproponiamo l'intervista di Andrea Purgatori alla fidanzata della vittima, Hatice Cengiz

Hatice, prima del 2 ottobre, Jamal era già stato nel consolato saudita?
“Sì c’era già andato il 28 settembre, quella era stata la sua prima visita”.

S&D

Jamal aveva paura oppure si sentiva tranquillo?
“Jamal in quel periodo preferiva evitare di frequentare il consolato per le questioni burocratiche. Ma, quando ha capito che l’unico modo per risolvere le procedure per il nostro matrimonio era andare lì, allora si è convinto. Anche se era molto stressato, direi che non aveva paura nel senso vero e proprio del termine, piuttosto era preoccupato per le questioni burocratiche e ha condiviso questa ansia con me. Avevamo parlato molto del fatto che si sentisse minacciato e della possibilità che potesse rimanere bloccato in ambasciata, ma lui non aveva assolutamente la sensazione che gli potesse succedere qualcosa di così tremendo. Al massimo temeva che lo arrestassero oppure che non gli restituissero il passaporto”.

Come si sono comportati nel consolato con Jamal. Erano gentili? Lui, quando è uscito, che cosa ha detto?
“Quando è uscito dal consolato mi ha detto che erano stati molto gentili. E, siccome non aveva chiesto un appuntamento, quando all’improvviso si sono trovati davanti Jamal, per loro era stata una sorpresa. Lui li ha informati che aveva intenzione di sposare una ragazza turca e aveva bisogno di alcuni documenti e loro lo hanno incoraggiato, perché una vita fuori dal suo paese da solo non sarebbe stata facile. Ma è stata una chiacchierata piacevole, hanno addirittura fatto delle battute sul matrimonio. Gli hanno anche offerto persino il thè. E hanno garantito che in breve tempo gli avrebbero consegnato i documenti necessari. Jamal, poi, mi ha detto che quella conversazione così serena era stata confortante e non siamo tornati sull’argomento della paura, se ci fosse da preoccuparsi o se gli sarebbe potuto succedere qualcosa”.

Come è stato deciso l’appuntamento del 2 ottobre?
“Quando Jamal è andato al consolato il 28 settembre, gli avevano spiegato che ci sarebbero voluti un po’ di giorni per i documenti. Lui gli ha detto che doveva partire per una serie di appuntamenti, allora gli hanno chiesto ‘Quando potresti venire?’. E lui ha risposto: ‘Il 2 ottobre, quando rientro’”.

Cosa ricorda esattamente di quel 2 ottobre? Quando siete usciti di casa, che cosa dovevate fare quel giorno, che giornata doveva essere?
“Oggi, se ci ripenso, mi vengono in mente tanti brutti ricordi. È stata una giornata orribile, dall’inizio alla fine. Ma, mentre la vivevo, non avrei mai immaginato quello che poi è successo. Per me era un giorno speciale, dovevamo fare tante cose. Ricordo che quella mattina mi sono svegliata pensando che era una giornata importante. Ero emozionata, dovevamo comprare dei mobili per la casa e avremmo concluso la maggior parte dei preparativi per sposarci. Quel 2 ottobre doveva essere la giornata più importante prima del matrimonio, e invece, si è trasformato nel giorno di un mostruoso assassinio”.

Le immagini che ci sono mostrano Jamal molto tranquillo, che entra nel consolato saudita. Lei era in macchina fuori che lo aspettava, poi ha cominciato a passare il tempo: un’ora, due ore… Per quanto tempo è rimasta fuori?
“Non ho aspettato in macchina, ma in un posto da cui potevo vedere l’ingresso del consolato. Sono stata lì circa due o tre ore. E pensavo: se la volta precedente è rimasto dentro 45 minuti senza prendere nessun documento, stavolta avrà bisogno di stare di più, magari deve firmare qualcosa, chiedere telefonicamente delle autorizzazioni. Ragionando così, il tempo si è dilatato e non mi sono fatta problemi, perché se avessi immaginato un pericolo certamente non lo avrei lasciato andare ma nemmeno lui sarebbe entrato lì dentro. Però, ho pensato: cosa ti può capitare dentro un consolato?

Ecco, in testa non avevo idea di qualcosa di brutto. Mi sono detta: staranno chiacchierando, avranno qualcosa da fare. Non ho pensato a nient’altro. Poi, dopo un po’, ho mandato un messaggio a mio fratello, e gli ho chiesto di controllare su Internet l’orario di apertura del consolato. E quando ho visto che erano le tre e mezza e ho scoperto che il consolato chiudeva alle tre, in quel momento ho realizzato che poteva essere successo qualcosa”.

