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Home » Esteri

Indonesia, la tribù “minacciata” dalle auto elettriche: ecco chi paga la transizione ecologica

Immagine di copertina
Credit: Survival International

Gli Hongana Manyawa sono un popolo di cacciatori-raccoglitori. Vivono da sempre sull’isola di Halmahera, nelle Molucche settentrionali e molti di loro rifiutano il contatto con la società esterna. Ma ora devono fuggire dalle aziende minerarie che estraggono nichel per le batterie, distruggendo la loro foresta ancestrale

Hairani e Toraji hanno sempre vissuto nella foresta. Sono due anziani nomadi ma la loro casa è tra quegli alberi che, come i loro antenati, rispettano tanto quanto gli esseri umani. Entrambi vivono sull’isola di Halmahera, nelle Molucche settentrionali, e appartengono alla comunità Hongana Manyawa, che nella loro lingua significa letteralmente “popolo della foresta”.

«Abbiamo sempre vissuto qui. Lì ci sono le palme e i frutti che spesso cogliamo», spiega Hairani, seduta a terra davanti a un piatto di verdure ripresa dal progetto Tribal Voice di Survival International. «Questa terra è nostra, sin dall’alba dei tempi», le fa eco Toraji. «Prova a dare un’occhiata alle loro case», aggiunge l’uomo riferendosi agli accampamenti della locale azienda mineraria Weda Bay Nickel. «È là che si sono deliberatamente presi la terra». «Lì c’erano i nostri orti!», ricorda Hairani. «Non vogliamo dar via la nostra foresta. Non sfruttate la nostra terra». Il loro popolo è stato infatti costretto a fuggire dalle proprie terre ancestrali davanti ai bulldozer delle società minerarie impegnate a estrarre nichel, un materiale fondamentale per le auto elettriche e la transizione ecologica. A costo di devastare l’ambiente e di minacciare una delle ultime tribù di cacciatori-raccoglitori nomadi dell’Indonesia.

Custodi degli alberi
Gli Hongana Manyawa sono una comunità tutto sommato piccola. Si stima che la popolazione totale non superi le tremila persone, compresi non meno di 300 e non più di 500 individui “incontattati”, cioè che evitano il contatto con il resto del mondo e vivono nella foresta. Il popolo Hongana Manyawa è comunque diviso, secondo i biologi B.J. Coates e K.D. Bishop, in 21 gruppi diversi, di cui solo sei seguono ancora il tradizionale costume nomade. Ma sono tutt’altro che arretrati. La loro è un’economia di sussistenza ma – secondo il sociologo della North Maluku Muhammadiyah University, Syaiful Madjid, che per anni ne ha studiato la cultura – le loro usanze sono legate a un profondo sistema di credenze e di valori. In primis, al profondo rispetto per la foresta.

Per costruire le proprie case infatti, come spiega l’ong Survival International, non abbattono gli alberi, che secondo le loro tradizioni hanno un’anima e dei sentimenti come gli esseri umani, ma «usano solo foglie e rami». Inoltre, «quando nasce un bambino, la famiglia pianta un albero in segno di gratitudine e seppellisce il cordone ombelicale tra le sue radici». Eppure per molti la tribù potrebbe trarre grandi benefici dall’integrazione con il resto della società indonesiana. Un’opinione che però si scontra con la realtà dei fatti.

Il contatto forzato con l’esterno degli Hongana Manyawa si è rivelato un disastro. Basti pensare che il periodo compreso tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso, caratterizzato da ondate di epidemie susseguitesi una dopo l’altra, è ricordato dalla comunità come la «pestilenza». Malgrado questo, negli ultimi 50 anni, il governo indonesiano ha cercato di reinsediare il gruppo indigeno al di fuori della foresta, costringendo le persone ad adottare uno stile di vita stanziale. È per questo che oggi molti membri della tribù vivono in villaggi costruiti dallo Stato e per lo stesso motivo molti altri sono tornati nella foresta.

L’incontro con il mondo esterno ha comportato infatti gravi episodi di discriminazione, come mostra il caso di Bokum e Nuhu. I due uomini furono arrestati nel marzo del 2014 con l’accusa di omicidio. Secondo l’Aliansi Masyarakat Adat Nusantara (Aman), la principale organizzazione rappresentativa dei popoli indigeni dell’Indonesia, le prove presentate al processo erano «insufficienti». Per il professor Syaiful Madjid, che conosceva entrambi gli imputati, «il processo si svolse in lingua indonesiana», un idioma che Bokum e Nuhu non conoscevano.

Inoltre, i due erano accusati di aver commesso l’omicidio in una zona della foresta molto lontana da quella da loro abitata. Nonostante tutto però, i due furono condannati a 15 anni di reclusione. Soltanto nel gennaio del 2022, dopo otto anni di carcere, Bokum è stato rilasciato, mentre Nuhu è morto in prigione nel 2019. «È un caso di pura discriminazione, un fenomeno che va avanti da molti anni», commentò allora Munadi Kilkoda, il direttore regionale dell’ong Aman. Secondo Survival International, i membri della tribù «fungono anche da comodo capro espiatorio per la polizia, che spesso li accusa di crimini con cui non hanno nulla a che fare». Ed è in questo clima che la comunità deve lottare – oltre che contro la povertà e il razzismo – anche per difendere la propria terra, ricca di minerali preziosi per la transizione ecologica.

