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Telecamere intelligenti, app digitali e persino controlli in casa: così il grande Fratello di Israele sorveglia la vita dei palestinesi

Immagine di copertina
Credit: AGF

La sorveglianza immaginata da Orwell è una realtà nei Territori occupati. Così l’esercito e i coloni di Israele hanno costantemente sotto controllo la popolazione locale

Yasser Abu Markha è un cittadino palestinese di 49 anni che vive con la moglie e quattro figlie nella cittadella vecchia del Khalil, in Cisgiordania. Nel 2021 Yasser è stato minacciato, perquisito e ha rischiato l’arresto da parte dell’esercito israeliano per colpa di un cucchiaio. La figlia di Yasser, 6 anni, giocando sulla terrazza che dà sul tetto, ha fatto cadere per strada un cucchiaio che le telecamere intelligenti hanno riconosciuto come un sasso, facendo scattare l’allarme immediato. Pochi minuti dopo, unità dell’esercito israeliano hanno fatto irruzione nell’abitazione di Yasser, perquisendo per ore la casa e sottoponendo a fermo l’intera famiglia. Basta un cucchiaio, una palla, un orologio, un qualsiasi oggetto scambiato per un sasso ed è la fine. Yasser racconta che «da quel giorno faccio fatica a socializzare, limito i contatti, perché siamo costantemente ripresi dalle telecamere. Anche in casa controllo i miei figli durante il gioco per evitare che qualcosa cada per sbaglio in strada, non abbiamo una privacy, è uno stress costante, un inferno».

S&D

Fotografare tutto e tutti
A partire dal 2020, all’interno dei regolari controlli che l’esercito israeliano svolge, durante il giorno e la notte, in tutta la Cisgiordania in strada e nelle abitazioni dei palestinesi, sono state introdotte nuove direttive per i militari, il compito di riprendere e fotografare tutti i fermati attraverso appositi smartphone. L’obiettivo è quello di raccogliere quante più fotografie possibili di palestinesi per costruire un enorme database utile alla creazione di un vasto sistema di controllo e sorveglianza degli spostamenti dei palestinesi h24 attraverso il tracciamento, l’associazione e il riconoscimento dei volti. 

Come riporta il Washington Post, i militari sono in costante gara per chi mappa più volti possibili: donne, uomini, anziani e bambini, il numero può raggiungere anche centinaia di foto per ogni soldato. E più foto vengono scattate e più si viene premiati come con una notte libera dal turno di servizio o l’alleggerimento dei propri compiti nell’unità.

Ma la sorveglianza dei palestinesi non è un’idea nuova. Il costante monitoraggio delle famiglie della zona nasce con l’occupazione britannica della Palestina e la creazione nel 1916 del “Arab Bureau”, ufficio di raccolta informazioni dei servizi militari di Londra che negli anni traccia le famiglie palestinesi inserendo età, numero dei componenti della famiglia, professione, appartenenze politiche e punti di forza e debolezza di ogni singola persona, dopo colloqui individuali e di gruppo. Un enorme archivio sulla vita dei palestinesi che viene passato nel 1948 ai servizi israeliani che lo ampliano, aggiornano ed estendono negli anni sfruttando la tecnologia di telecamere e radar per aumentare gli effetti del controllo sui loro movimenti, spostamenti, abitudini ma anche suoni e rumori in un inquietante Grande Fratello a cielo aperto.

Città Vecchia, tecnologia nuova
In Cisgiordania, a partire dal 2000, Israele installa Israele migliaia di telecamere a circuito chiuso per il controllo dei volti e degli spostamenti dei palestinesi con una cadenza capillare: secondo Amnesty International, che ha condotto una mappatura nell’area di Gerusalemme-Est, ci sarebbe una telecamera ogni 5 metri. Questo sistema di sorveglianza noto come Mabat 2000, servirebbe per riconoscere potenziali pericoli per l’esercito israeliano, ma secondo Amnesty sarebbe un’ulteriore violazione sistematica dei diritti dei palestinesi utile a relegarli e ad aumentare l’apartheid, oltre a reprimere il dissenso.

