La lettera degli esperti mondiali di commercio internazionale di armi a difesa di Francesca Albanese
Dal Sudafrica agli Stati Uniti, dall’Europa all’Italia: studiosi e attivisti contestano le sanzioni contro la relatrice ONU e puntano il dito contro governi e colossi militari
Quando il deputato Andrew Feinstein lasciò il parlamento sudafricano, dopo anni passati accanto a Nelson Mandela, decise che la sua battaglia non sarebbe più stata contro l’apartheid, ma contro un sistema altrettanto oscuro: il commercio internazionale di armi. Oggi, insieme a giornalisti, accademici e attivisti da Stati Uniti, Europa e Medio Oriente, ha firmato una lettera che difende Francesca Albanese, la relatrice speciale ONU finita nel mirino di governi potenti per il suo rapporto sul genocidio di Gaza. Non è solo un gesto di solidarietà personale: è l’accusa diretta a un’economia globale che trasforma i conflitti in affari e che, secondo questi esperti, rende complici i governi occidentali delle stragi palestinesi. Un sostegno che arriva in un momento delicato: Albanese è infatti finita sotto sanzioni del governo statunitense, che le ha congelato i beni e vietato i contatti istituzionali, chiedendone addirittura le dimissioni dall’incarico.
Il rapporto contestato
Nel suo studio “From Economy of Occupation to Economy of Genocide”, Albanese mette a nudo la rete di complicità che lega produttori di armi, aziende tecnologiche e governi occidentali all’offensiva militare israeliana. Secondo la relatrice ONU, non solo le grandi industrie belliche – come Lockheed Martin e Leonardo – ma anche colossi tecnologici come Palantir, Microsoft, Amazon e Alphabet hanno contribuito con servizi e tecnologie alla campagna di bombardamenti e sorveglianza che ha causato decine di migliaia di morti palestinesi.
Le accuse degli esperti
La lettera parla di “genocidio perpetrato a Gaza con la partecipazione attiva dei governi occidentali e dei loro produttori di armi”, denunciando un meccanismo perverso: le armi testate sul campo nei Territori occupati diventano poi strumenti di marketing per le stesse aziende, che vedono aumentare profitti e quotazioni in borsa.
Gli esperti firmano la lettera anche come risposta alle misure punitive imposte da Washington contro Albanese: una decisione definita “straordinaria” e senza precedenti, che segna una frattura nella relazione tra gli Stati Uniti e i relatori speciali ONU. Per i firmatari si tratta di un tentativo di “sopprimere” il suo lavoro, giudicato invece “accurato, forense e cruciale”. Il sostegno mira quindi a rafforzare non solo la sua persona ma l’autonomia dell’intero sistema delle Nazioni Unite.
Italia sotto i riflettori
La presenza di Leonardo, colosso anglo-italiano della difesa, tra le aziende citate nel rapporto, porta il tema direttamente nel dibattito italiano. L’Italia, tra i principali esportatori europei di armi, è chiamata a confrontarsi con la contraddizione tra gli obblighi internazionali e i propri interessi economici. Gli esperti chiedono un’applicazione rigorosa dei controlli sulle esportazioni previsti dal Trattato internazionale sul commercio di armi e dalla Posizione comune dell’UE, che vieterebbero vendite a paesi coinvolti in violazioni sistematiche dei diritti umani.
Il peso politico della lettera
Il sostegno a Francesca Albanese non arriva da attivisti qualunque, ma da alcuni tra i più autorevoli esperti di commercio di armi e relazioni internazionali. La lista dei firmatari è infatti un mosaico che unisce accademici, ex funzionari governativi, giornalisti e attivisti di primo piano. C’è, come premesso, Andrew Feinstein, ex deputato sudafricano vicino a Nelson Mandela e oggi tra i massimi studiosi del commercio mondiale di armi, autore del saggio di riferimento The Shadow World. Ci sono nomi come William Hartung, ricercatore del Quincy Institute di Washington e per anni analista del Pentagono, e Daryl Kimball, direttore esecutivo dell’Arms Control Association, una delle organizzazioni più influenti sul disarmo negli Stati Uniti. Dall’Europa spiccano figure come Jürgen Grässlin, giornalista tedesco che ha documentato i profitti della Germania nelle guerre, e Laëtitia Sédou della rete europea contro il commercio di armi (ENAAT). A firmare ci sono anche esperti legati alle Nazioni Unite e al mondo accademico, come Paul Rogers, professore emerito di studi sulla pace a Bradford, e Anna Stavrianakis, docente di relazioni internazionali all’Università del Sussex.
