Shari’a & sanzioni: l’economia dell’Afghanistan è in ginocchio
Da un lato le politiche dei talebani che escludono le donne e aumentano le tasse ai piccoli agricoltori. Dall’altro le misure punitive degli Usa e lo stop degli aiuti dall’estero. E ora anche un terremoto devastante. Viaggio nelle tante crisi dell'Afghanistan. Dove 7 persone su 10 vivono in povertà estrema
Il giorno di Ferragosto del 2021, nelle concitate ore in cui Kabul riprecipitava nelle mani dei talebani, Ajmal Ahmady, governatore della Banca Centrale dell’Afghanistan, fuggì dal Paese in modo rocambolesco: stando alla sua stessa testimonianza, i suoi più stretti collaboratori lo spinsero letteralmente dentro un aereo militare in decollo, sul quale arrivò con una scarpa sola e senza bagagli. Poche ore dopo essere atterrato in una località segreta, l’economista, 43 anni, afghano cresciuto negli Stati Uniti e laureatosi a Harvard, pubblicò su Twitter un lungo messaggio per chiarire la situazione delle riserve internazionali della banca centrale. Il tweet, diventato virale in tutto il mondo, si concludeva con queste parole: «I talebani hanno vinto militarmente, ma ora devono governare. Non è facile».
Quattro anni dopo, il monito dell’ormai ex governatore si conferma fondato, anche se le responsabilità per la grave situazione in cui versa l’Afghanistan non sono tutte ascrivibili direttamente agli studenti coranici.
Oggi si stima che il 70% degli afghani – 31 milioni di persone su una popolazione di 45 milioni – viva in condizioni di estrema povertà. Il Pil pro-capite – 429 dollari – è tornato sui livelli del 2009. Chiusa l’impennata inflattiva seguita al ritorno al potere dei talebani, il Paese è caduto in una profonda deflazione: nel 2024 l’indice dei prezzi al consumo ha registrato -6,6% e solo negli ultimi mesi c’è stata una timida risalita.
Il terremoto che lo scorso 31 agosto ha fatto oltre 1.400 vittime è stato – secondo le parole di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati – come una «tempesta perfetta» per una nazione che sta già attraversando «molteplici crisi». Il sisma, ha facilmente pronosticato Grandi, «non farà che aumentare la miseria».
Prima del 2021
Anche prima della restaurazione della Shari’a, non è che gli afghani navigassero nell’oro. Nel corso del ventennio successivo all’invasione degli Stati Uniti, il Prodotto interno lordo del Paese era, sì, quintuplicato, ma la crescita era stata trainata quasi esclusivamente dalle ingenti sovvenzioni pompate da Occidente – organizzazioni internazionali e istituzioni statali – che erano arrivate a finanziare i tre quarti della spesa pubblica di un governo fortemente centralizzato.
Nell’aprile 2021, quattro mesi prima della caduta di Kabul, la Banca Mondiale annotava: «L’economia afghana è caratterizzata da fragilità e dipendenza dagli aiuti». E aggiungeva che il settore privato era ostacolato da «insicurezza, instabilità politica, istituzioni deboli, infrastrutture inadeguate, corruzione diffusa».
Mentre la comunità internazionale capitanata da Washington inondava di soldi i governi di Hamid Karzai e Ashraf Ghani, nelle retrovie i talebani si riorganizzavano e preparavano la riscossa, sostenendosi principalmente con i ricavi generati dal traffico di oppio, e poi, progressivamente, anche con l’imposizione di gabelle nelle zone rurali via via conquistate.
Dopo la restaurazione
Con la rivincita dei fondamentalisti islamici si è aperta una nuova fase di crisi economica e umanitaria. Attualmente quasi 10 milioni di afghani soffrono di grave insicurezza alimentare e 4,6 milioni tra madri e bambini sono colpiti da malnutrizione. La disoccupazione viaggia al 13% e nei giovani tra i 15 e i 29 anni arriva al 22%, una percentuale da bollino rosso per un società in cui l’età media è 17 anni. Inoltre, le rigide restrizioni imposte al genere femminile hanno comportato la chiusura di molte piccole attività economiche rette da donne, come bagni pubblici, saloni di bellezza, sartorie: la deliberata esclusione di questa metà della popolazione dalla vita economica del Paese ha un impatto stimato in quasi un miliardo di dollari tra il 2024 e il 2026.
