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Home » Esteri

Marco Travaglio a TPI: “Ecco quello che non ci dicono su Israele e i palestinesi”

Immagine di copertina
Credit: AGF

“Bisogna ripartire da ‘due popoli e due Stati’. Da una parte, Israele deve ritirare le colonie dai territori occupati e dall’altra le fazioni palestinesi devono decidersi tra terrorismo e convivenza pacifica. Qui da noi però le opposte tifoserie confondono solo le idee”. Il direttore del Fatto commenta a TPI la guerra delle parole scoppiata con il conflitto a Gaza

Partiamo dal tuo libro, “Israele e i palestinesi in poche parole”. Se ne può davvero parlare in poche parole?
«Io ci ho provato perché penso sia necessaria almeno un’infarinatura generale, un quadro d’insieme di questa storia complicatissima. Poi per chi vuole approfondire alla fine del libro ho segnalato una vasta e trasversale bibliografia. Ma almeno i fondamentali non dovrebbero essere messi in discussione o ignorati. Mi sembra che invece adesso ci sia la tendenza a dover stare “senza se e senza ma” da una parte o dall’altra. Si parte da un preconcetto e poi si vanno a cercare brandelli di storia che lo confermino, strappando le pagine che non ci convengono. Io invece ho voluto, seppure in sintesi, mettercele tutte. In cento anni di storia i torti e le ragioni si intrecciano, si sovrappongono».

S&D

Quali sono dunque questi fondamentali da cui non si può prescindere?
«Non si può invocare il diritto internazionale se poi si nega il diritto di Israele a esistere, legittimato dalla Risoluzione dell’Onu numero 181 del 1947: quella che divide l’ex mandato britannico di Palestina, dal Giordano al Mediterraneo, in due Stati, uno ebraico e l’altro arabo-palestinese. Tutt’oggi, nel 2023, ci sono personaggi anche autorevoli secondo cui il problema di Israele è che non doveva nascere. Ma allora non si può chiedere a uno Stato che tu ritieni abusivo perché te ne infischi della risoluzione Onu n. 181 di rispettare le altre risoluzioni delle Nazioni Unite. Bisogna partire dalla 181 per poi pretendere che Israele restituisca i territori ancora occupati: il diritto internazionale non funziona a intermittenza, a targhe alterne».

Quella risoluzione fu un errore?
«Assolutamente no. Anzi, se non avessero suddiviso il territorio in due Stati, sarebbe stato subito un bagno di sangue. Ricordiamoci che in quel momento il leader dei palestinesi era il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al-Husseini, uno dei migliori amici di Hitler, uno che aveva reclutato le SS musulmane durante la guerra mondiale ed era arrivato a proporre di avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv per sterminare gli ebrei. Prima del 1947 c’era stata la Grande Rivolta Araba con scontri e massacri fra ebrei e palestinesi e dopo la guerra del 1948 ci fu la Nakba, l’esodo forzato di centinaia di palestinesi da Israele verso gli Stati arabi e il parallelo controesodo di centinaia di migliaia di ebrei dagli Stati arabi verso Israele. Non era possibile creare un unico Stato in cui convivessero entrambi: si oscillava tra la guerra latente e quella effettiva».

Ha ragione chi ritiene che la comunità internazionale abbia registrato una chiusura a priori verso il riconoscimento del popolo palestinese?
«La risoluzione Onu 181 del 1947 stabiliva che anche i palestinesi avessero il loro Stato. Quello che oggi tutti sogniamo – il principio “due popoli, due Stati” – è nel diritto internazionale da 76 anni. Purtroppo i peggiori nemici dei palestinesi si rivelarono la loro leadership e gli Stati della Lega araba che li tenevano sotto tutela. Infatti nel ’48, anziché dare vita allo Stato palestinese accanto a quello ebraico, rifiutarono la risoluzione dell’Onu e scatenarono la guerra contro Israele per ricacciare a mare gli ebrei. Ma persero sia la guerra sia i territori, che in minima parte furono annessi da Israele e in gran parte furono occupati dagli Stati arabi: dal 1948 al 1967 la Striscia di Gaza se la tenne l’Egitto e la Cisgiordania l’annesse la Transgiordania, che si chiamò Giordania proprio per quello. In quei 19 anni gli Stati arabi non mossero un dito per far nascere lo Stato della Palestina: preferirono usare i palestinesi nei campi profughi come arma propagandistica contro Israele. Intanto preparavano altre guerre e persero anche quelle: quella di Suez nel 1956 e quella dei Sei Giorni nel 1967».