La presenza di profili così diversificati – dall’attivismo pacifista al mondo accademico, passando per ex funzionari e analisti delle politiche militari – conferisce alla lettera un peso politico che va oltre il sostegno personale ad Albanese. È un atto che mette in discussione l’architettura stessa delle politiche occidentali in materia di difesa, facendo emergere una contraddizione evidente: i governi che si presentano come garanti della pace internazionale sono spesso anche i principali fornitori di armi nei conflitti ( e su The Post Internazionale abbiamo spesso illustrato le spese militari esorbitanti di alcuni Stati).
È questa la contraddizione più evidente che la lettera mette in luce: da un lato le dichiarazioni solenni nelle sedi diplomatiche, gli appelli alla de-escalation e al rispetto del diritto umanitario; dall’altro le autorizzazioni all’export di missili, droni e sistemi d’arma che finiscono direttamente nei teatri di guerra. Stati Uniti, Unione Europea e persino l’Italia, che in Costituzione ripudia la guerra, continuano a comparire nelle classifiche dei principali esportatori globali, garantendo forniture miliardarie a paesi coinvolti in conflitti e violazioni sistematiche dei diritti umani. Una doppiezza che non riguarda solo la politica estera ma anche l’economia interna, perché il settore bellico rappresenta per molti governi un motore industriale e occupazionale difficile da mettere in discussione.
La lettera, dunque, apre un fronte scomodo per i governi occidentali, Italia compresa: può una democrazia sostenere la pace e i diritti umani e al tempo stesso alimentare, con le proprie industrie, un conflitto che l’ONU definisce genocidario? La risposta, sostengono gli esperti, non può più essere rimandata.
Il testo della lettera
Il commercio di armi è descritto come un business che conteggia i propri profitti in miliardi, mentre le sue perdite si misurano in vite umane. In nessun altro luogo ciò è stato più evidente che durante il genocidio perpetrato a Gaza con la partecipazione attiva dei governi occidentali e dei loro produttori di armi, delle aziende tecnologiche e di varie altre società private. Questi produttori hanno registrato un aumento significativo dei profitti e dei prezzi delle proprie azioni, mentre decine di migliaia di palestinesi sono stati massacrati utilizzando i loro prodotti. La Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, ha pubblicato un rapporto sul ruolo delle aziende nel genocidio. Il lavoro dal titolo “From Economy of Occupation to Economy of Genocide” (Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio) è un documento approfondito, dettagliato, accurato ed estremamente importante che mette a nudo la complicità delle aziende nel genocidio in corso.
Il rapporto identifica i produttori di armi tradizionali complici, nonché le aziende tecnologiche il cui coinvolgimento nella guerra in generale, e in particolare nella sorveglianza e nell’individuazione degli obiettivi, è cresciuto in modo esponenziale: mentre le aziende israeliane Elbit Systems e Israel Aerospace Industries (IAI) occupano un posto di rilievo, lo stesso vale per i colossi occidentali dell’industria degli armamenti, Lockheed Martin e l’azienda anglo-italiana Leonardo, insieme a molte altre che forniscono il materiale militare che ha causato i massacri di Gaza. Inoltre, come chiarisce il rapporto, queste aziende consentono che i loro prodotti siano “testati in battaglia” nei territori palestinesi occupati (OPT) e basano le loro successive strategie di marketing sui danni devastanti causati. Il Rapporto sottolinea anche la rete di intermediari che rendono possibile questo commercio di armi, dalle società legali, di revisione contabile e di consulenza, ai commercianti di armi, agli agenti e ai broker, ai fornitori di robotica come la giapponese FANUC Corporation e ai fornitori di servizi logistici come A.P. Moller – Maersk A/S.
Le aziende tecnologiche, in particolare, sono diventate protagoniste del conflitto. Nel contesto di Gaza, Palantir ha svolto un ruolo centrale nell’individuazione mirata di individui, famiglie e gruppi. Molte altre aziende, tra cui IBM, Microsoft, Amazon e Alphabet, forniscono una serie di servizi all’esercito israeliano che contribuiscono alla perpetrazione del genocidio. Il Rapporto suggerisce che oltre 1.650 aziende private siano complici nella sola produzione di un unico sistema d’arma: il jet da combattimento F-35. Ciò indica una rete di complicità aziendale di dimensioni molto più vaste. Questa include istituzioni finanziarie, società di consulenza globali, aziende energetiche, logistiche e di attrezzature, tra cui entità ben note come Caterpillar, BNP Paribas, Barclays, Allianz, Chevron, BP, Petrobras e A.P. Moller-Maersk A/S.