È evidente che le politiche oscurantiste dei talebani abbiano frenato lo sviluppo del Paese, ma all’origine delle disgrazie economiche dell’Afghanistan di oggi ci sono anche e soprattutto le sanzioni imposte dall’Occidente, prime fra tutte quelle adottate dagli Stati Uniti che hanno congelato le riserve valutarie offshore della Banca Centrale di Kabul.
Non solo. La drastica riduzione degli aiuti dall’estero ha dimezzato le entrate del governo, provocando diffuse interruzioni dei servizi pubblici. Le casse dello Stato sono vuote al punto che lo scorso aprile la guida suprema Hibatullah Akhundzada ha annunciato di fatto lo smantellamento del sistema pensionistico per i dipendenti pubblici.
Dopo il catastrofico -21% del 2021 e il -6% del 2022, da tre anni il Pil ha ripreso lentamente a crescere (+2,5% nel 2024). Tuttavia il sentiero che conduce alla ripresa è lastricato di incognite. L’Undp, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, rileva che le aree rurali, dove vivono più di due terzi della popolazione, rimangono «significativamente private di servizi essenziali come l’assistenza sanitaria e i servizi igienico-sanitari, e sono prive di mezzi di sussistenza sostenibili».
Secondo Faris Hadad-Zervos, direttore della Banca Mondiale per l’Afghanistan, «sebbene l’economia afghana mostri segni di ripresa, continua a essere frenata da notevoli difficoltà fiscali, con la mobilitazione delle entrate interne che si rivela insufficiente a compensare il calo degli aiuti». Questo è un punto cruciale. Con il venir meno gli aiuti dall’estero e le difficoltà a contrarre debito pubblico a causa dell’isolamento internazionale, i talebani si sono trovati quasi costretti a reperire liquidità alzando le tasse. O meglio: nel tentativo di favorire la crescita, gli studenti coranici, da un lato, hanno concesso svariate esenzioni fiscali alle imprese, ma, dall’altro, hanno stretto la morsa nei confronti degli strati più bassi della popolazione principalmente attraverso l’imposizione dell’ushr e dello zakat, due balzelli tradizionali del mondo islamico, che gravano l’uno sugli agricoltori e l’altro sul patrimonio. Risultato: nel primo quadrimestre del 2025 le entrate fiscali sono aumentate del 22% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Ma in un contesto già gravato dalla deflazione, alzare le tasse ha l’effetto di comprimere ulteriormente i consumi, il ché è particolarmente grave per un Paese che cronicamente importa molto più di quanto esporta. A ciò si aggiunge poi l’ostinata politica monetaria adottata a partire dal 2023 dalla Banca Centrale, che, nel pur comprensibile tentativo di difendere il potere d’acquisto della valuta nazionale (l’afghani), ha ridotto la liquidità circolante. Con il prevedibile effetto di contrarre ancor più l’economia.
I traffici illeciti
Piuttosto complesso è invece misurare l’impatto sull’economia afghana che riveste oggi il papavero da oppio. E ancor più difficile è stabilire il peso che avrà domani.
A partire dagli anni Novanta del secolo scorso l’Afghanistan è stato per tre decenni il maggior esportatore mondiale di eroina, con una quota di mercato superiore al 70%. A fine 2021 l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (Unodc) stimava che il valore degli oppiacei prodotti nel Paese fosse compreso tra gli 1,8 e i 2,7 miliardi di dollari, una forbice corrispondente a una percentuale tra il 9 e il 14% del Pil nazionale e superiore al totale delle esportazioni lecite afghane in beni e servizi.