Cinesi, francesi e tedeschi
Nell’area sottratta alla foresta dove abitano gli Hongana Manyawa dal 2018 è stato sviluppato il PT Indonesia Weda Bay Industrial Park, uno dei due colossali progetti in costruzione nel Paese asiatico destinati all’estrazione e alla lavorazione del nichel. Un impianto che, complice il divieto imposto da Jakarta di esportare all’estero il minerale grezzo, punta a diventare il primo complesso al mondo di produzione verticale – dalla miniera ai prodotti finiti – di batterie integrate per le auto elettriche. Un affare miliardario visto che, finora, l’investimento ammonta a 5 miliardi di dollari, una cifra che nei prossimi anni raggiungerà gli 11 miliardi.

Il progetto, inaugurato nel 2020, prevede tre fasi: un primo sviluppo da 2,5 miliardi di dollari di fonderie di ferro-nichel, un secondo da 1,5 miliardi di dollari di linee produttive di nichel e cobalto sotto forma di idrossidi e infine almeno un altro miliardo per la produzione di batterie per auto elettriche.

I soggetti, direttamente o indirettamente, coinvolti arrivano tutto il mondo. Secondo l’associazione ambientalista indonesiana Aeer che si batte anche per i diritti degli indigeni, la società responsabile del parco PT IWIP è una joint venture tra tre imprese cinesi: lo Tsingshan Group, che detiene una partecipazione del 40 per cento attraverso la controllata Perlux Technology; lo Huayou Group, che controlla il 30 per cento dell’azienda; e lo Zhenshi Group, anch’esso proprietario del 30 per cento delle quote. E non è finita. 

Tra le varie società minerarie attive nella zona la principale è la PT Weda Bay Nickel, controllata al 10 per cento dall’azienda mineraria statale indonesiana PT ANTAM e al 90 per cento da una joint venture franco-cinese, Strands Mineral, con sede a Singapore. La francese Eramet, che sovrintende alle operazioni estrattive nella miniera, detiene il 43 per cento di Strands Mineral, il cui restante 57 per cento è in capo sempre allo Tsingshan Group, responsabile delle infrastrutture nel sito.

Ma dove andrà a finire tutto questo nichel? Per lo più nelle nostre auto elettriche. Tesla ad esempio, la più grande casa produttrice al mondo di questi veicoli, ha già firmato una serie di contratti del valore di miliardi di dollari per comprare dall’Indonesia nichel e cobalto da utilizzare per le sue batterie. L’azienda di Elon Musk – che non è in alcun modo coinvolta nelle attività minerarie a Halmahera – ha anche raggiunto una serie di accordi con le cinesi Huayou Cobalt e CNGR Advanced Material, entrambe collegate all’estrazione del nichel dall’isola indonesiana, aumentando il rischio che i metalli estratti dalle terre degli Hongana Manyawa possano finire nelle auto elettriche del marchio statunitense.

Intanto però sull’isola stanno arrivando anche i tedeschi: secondo quanto annunciato dalla stessa azienda transalpina, Eramet sta sviluppando «un impianto idrometallurgico ad Halmahera» con il colosso chimico tedesco Basf «allo scopo di produrre nichel e cobalto, materiali essenziali per la produzione di batterie per le auto elettriche». Quest’ultimo impianto, secondo quanto appreso da Survival International, «potrebbe trovarsi proprio nel territorio degli Hongana Manyawa incontattati», paradossalmente minacciati da attività che dovrebbero favorire la transizione ecologica e quindi la tutela ambientale.

Disastro ambientale
Un altro paradosso è l’utilizzo di centrali a carbone per alimentare l’energia del parco industriale sorto sulle terre sottratte alla tribù. Secondo le informazioni pubblicate dal Global Energy Monitor, la capacità totale di generazione elettrica a carbone in funzione o in fase di sviluppo a Weda Bay è di 3.400 megawatt. Il che, secondo l’ong Aeer, potrebbe essere collegato alle segnalazioni di problemi di salute da parte della popolazione locale. In particolare, gli abitanti di tre villaggi avrebbero lamentato difficoltà respiratorie dovute all’inquinamento atmosferico. 

Non solo: secondo l’ong Aman, lo stoccaggio dei minerali interessa anche le attività di pesca locali, a causa della presunta contaminazione delle acque. I residenti lamentano anche un accesso limitato a fonti idriche pulite, dovuto alla deviazione di un fiume per costruire una fonderia e all’inquinamento di altri corsi d’acqua. Per la tribù è un paesaggio desolante, come ha spiegato l’anziana Tupa ad Aman: «Gli alberi sono scomparsi, sostituiti da una grande strada, dove macchine giganti entrano ed escono facendo rumore e disperdendo gli animali». Per gli Hongana Manyawa, la foresta non è solo una casa ma anche “un ponte” che li collega con il mondo spirituale. «È la nostra terra», ripete Toraji. «Sin dall’alba dei tempi».

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