Quando ha visto che Jamal non tornava più, che cosa è successo?
“Sono andata all’ingresso del consolato. Lì c’era un poliziotto turco. Gli ho chiesto se avesse visto entrare un uomo che però non era più uscito. Ho detto anche il nome, ma lui ha risposto: ‘Non lo conosco’. Allora ho capito che non sapeva nulla e ho chiamato direttamente il consolato e la persona che ha risposto al telefono mi ha detto che non c’era più nessuno e gli uffici erano chiusi. Io ho insistito: ‘Non è possibile, io sono qui fuori ad aspettarlo e Jamal non è ancora uscito!’. Allora è venuto fuori il poliziotto per vedere dove stavo e mi ha ripetuto le stesse cose.

Ma aveva la faccia sconvolta. Una faccia diversa, preoccupata. E quando ho visto quell’espressione ho cominciato a pensare che era successo qualcosa, perché aveva l’aria di uno che sapeva molto, che aveva visto qualcosa che non andava, ma che cercava di non mostrarmelo. Così mi sono spaventata e ho chiamato il professor Yasin Aktay, uno dei più importanti consiglieri del presidente Erdogan e anche un buon amico di Jamal”.

Quindi lei avverte un consigliere del presidente e a quel punto si mette in moto una macchina per cercare di capire che cosa è successo. Chi è che si muove, la polizia? Cioè, mi racconta, perché passano 16 giorni dal momento in cui Jamal entra al consolato al momento in cui i sauditi ammettono che lo hanno ucciso?
“All’inizio il caso è stato trattato come la scomparsa di una persona che entra in un posto e non ne esce. Nessuno ha pensato subito a un assassinio. Se fossi andata alla polizia, la procedura per entrare dentro un consolato sarebbe stata più lenta. Invece ho pensato che la cosa migliore per velocizzare i tempi era di far intervenire qualcuno dall’alto. Per questo ho chiamato quella persona, e meno male che l’ho fatto. Perché, anche se questo alla fine non ha cambiato le cose, in poco tempo il governo è stato messo al corrente di quello che era accaduto sul territorio turco, e così l’intelligence, la presidenza e tutte le massime autorità.

Ho pensato solo che dovevo fare in fretta perché, se nel consolato era accaduto qualcosa, questo avrebbe avuto delle conseguenze politiche, in quanto Jamal era un cittadino saudita. Era la persona con cui mi sarei legata per tutta la vita, toccava a me indagare sulla sua morte, io sono stata il primo e l’ultimo testimone. Ecco perché mi sono rivolta alle massime autorità, che hanno avvisato i servizi segreti, che a loro volta hanno avvertito la presidenza, la prefettura di Istanbul e la polizia che ha bloccato gli aeroporti e le vie d’accesso per terra e per mare. All’inizio credevano che si trattasse di un sequestro di persona. E mi tenevano informata mentre io continuavo a rimanere davanti al consolato fino all’una e mezza di notte. Nessuno mi ha detto che poteva essere accaduto qualcosa di orribile all’interno e io nemmeno ci ho pensato, credevo che lo avessero solo sequestrato e lo trattenessero lì dentro”.

Hatice, i sauditi hanno detto un sacco di bugie. Lei come reagiva a queste cose che di giorno inventavano: prima che era uscito, poi che non sapevano dove fosse. Si sono comportati in un modo assurdo, forse anche stupido.
“Credo che le autorità saudite abbiano sottovalutato la questione, non hanno calcolato cosa potesse provocare la sparizione di Jamal. Non immaginavano neanche che in un paio di ore il caso sarebbe arrivato al presidente. Io penso questo. E, quando i riflettori si sono accesi su di loro, sono rimasti spiazzati. Probabilmente si sono chiesti come potevano insabbiare la vicenda senza commettere altri errori.

Non pensavano che si attivasse una rete d’informazione così veloce. Anche perché non sapevano cosa avesse in mano il governo turco a livello di notizie. Infatti, dall’inizio e fino al giorno in cui le autorità saudite hanno ammesso il proprio coinvolgimento, hanno sempre dato versioni diverse e cercato di allontanare da loro ogni responsabilità. Dicevano: ‘Anche noi siamo preoccupati, ci risulta che lui è uscito, abbiamo dato tutte le notizie che avevamo e stiamo aspettando’. Insomma, si giustificavano in vari modi. Ma queste spiegazioni mi spaventavano sempre di più, perché sapevo che Jamal non era mai uscito da lì. Io c’ero, io ero lì.