In quei sei giorni Israele si prese tutto.
«Sì, quadruplicò il territorio del ’47. E si impegnò a restituire Sinai, Gaza e Cisgiordania agli arabi in cambio di trattati di pace, che però nessuno Stato arabo volle firmare, perché nessuno di essi riconosceva l’esistenza di quello ebraico. Solo l’Egitto di Sadat lo riconobbe e firmò la pace, nel 1978, dopo aver perso anche la guerra del Kippur del 1973. Begin restituì al Cairo il Sinai, ma non Gaza, perchè Sadat non la rivolle indietro. Intanto però Israele iniziò a passare dalla parte del torto colonizzando sempre più la Cisgiordania e la Striscia di Gaza: se sono territori che prevedi di restituire in cambio di pace, non puoi imbottirli di insediamenti ebraici. Infatti, a furia di “fatti compiuti”, oggi quello dei coloni in Cisgiordania è uno dei problemi più importanti da risolvere».

Chi sono i palestinesi oggi?
«Sono divisi in quattro categorie. Oltre 2 milioni di palestinesi sono cittadini israeliani, integrati con tutti i diritti. Altri 3 milioni vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, ma non sono cittadini israeliani: vivono sotto occupazione militare israeliana (salvo rare oasi amministrate dall’Anp dopo gli accordi di Oslo). Poi ci sono i 2,4 milioni di palestinesi a Gaza, che dal 2006 sono governati da Hamas. Infine ci sono i palestinesi che vivono negli altri Paesi arabi, come Giordania, Libano, Siria, Egitto e penisola arabica. Sono un popolo senza Stato e vivono in condizioni molto diverse a seconda di dove si trovano: le migliori sono in Israele, le peggiori a Gaza e perlopiù anche in Cisgiordania».

Come già avvenuto con il Covid e la guerra in Ucraina, anche nel conflitto israelo-palestinese si verifica sulla stampa italiana un cortocircuito per cui si creano fazioni opposte. Che rende molto difficile parlarne. Una guerra delle parole.
«Si formano due tifoserie ultrà. La Curva Palestina non fa distinzioni tra Netanyahu e lo Stato di Israele, o tra quest’ultimo e il popolo ebraico, o fra il genocidio della Shoah (e di pochi altri casi della storia) e i crimini di guerra perpetrati da Netanyahu a Gaza. La Curva Israele non distingue tra Hamas, Olp e al-Fatah, fra l’ala politica di Hamas e quella militar-terroristica, e fra tutte queste e il popolo palestinese; e poi tira fuori la Shoah a sproposito, come un alibi perenne, confondendo antisionismo e antisemitismo. Tutti gli antisemiti sono antisionisti, ma non tutti gli antisionisti sono antisemiti. Ci sono perfino degli ebrei contrari all’esistenza dello Stato ebraico: alcuni per pacifismo o solidarietà coi palestinesi, altri perchè sognano una “Grande Israele” oltre i confini del 1947 e anche oltre quelli del ‘67. È una storia talmente complicata che ingabbiarla in queste due tifoserie non aiuta a capire, ma solo a confondere le idee. I due popoli sono le prime vittime delle loro classi dirigenti che, a fasi alterne, hanno fatto il male non soltanto del popolo avversario, ma anche e soprattutto del proprio».

