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Home » Esteri

Paul De Grauwe: ‘Non dovevamo fare l’Euro’

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L'Europa non avrebbe mai dovuto adottare una moneta comune. Ora l'unica soluzione è più unione fiscale. L'intervista di Davide Lerner

Sul New York Times Paul Krugman ha scritto che nessuno come il professor De Grauwe è stato in grado di fare luce sulla crisi dell’Eurozona.

Nel suo ufficio della London School of Economics il sessantottenne economista belga lo chiama “il mio caro amico d’oltreoceano” e racconta di condividere moltissime opinioni con il celebre collega americano.

Come Krugman, Paul De Grauwe è un acerrimo nemico delle politiche di austerity. Per uscire dalla crisi, sostiene, bisogna investire e stimolare la crescita.

Secondo De Grauwe, la Banca centrale europea dovrebbe stampare moneta senza esitazione, comprando bond di debito sovrano. Per questo gli economisti tedeschi lo hanno soprannominato Don Chisciotte. Ma rimane uno degli economisti più rispettati del Vecchio Continente.

The Post Internazionale lo ha raggiunto per sottoporgli una profezia di Jean Monnet, uno tra i padri fondatori dell’Ue: “l’Europa si forgerà nelle crisi e sarà il risultato delle soluzioni sviluppate per superarle”.

È lecito sperare che il barcollare sull’orlo della Grexit funga da forza propulsiva nel processo d’integrazione europeo? Oppure, al contrario, gli sarà fatale? 

Professore, ora l’accordo sembra più vicino, ma lo scontro con Syriza era inevitabile?

Inevitabile è una parola forte, ma di sicuro le politiche della troika hanno preparato il terreno affinché si concretizzasse. Secondo i miei calcoli il moltiplicatore di una politica fiscale restrittiva in un momento di crisi è pari a 1.4: per capirci, ne consegue che un miglioramento dell’avanzo primario di un punto percentuale si traduce in una contrazione del Pil di almeno 2.8 per cento.

Dal punto di vista del rapporto debito-Pil, ogni sforzo si trasforma in un atto di puro masochismo perché l’austerity riduce il Pil al denominatore. La Grecia, che con la cura ha pagato un prezzo altissimo in termini di recessione e disoccupazione, si ritrova infatti con un rapporto debito-Pil spaventosamente aumentato (ha raggiunto il 172 per cento, ndr) nonostante le politiche che il ministro delle Finanze Varoufakis ha definito waterbording fiscale. Non stupisce, insomma, che la gente si stufi e voti per farla finita con questi programmi. 

E ora che succede? Varoufakis ha proposto dei bond indicizzati al Pil.

I creditori dovrebbero rassegnarsi e agire in modo razionale: troppa inflessibilità potrebbe significare ritrovarsi improvvisamente a mani vuote. Per quanto riguarda la proposta di Varoufakis non bisogna dimenticare che i bond legati alla crescita trasferiscono una significativa porzione di rischio dallo stato all’investitore: se l’economia non ingrana è lui a farne le spese.

Maggiore rischio significa che l’interesse medio sarebbe superiore a quello dei bond convenzionali, che lasciano gravare il pericolo di recessione sulle spalle dello stato. Insomma, anche qualora la Germania desse l’ok, l’impatto sarebbe marginale, nulla di risolutivo. 

L’Europa era un’”area valutaria ottimale”, cioè una regione adatta alla moneta comune?

Ormai è evidente che l’Europa non era un’area valutaria ottimale, non risponde ai requisiti di omogeneità dei mercati del lavoro e non c’è sufficiente solidarietà per compensare le divergenze. L’unificazione monetaria è figlia di impeti politici piuttosto che di valutazioni di carattere economico. In altre parole, non dovevamo fare l’euro.

D’altronde lo stesso Robert Mundell (il premio Nobel che inaugurò la teoria dell’area valutaria ottimale, ndr) evidenziava il problema di un’incongruenza fra contingenze politiche e logiche di sovranità monetaria. I Paesi dell’Eurozona si trovano in una condizione di grave fragilità nei confronti dei mercati finanziari, perché sono costretti a emettere debito in una valuta che non controllano e non hanno una banca centrale che possa intervenire sul mercato del debito.

Si guardi per esempio alla Spagna, che nonostante avesse un debito sovrano inferiore a quello dell’Inghilterra, si è dovuta finanziare a tassi più alti a causa dei mercati che percepivano un suo default come più probabile. Spalleggiata da una propria banca centrale, l’Inghilterra ha fatto meno austerity e, grazie anche alla svalutazione della sterlina, è tornata a crescere rendendo il suo debito più sostenibile.

E adesso che si può fare?