Però fino all’ultimo non ho perso la speranza. Non ho voluto credere che l’avessero ucciso. Pensavo: ‘Dai, sarebbe uno scandalo, non si spingerebbero mai fino a quel punto’. Invece, non dopo sedici, ma dopo diciotto giorni, il 19 ottobre, in piena notte hanno dichiarato che era morto durante una rissa all’interno del consolato. E questo peserà sulla storia dell’Arabia Saudita come una macchia indelebile, perché sappiamo quanto la famiglia reale sia tutta d’un pezzo, e uccidere così un uomo non credo sia solo uno scandalo diplomatico ma abbia eroso per sempre il loro prestigio”.

Lei è stata aiutata molto dal presidente Erdogan e all’inizio ci fu nel mondo una reazione di sgomento per quello che era stato commesso, per questo crimine orrendo dentro un consolato. Poi, un po’ alla volta, il tempo è passato. Lei adesso si sente più sola, in questa battaglia per la ricerca della giustizia?
“Questo è un punto importante. È vero, la persona che mi è stata più accanto è stato il presidente Erdogan. Dal 2 ottobre e nei mesi successivi tutte le autorità turche mi hanno sostenuta e hanno cercato di risolvere il caso il prima possibile, perché questa è una situazione straordinaria e per un paese non è facile passarci sopra. Il Medio Oriente sta attraversando un momento delicato, quindi noi non abbiamo il lusso di prendere sottogamba una situazione tanto delicata. Insomma, un cittadino entra in una sede diplomatica e scompare così… Capisce?

Ecco perché il presidente ha chiesto di far uscire la verità, ha seguito il caso e quando gli ho chiesto un appuntamento ha accettato di incontrarmi. L’ho visto la prima settimana dopo la scomparsa di Jamal e gli ho spiegato le mie preoccupazioni. Non so se Erdogan sapesse già la verità, ma era molto addolorato e mi ha sostenuta sia umanamente che come figura istituzionale. Ma dopo sì, dopo mi sono sentita sola, perché a livello politico non ho riscosso altrettanta attenzione dalla stampa internazionale, soprattutto dagli Stati Uniti, dall’Europa, dalla Germania e dall’Inghilterra.

Ora, ad esempio, siamo in Inghilterra e questo paese non ha fatto nulla di concreto. Adesso sappiamo l’ottanta per cento di ciò che è successo, ma nessun presidente ha preso una posizione politica efficace, per esempio facendo pressione alle autorità saudite. Ognuno ha ragionato secondo i suoi interessi economici e politici. Siamo nel 2019, nel mondo sono cambiate tante cose in tema di valori, di democrazia, di diritti umani, tutti valori molto importanti per l’Europa, ma i governanti europei hanno ragionato in maniera arcaica. Parlano di democrazia, ma non hanno preteso una spiegazione, non hanno indagato, non hanno fatto abbastanza pressione anche al momento dell’ammissione di colpa. Se lo avessero fatto non staremmo qui a parlare. Invece l’assassinio di Jamal è ancora un caso aperto. Eccetto che per la Turchia, che ha fatto tutto il possibile, i grandi capi del mondo hanno una grossa responsabilità. Sia umanamente che politicamente”.

Sono stati identificati tutti i componenti di questo commando di 15 persone che ha ucciso Jamal in quel modo orribile, due in particolare sono indicati come gli organizzatori del gruppo, che sono Al-Qahtani e Al-Asiri. Jamal le aveva mai parlato di queste persone? Lui era stato minacciato da Al- Qahtani: su Twitter lo continuavano ad indicare come un nemico dell’Arabia Saudita. Ne avete parlato insieme?
“Io non ho sentito pronunciare alcun nome specifico da lui. Dall’inizio del nostro rapporto fino alla sua morte abbiamo parlato molto di politica, della situazione interna all’Arabia Saudita, del processo di riforme. Da quando era all’estero, era considerato un oppositore e su questo gli facevo un sacco di domande e lui rispondeva a tutto. Avevamo interessi simili perché anche io sono una studiosa e la nostra storia è cominciata proprio perché ero molto interessata al Medio Oriente, ma non mi ha mai parlato di qualche persona in particolare che potesse rappresentare un pericolo per lui”.