Quando per esempio?
«Il peccato originale è il rifiuto arabo dello Stato palestinese nel 1947: se anche gli arabi, come gli israeliani, avessero osservato la risoluzione 181, oggi non staremmo qui a discutere e avremmo risparmiato centinaia di migliaia di morti. I territori che l’Onu assegnava ai palestinesi erano molto più vasti di quelli che oggi rivendicano. Poi ci sono gli errori e i crimini di Israele: la Nakba, le colonie nei territori, le due guerre del Libano per combattere il terrorismo coi carri armati che hanno prodotto solo massacri (indirettamente anche quello ad opera delle falangi cristiano-maronite a Sabra e Chatila) moltiplicando il terrorismo che si voleva ridurre. Oggi Netanyahu, che governa quasi ininterrottamente da 14 anni, è il peggior premier che potesse capitare non solo ai palestinesi, ma anche a Israele. Che è sprovvisto di una classe dirigente in grado di risolvere la questione palestinese e dunque di dare più sicurezza al proprio Paese: persino il falco Sharon, nel 2004, aveva abbandonato la sua intransigenza e capito che Israele doveva diventare più piccolo per essere più sicuro. Infatti nel 2005 ritirò esercito e coloni da Gaza e, contestato nel Likud da Netanyahu, lasciò il partito per fondarne uno di centro, Kadima, dove lo seguì anche il laburista Shimon Peres. Kadima era favorevole a “due popoli, due Stati”, ma purtroppo Sharon fu messo ko da un ictus in mezzo al guado. Il suo braccio destro Olmert proseguì il suo lavoro e, dopo 36 incontri con Abu Mazen, arrivò a proporgli più territori di quelli che i palestinesi rivendicano. Ma Abu Mazen si tirò indietro e non accettò, forse perché sapeva che se avesse firmato anche l’accordo più vantaggioso che Israele aveva mai proposto, sarebbe finito nel mirino degli estremisti di Hamas e della Jihad islamica come traditore. Gli è mancato coraggio. Chiunque, da entrambe le parti, firmi un accordo di pace finisce male».

Un controsenso per il popolo palestinese stesso.
«È accaduto a Sadat, espulso dalla Lega araba e ucciso da un estremista dopo la pace di Camp David. È accaduto ai dirigenti di Fatah, sterminati e cacciati da Gaza dopo che Hamas aveva vinto le elezioni nel 2006. È accaduto sull’altro fronte a Rabin, ucciso da un ebreo estremista dopo la pace di Oslo. Per questo oggi servirebbero, su entrambi i fronti, degli statisti dotati di coraggio, carisma e autorevolezza per far accettare ai rispettivi popoli una soluzione definitiva: che poi è sempre quella della risoluzione Onu del 1947, due popoli in due Stati. Il dentifricio è uscito dal tubetto e oggi non c’è nessun leader forte in grado di rimetterlo dentro. E purtroppo ogni volta che fallisce la soluzione negoziale trionfa l’oltranzismo. Infatti, naufragata la proposta Olmert nel 2008, dal 2009 hanno vinto gli opposti estremismi di Netanyahu e di Hamas, che sono fatti l’uno per l’altro: si aiutano a vicenda a non risolvere il problema. Simul stabunt, simul cadent».

Ma questa figura autorevole non può certo essere calata dall’alto, pena il ripetersi di errori cruciali della storia.
«Gli accordi imposti da fuori non hanno senso. Ma certo, possono essere sollecitati con pressioni anche economiche sui due fronti. Dalle grandi potenze. Non però con idee folli come quella lanciata da Biden, che vorrebbe paracadutare a Gaza l’ottantasettenne e screditato Abu Mazen, che durerebbe quanto un gatto in tangenziale. O i due popoli trovano il modo di fidarsi l’uno dell’altro, o non accetteranno mai di convivere l’uno accanto all’altro: stiamo parlando di 15 milioni di persone, metà ebrei e metà palestinesi, che dovrebbero coabitare in un territorio minuscolo, che in tutto equivale al Piemonte e alla Valle d’Aosta. Non so se mi spiego».