A seguito della straordinaria decisione del Governo statunitense di sanzionare la signora Albanese e di chiedere le sue dimissioni, nonché dei tentativi di sopprimere il suo eccellente Rapporto, noi, in qualità di esperti leader nel commercio di armi a livello globale, desideriamo esprimere il nostro forte sostegno alla signora Albanese e la nostra assoluta fiducia in quello che consideriamo un Rapporto accurato dal punto di vista forense e di cruciale importanza, e chiediamo alle Nazioni Unite di respingere le richieste irrazionali e sconsiderate dei governi statunitense e israeliano, i partecipanti più attivi al genocidio in corso a Gaza.
È inaccettabile per noi che i produttori di armi, con il sostegno dei loro governi, violino i propri controlli interni sulle esportazioni di armi, gli accordi regionali e internazionali come la posizione comune dell’UE sulle esportazioni di armi e il Trattato internazionale sul commercio delle armi, nonché le loro responsabilità ai sensi dei Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, che implicano le più gravi norme giuridiche internazionali. Chiediamo che i controlli sulle esportazioni di armi siano applicati a livello nazionale, regionale e internazionale, il che deve portare alla cessazione immediata delle vendite di armi a Israele fintanto che il genocidio continua. Appoggiamo quindi l’appello del Gruppo dell’Aia a impedire la fornitura o il trasferimento di armi, munizioni, carburante militare, attrezzature militari correlate e beni a duplice uso a Israele, compreso il transito, l’attracco e la manutenzione delle navi, ed esortiamo tutti gli altri Stati a fare lo stesso.
FIRMATARI DELLA LETTERA
Jeff Abramson Senior Non-Resident Fellow, Center for International Policy, US
Ray Acheson Director, Reaching Critical Will programme at Women’s International League for Peace and Freedom (WILPF), US
Charles O. Blaha Senior Advisor, DAWN; Former State Department Official, US
Tariq Dana Associate Professor of Conflict Studies, Doha Institute for Graduate Studies, Qatar
Wendela de Vries Co-founder, Stop Wapenhandel, Netherlands
Andrew Feinstein Author ‘The Shadow World: Inside the Global Arms Trade’, Executive Director, Shadow World Investigations. UK/South Africa
Jürgen Grässlin Author, ‘Black Book Arms Trade: How Germany Profits from War’, Germany
Jeff Halper Author: “War Against the People: Israel, the Palestinians and Global Pacification”; Director, The Israeli Committee Against House Demolitions (ICAHD), Israel
William Hartung Senior Research Fellow, Quincy Institute for Responsible Statecraft, US
Shir Hever Scholar of Israel’s Political Economy, Germany
Roy Isbister Chief, Arms Unit, Saferworld, New Zealand/UK
Daryl G. Kimball Executive Director, Arms Control Association, US
Hans Lammerant Arms Trade & Business & Human Rights Expert, Belgium
Antony Loewenstein Author ‘The Palestine Laboratory’, independent journalist and filmmaker, Australia
Shana Marshall Assistant Research Professor, Elliott School of International Affairs at the George Washington University, US
Nancy Okail President and CEO, Center for international Policy, US
Sam Perlo-Freeman Research Coordinator, Campaign Against Arms Trade, UK
Paul Rogers Emeritus Professor, Peace Studies, Bradford University, UK
Laëtitia Sédou Project Officer, European Network Against Arms Trade, Belgium/France
Frank Slijper Arms Trade expert at PAX, Netherland
Emma Soubrier Director, Pathways to Renewed & Inclusive Security in the Middle East (PRISME), France
Anna Stavrianakis Professor of International Relations, Sussex University, UK
Francesco Vignarca Campaigns Coordinator, Italian Peace and Disarmament Network, Italy
Sarah Leah Whitson Executive Director, DAWN, US
I volti dietro la lettera
Non è una lista qualsiasi quella che ha scelto di sostenere Francesca Albanese. C’è Andrew Feinstein, ex deputato sudafricano vicino a Nelson Mandela, che dopo aver lasciato la politica ha dedicato la vita a svelare i segreti del commercio d’armi in libri e documentari. C’è William Hartung, uno dei massimi esperti americani di spesa militare, spesso ascoltato nei comitati del Congresso. Insieme a loro Daryl Kimball, alla guida dell’Arms Control Association, organizzazione che da Washington influenza da decenni i dibattiti su disarmo e non proliferazione. Dall’Europa arrivano firme storiche come Jürgen Grässlin, giornalista tedesco che negli anni Novanta fece tremare i colossi industriali con le sue inchieste, e Paul Rogers, professore di Peace Studies a Bradford, definito “l’enciclopedia vivente” dei conflitti contemporanei. Per l’Italia, infine, spicca Francesco Vignarca, volto noto delle campagne per la pace e coordinatore della Rete Italiana Pace e Disarmo, capace di portare il tema delle esportazioni belliche perfino nelle aule parlamentari.