Jamal aveva paura? Durante i mesi in cui voi vi siete frequentati lui ha ricevuto delle minacce precise. Temeva per la sua vita?
“Quando chiedevo a Jamal, se si sentiva minacciato, lui mi rispondeva di no. Quando dovevamo andare da qualche parte gli chiedevo se avesse paura e mi rispondeva che in Europa, America e Turchia si sentiva al sicuro. Jamal non pensava assolutamente di essere odiato né di poter essere minacciato da qualcuno, non la pensava così. Sapeva di dare fastidio a qualcuno, ma continuava a scrivere ed era convinto di farlo in modo giornalisticamente corretto. Era troppo ottimista, non pensava che la sua vita fosse in pericolo. E, se non lo ha pensato se non si preoccupava lui, figuriamoci se potevo pensare a una cosa del genere io”.

Lei adesso sta conducendo una battaglia molto difficile, molto coraggiosa, che coinvolge governi, princìpi fondamentali che hanno a che fare con la libertà di stampa, la libertà di espressione. Ha paura per quello che sta facendo?
“Non ho paura, anche se tutto questo è stato emotivamente uno choc pesantissimo. È ancora difficile per me crederci, ogni giorno mi sveglio cercando di convincermi che lui è morto. Ormai da un anno e due mesi… Immaginate una persona che si sveglia tutti i giorni così, pensando a questa tragedia, come può avere paura per la propria vita? Se un uomo importante come Jamal, ucciso a quel modo, non ha riscosso alcuna attenzione a livello mondiale tra i leader politici, la mia morte cosa potrebbe valere?

Non mi fraintenda, ognuno pensa alla sua vita, ma dopo aver passato tutto questo, io non ho paura. Certo non vado nemmeno a cercare il pericolo. E al mio posto, non lo avrebbe fatto nemmeno Jamal. Invece all’interno di una sede diplomatica è stato compiuto un crimine che nessuno poteva immaginare. E se sono riusciti a farlo in un posto come quello, pensate ciò che si può fare altrove. Questa è la mia battaglia per evitarlo. Perché, se domani dovese capitare ad un giornalista italiano, francese, tedesco o americano o anche una persona qualsiasi, un delitto del genere non dovrebbe essere percepito come una cosa normale, ma dovremmo pretendere tutta la verità”.

Quale è il modo per ricordare Jamal e per fare in modo che la sua morte non passi, nel corso degli anni, come qualcosa che si dimentica? Cosa possiamo fare per rendere omaggio al sacrificio di un giornalista che ha sempre lavorato cercando la libertà, cercando di spiegare le cose che accadevano senza avere paura delle conseguenze?
“Io ho alcune cose che vorrei dire. Ad esempio, mi aspettavo più sostegno dall’Europa. Quello che dicono i paesi europei è che non vogliono rovinare i rapporti bilaterali con l’Arabia Saudita. Ma mi sembra assurdo, perché, se pensano questo, allora la Turchia è il paese che ha il rapporto più importante con i sauditi e più ragioni di voi di mantenere buone relazioni. Ma, nonostante ciò, ha affrontato questo caso in tutt’altra maniera, perché si tratta dell’assassinio di un uomo che aveva dedicato la sua esistenza al giornalismo e ha pagato con la vita. Qualcosa che, comunque la si pensi, avrebbe dovuto ferire chiunque per il modo in cui è stato ucciso e per il silenzio dopo la sua morte.

Poi, all’Italia dico: ora avete un nuovo governo e se il presidente Conte assumesse una posizione politica degna del patrimonio storico dell’Italia sarebbe più ragionevole, più corretto, più accettabile e rispecchierebbe la voce della coscienza degli italiani, che hanno seguito questa vicenda con partecipazione e con dolore. Quindi, penso che il presidente Conte potrebbe fare qualcosa in più per rispecchiare politicamente il loro sentimento.

Anche all’informazione spetta un compito importante. Perché i media più potenti e giornalisti come voi, per non dimenticare questa vicenda, possono e devono fare programmi, seminari, conferenze. Non per me, ma per Jamal che aveva dei valori da difendere. Come possiamo onorare il suo ricordo? È necessario che ogni paese si prenda le sue responsabilità. E non si tratta di colpire l’Arabia Saudita, ma di far sì che quello che è accaduto non si ripeta. È necessario far emergere la verità. Perché un delitto del genere non si può e non si deve dimenticare. Dunque bisogna dare uno schiaffo a chi lo merita. E se l’Arabia Saudita lo merita, bisogna darglielo”.

Leggi anche: 5 domande a cui Matteo Renzi deve rispondere (a un giornalista) – di Giulio Gambino

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