Se appare evidente che il popolo palestinese è privo di una leadership accettata e riconosciuta, come spieghi il successo di Hamas?
«Nel 2006, quando si votò per il Parlamento dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza e in Cisgiordania, Hamas accettò di rinunciare agli attentati kamikaze contro Israele e di “accontentarsi” dei territori occupati dallo Stato ebraico nel 1967 per presentare le proprie liste. Usa e Ue incoraggiarono quella svolta. Poi però Hamas vinse le elezioni: non perché i palestinesi volevano la guerra, ma proprio perchè Hamas – almeno a parole – sembrava avervi rinunciato, e per punire la leadership di Fatah e dell’Olp vicina ad Abu Mazen dei suoi lussi e delle sue corruzioni. Ma subito Usa e Ue, oltre a Israele, proclamarono l’embargo su Gaza e incoraggiarono Fatah a riprendersi il potere in Cisgiordania pur avendo perso nelle urne. Una doppia follia: a Gaza gli unici dispensatori di stipendi e stato sociale furono quelli di Hamas, grazie ai finanziamenti di Qatar, Algeria & Co; e i palestinesi capirono al volo che cosa intendiamo noi occidentali per democrazia, una funzione che vale soltanto se le elezioni le vince chi vogliamo noi. Ora i crimini di guerra di Netanyahu completano l’opera: regalano a Hamas nuovi adepti, perché chi a Gaza non viene ammazzato si convincerà che non c’è alternativa alla lotta armata e diventerà un kamikaze o un adepto di Hamas; e fanno dimenticare agli occhi dei palestinesi l’orrore che molti di essi hanno provato per l’infame pogrom di Hamas del 7 ottobre contro i civili ebrei. Netanyahu è il primo premier israeliano che ha sempre pensato di poter rimuovere la questione palestinese nascondendo sotto il tappeto 3 milioni di palestinesi in Cisgiordania e 2,4 milioni a Gaza. E ha convinto molti israeliani che il problema, a furia di non parlarne, sparisse da solo. In questo senso, “Bibi” è un corpo estraneo nella storia dei governi israeliani: mai nessun premier prima di lui aveva ostentatamente rifiutato di dare una soluzione alla questione cruciale per la sicurezza e la sopravvivenza dello Stato ebraico».

Qual è l’errore più grande che ha fatto Israele e quale quello dei palestinesi?
«Le leadership palestinesi hanno sempre oscillato senza mai decidersi tra terrorismo e guerra da una parte e negoziato e convivenza pacifica dall’altra. Il più grave errore di Israele è stato prima quello di colonizzare i territori occupati. E poi, appunto, quello di affidarsi per tanto tempo a un criminale di guerra senza alcun progetto politico come Netanyahu. Che è tutto tattica e niente strategia, niente visione: sarà di Gaza o della Cisgiordania? I suoi predecessori rispondevano, in modi diversi, ma rispondevano. Lui non si pone proprio il problema, sperando che se ne vadano tutti i palestinesi: ma sono 5 milioni e mezzo! La verità è che quando finirà la guerra, finirà anche Netanyahu: il suo consenso elettorale è ai minimi storici, ha un gravissimo processo per corruzione e ora dovrà rispondere anche dei crimini di guerra a Gaza e dell’impreparazione che ha favorito il pogrom di Hamas del 7 ottobre. Non augurerei i suoi panni al mio peggior nemico».

A proposito di parole giuste e parole sbagliate, è corretto oggi parlare di apartheid?
«Io l’ho contestato perché questo termine ricorda il Sudafrica. Significa “discriminazione” e quindi sarebbe adatto per definire lo status dei palestinesi che vivono in Cisgiordania, ma questi non sono cittadini di Israele (che non ha mai annesso la Cisgiordania e Gaza per non diventare uno Stato a maggioranza araba). Invece l’apartheid del Sudafrica discriminava i suoi cittadini neri, che erano pure la maggioranza della popolazione. Sono situazioni del tutto diverse, che vanno chiamate con termini diversi».