Le migliaia di telecamere servirebbero infatti per la sistematica azione di riconoscimento, fermo e arresto di palestinesi che partecipano a manifestazioni contro gli insediamenti israeliani o espropriazioni di abitazioni a Gerusalemme da parte dei coloni. Nel 2021, come documenta l’ong, a seguito delle proteste palestinesi contro i coloni, il numero di telecamere con riconoscimento facciale installate nelle aree di Silwan e Sheikh Jarrah a Gerusalemme, è aumentato, in un tentativo di controllo costante e senza precedenti.

Smart city e “zanzare”
Al Khalil o Hebron, è il laboratorio perfetto per il sistema di sorveglianza israeliano, tanto da essere definita la città intelligente per il vasto sistema di sorveglianza. Un migliaio di telecamere piantate sopra le abitazioni forniscono in tempo reale immagini degli spostamenti abituali dei cittadini e sono capaci di intercettare comunicazioni e registrare anche all’interno di case private. Issa Amro, rappresentate del comitato “Amici di Hebron” da anni accusa la distruzione della vita privata dei palestinesi causata da questo sistema: «Da quando esci di casa a quando rientri sei ripreso costantemente, i soldati ti fermano e ti fanno foto durante tutta la giornata».

Altri raccontano di non sentirsi più a loro agio quando sono all’aperto, cosa che li ha spinti ad abbandonare le loro case, occupate poi dai coloni. Altri ancora affermano di sentirsi costantemente sotto stress e di avere paura di essere uccisi. Sì, perché oltre alle telecamere ci sono anche i droni che tracciano i movimenti a Hebron, così come nell’intera Cisgiordania e a Gaza. Il loro ronzio è chiamato dai palestinesi “la Zanzara” e la presenza costante di droni in un’area significa una cosa sola: presto verrà colpita.

I cittadini di Gaza conoscono bene i droni. Dal 2005 sorvolano i cieli della Striscia creando un costante ronzio di notte e di giorno che, come denuncia Medici senza Frontiere, genera nei civili ansia, stress, paura, insonnia, depressione e disturbi del comportamento.

La carica dei lupi online
La raccolta di milioni di immagini, video e dati da tutta la Cisgiordania e Gaza confluiscono in un enorme database chiamato Wolf Pack. Diviso a sua volta in tre aree: Red Wolf, Blue Wolf e White Wolf. Il Red Wolf è il database utilizzato per il controllo ai valichi e ai check-point. Tutta la Cisgiordania è disseminata di torri di controllo e valichi che costringono i palestinesi a controlli costanti, anche per recarsi a lavoro o a scuola. 

Il Red Wolf, attraverso il riconoscimento visivo, riconosce la persona e la associa a un colore: verde puoi passare, giallo vieni sottoposto a fermo e controllo per un tempo indefinito, rosso potresti essere arrestato per attività sovversive contro l’occupazione o scontri con l’esercito israeliano. Il Blue Wolf svolge lo stesso lavoro di identificazione e controllo ma attraverso un’applicazione installata sugli smartphone dei militari israeliani che attraverso l’inserimento della foto del fermato nella app possono procedere al fermo.

Il White Wolf è invece una copia del modello usato dall’esercito israeliano, donato da Tel Aviv ai coloni per il riconoscimento e la denuncia dei cittadini palestinesi. Quest’ultimo sistema di sorveglianza viene spesso utilizzato dai datori di lavoro israeliani per permettere o meno l’ingresso dei lavoratori palestinesi all’interno degli insediamenti.

Secondo Avner Gvaryahu, direttore esecutivo di Breaking the Silence, l’ong israeliana impegnata contro gli abusi dell’esercito, il Wolf Pack è solo: «Un altro strumento di oppressione e sottomissione del popolo palestinese. Per il governo e l’esercito israeliano i diritti umani fondamentali dei palestinesi sono semplicemente irrilevanti».

Riprese costanti, sorveglianza, tracciamento delle abitudini, controllo dentro e fuori casa: Il Grande Fratello di Orwell è già qui, il Grande Fratello è in Palestina. 

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