L’Europa è a un bivio. O si va nella direzione di una maggiore integrazione fiscale, oppure è meglio che ognuno vada per la propria strada. Con una Grexit sempre più vicina la seconda ipotesi mi pare la più probabile. I vantaggi di un’unione fiscale sarebbero però molteplici. Non solo si supererebbe il problema del rifinanziamento dei debiti, attraverso la condivisione del rischio, ma la centralizzazione potrebbe neutralizzare gli shock asimmetrici all’interno dell’area euro con dei trasferimenti fiscali.

Certo, la transferunion è l’incubo dei tedeschi, che giustamente pongono la questione dell’azzardo morale (la tendenza di chi è assicurato a intraprendere comportamenti rischiosi, ndr). Temono cioè che tali trasferimenti possano trasformarsi da congiunturali a strutturali, diventando una pratica permanente che li svantaggia.

Come avviene in Italia fra il nord e il Mezzogiorno, per capirci, o anche nel mio paese, il Belgio. Ai detrattori sfugge però che a livello europeo il rischio di azzardo sarebbe molto più contenuto: mentre nelle singole nazioni il budget unificato medio è attorno al 50 per cento, a livello europeo sarebbe rivoluzionario arrivare al 10-15 per cento partendo dall’1 per cento attuale. Oggi manca la volontà politica, ma nel lungo termine la cessione di sovranità è l’unica via per restare uniti.

Nel lungo termine, commenterebbe Keynes, siamo tutti morti.

Nel breve termine bisogna lavorare su politiche macroeconomiche, e in particolare venire subito fuori dalla deflazione. Un’altra buona idea che è circolata sono gli Eurobond, ma il veto tedesco mi pare li abbia fatti sparire dall’agenda.

Emettendo bond collettivi fino al 60 per cento del debito e individuali al di là della soglia si prenderebbero due piccioni con una fava: da una parte si conterrebbe il costo medio del rifinanziamento, dall’altra aumenterebbe il costo marginale del debito “in eccesso” contrastando il fenomeno dell’azzardo morale. 

La BCE sta facendo abbastanza?

Per rispondere basta immaginare una casa che va a fuoco e dei pompieri che, giunti sul posto, decidono di non spegnere l’incendio per paura di istigare all’azzardo morale. Questo è l’atteggiamento della BCE, che con la Grecia fa il poliziotto invece di fare il pompiere.

Devi pensare che la Banca Centrale è come Dio (De Grauwe ride, ndr), cioè può creare denaro dal nulla a differenza di tutte le altre banche. Non corre il pericolo di diventare insolvente o fare default: se tiene a bilancio i bond che acquista è solo per una convenzione contabile, ma potrebbe buttarli direttamente nel tritacarte. Certo, tale pratica implicherebbe il rischio di creare inflazione, ma in questa fase d’inflazione ce n’è un bisogno urgente! 

Come dimostra il Quantitative Easing di Mario Draghi…

In un libro del 1961 Milton Friedman spiegava che la grande depressione fu così intensa anche perché la Federal Reserve non agì da prestatore di ultima istanza e non fu più decisa nell’espandere la base monetaria. Era ora, insomma, che la BCE si muovesse per contrastare la deflazione.

L’ostruzionismo tedesco si basa sulla convinzione erronea che il Quantitative Easing porti la BCE ad agire ultra vires, mischiando la politica monetaria di sua competenza con quella fiscale. Comprando bond di paesi a rischio default, sostengono i tedeschi, la Banca Centrale si espone al rischio di perdite che qualora fossero superiori al capitale sociale imporrebbero agli stati membri una ricapitalizzazione mediante le tasse dei propri cittadini. In realtà invece la Banca Centrale può permettersi di coprire buchi di bilancio a costo zero: gettando i bond divenuti carta straccia nel tritacarte non danneggerebbe nessuno.

Eliminarli rappresenterebbe un problema solo nella circostanza in cui la BCE ne avesse un bisogno imprescindibile per attuare una politica di contrasto all’inflazione: nulla di più improbabile. Per quanto riguarda i bond acquistati attraverso il QE che rimangono sul bilancio della BCE, per di più, la redistribuzione fiscale avviene casomai a svantaggio degli stati che pagano interessi più alti (la redistribuzione degli utili segue le quote di partecipazione delle banche centrali nazionali, ndr).

Nulla che debba far preoccupare Berlino, anzi! Per come è strutturato il QE di Mario Draghi, tuttavia, questo avviene solo per il 20 per cento dei bond per cui è prevista la condivisione del rischio. Il restante 80 per cento rimane sul bilancio delle banche centrali nazionali, in modo da placare le ansie dei tedeschi. Gli stati che pagano tassi più elevati riceveranno perlopiù utili proporzionati dalla propria banca nazionale, in una sorta di partita di giro.

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