Chi sono oggi i fan sfegatati dei palestinesi, sia nella società civile che sulla stampa?
«Non voglio fare liste di proscrizione. Ma, a proposito della Curva Palestina, ho letto l’appello di alcune migliaia di professori universitari che parlano di un’occupazione illegale da parte di Israele da 75 anni e oltre. E così negano la risoluzione 181 dell’Onu, come se gli ebrei si fossero presi quei territori abusivamente. Ma negano anche l’occupazione egiziana dalla Striscia di Gaza e quella giordana della Cisgiordania dal 1948 al 1967 e perfino il ritiro israeliano da Gaza nel 2005. E non spiegano perché, se la risoluzione 181 che l’ha legittimato alla nascita non vale, dovrebbero valere soltanto quelle successive sul sacrosanto ritiro dai territori ancora occupati. Se questa ignoranza (o malafede, non saprei) monta in cattedra, che cosa potranno mai sapere e capire gli studenti? Anche per loro ho scritto il mio libricino. Per evitare che qualcuno pensi di risolvere la mancanza di uno Stato palestinese cancellando quello israeliano».

E di Israele?
«Quelli che stanno con Israele senza se e senza ma dicono che si sta difendendo, mentre si sta vendicando per il pogrom del 7 ottobre con un rapporto che ormai supera i dieci morti a uno. Dicono che sta combattendo il terrorismo, mentre lo sta rinfocolando e moltiplicando, e mette a rischio anche noi in Europa. Non riescono neppure a dire ciò che scrive ogni giorno la migliore stampa israeliana e ripetono le migliaia di manifestanti in Israele. Non ammettono che, con questa strage infinita di palestinesi a Gaza, Netanyahu è entrato di diritto nel club dei criminali di guerra e dovrà risponderne dinanzi alla Corte suprema israeliana e, se si sveglia, anche dinanzi alla Corte penale internazionale, oltre a fare il male del suo Paese e del suo popolo».

Netanyahu dovrebbe dimettersi?
«Subito. È il principale alleato di Hamas e il principale ostacolo a un negoziato per chiudere questa guerra dei cent’anni. D’altronde è la stessa storia della guerra in Ucraina…».

Cioè?
«Fino a qualche mese fa, se dicevi che Russia e Ucraina dovevano sedersi a un tavolo per negoziare, passavi per un servo di Putin. Ora lo sostengono tutti perché adesso lo dicono gli americani. Sui giornali oggi tutti scrivono quello che scrivevano il professor Orsini e altri sul Fatto un anno e mezzo fa, finendo regolarmente nelle liste di proscrizione dei presunti putiniani».

Questo perché siamo servitori degli interessi Usa nel senso che, letteralmente, il nostro Paese fa quello che Washington gradisce?
«Esatto. Siamo colonizzati e felici di esserlo. Ma c’è di peggio: contiamo talmente poco che spesso gli americani si scordano pure di avvertirci dei contrordini e quindi rimaniamo fermi al penultimo ordine: continueremo a inviare armi a Zelensky quando Washington avrà smesso da un pezzo».

Israele è una sorta di avambraccio militare e politico Usa in Medio Oriente. È ugualmente colonizzato?
«Quando Israele nacque fu visto come uno Stato socialista. I più entusiasti per la nascita di Israele erano i sovietici, anche perché i padri fondatori erano tutti nati nella grande Russia. Ed essendo stati perseguitati dagli zar, erano simpatici ai bolscevichi. I kibbutz erano una forma di economia collettivista. E per 30 anni, da Ben Gurion a Eshkol, da Golda Meir a Rabin, Israele fu governato da socialisti. Fu il protrarsi della Guerra fredda a portare gli Usa ad appoggiare Israele contro la Lega araba sostenuta da Mosca. Ma Israele non è mai stata una colonia americana tout court: lo è molto più l’Italia, mai peraltro come sotto Draghi e Meloni».

Cosa passa nella testa di chi alimenta queste tifoserie contrapposte con messaggi strumentali?
«Ci vorrebbe uno psicologo per capire come mai, per certa gente, la vita di un bambino palestinese vale un decimo di quella, per esempio, di uno ucraino, di uno israeliano, di uno occidentale. La guerra in Ucraina è forse quella che ha avuto meno vittime civili in rapporto al numero complessivo dei morti. Il massacro di Gaza è incommensurabile: quanti militari israeliani e di Hamas sono morti tra quei 14-15 mila caduti in 50 giorni? Pochissimi. Questo doppiopesismo è ripugnante».

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