Tuttavia due anni fa i talebani – che pure fino a quel momento erano stati tra i maggiori beneficiari indiretti di quei traffici, attraverso l’imposizione di tasse ad agricoltori, produttori e narcotrafficanti – hanno deciso per motivi religiosi di vietare la coltivazione del papavero da oppio. È stata ordinata la distruzione dei raccolti. Così nel 2024 la produzione di oppio in Afghanistan è crollata del 93% rispetto al 2022.
Il divieto imposto dal governo ha fatto impennare i prezzi, aumentati addirittura di dieci volte nel giro di un biennio (dai 75 dollari al chilo del 2022 ai 750 del 2024). E a trarne profitto sono stati coloro che tengono le mani sulle ingenti scorte, che si ritiene siano complessivamente sufficienti a soddisfare la domanda fino al 2027. Parliamo di grandi proprietari terrieri e trafficanti spesso vicini ai talebani.
Al contrario, la maggior parte degli agricoltori ha patito gravi conseguenze per la mannaia che si è abbattuta sulle piantagioni di papavero. Anche perché, diversificando le coltivazioni, è impossibile raggiungere gli stessi risultati: l’oppio garantisce ricavi fino a 60 volte superiore rispetto al grano.
Non c’è luce in fondo al tunnel
Quel che è tangibile, ancora oggi, è che il consumo di droghe è una piaga drammaticamente diffusa nella società afghana. Nel 2022, l’Unodc ha identificato 651 luoghi pubblici nel Paese – cimiteri, parchi, edifici abbandonati, terreni agricoli, aree sotto i ponti – in cui le persone si riuniscono abitualmente per fare uso di stupefacenti: più di 100 di questi siti si trovavano tra Kabul e Kandahar. Si stima che questi “punti caldi” siano frequentati da 27mila persone, tra cui 2.670 donne e 2.150 minori sotto i 15 anni, ma sono stati trovati fra i tossicodipendenti anche bambini sotto i 10 anni.
Sempre secondo l’Unodc, l’uso di stimolanti, che fino al 2009 era definito «trascurabile», adesso è diffuso in oltre metà della popolazione. Se il consumo di cannabis e oppio è andato diminuendo, quello di droghe iniettive – in primis ovviamente l’eroina – è quasi raddoppiato nell’ultimo decennio.
Ma, da quando i prezzi degli oppiacei sono esplosi, stanno prendendo sempre più piede anche composti sintetici come le metanfetamine. Il calo delle coltivazioni e produzioni di oppio «presenta opportunità e sfide complesse», ha affermato Ghada Waly, direttrice escutiva dell’Unodc. «È necessario coordinare gli sforzi internazionali per garantire che questo declino non venga sostituito dalla produzione di droghe sintetiche pericolose come la metanfetamina».
Per la responsabile dell’Ufficio Onu, «dobbiamo anche aiutare le comunità rurali che dipendono dalla coltivazione del papavero da oppio a passare ad alternative lecite ed economicamente sostenibili, investendo in infrastrutture, risorse agricole e mezzi di sussistenza sostenibili». Difficile, però, sostenere da fuori lo sviluppo dell’economia rurale afghana, finché il Paese continua a essere bersaglio di sanzioni internazionali (rispetto alle quali sono esentati solo gli aiuti di carattere umanitario). Molti ministri sono sottoposti a restrizioni che impediscono loro anche di viaggiare all’estero, mentre i beni della Banca Centrale sono ancora congelati.
Come ha osservato Roza Otunbayeva, capo della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama), il Paese «è isolato dalla comunità internazionale» e questo «rende più difficile governare». Il ché non solleva certo i talebani dalle loro responsabilità, ma crea una sorta di “effetto tenaglia” in cui a rimetterci sono i cittadini afghani. «Politiche inutilmente dure e un’allocazione di risorse che sembrano fortemente orientate verso le preoccupazioni di sicurezza piuttosto che verso le esigenze della popolazione – ha sintetizzato Otunbayeva – minano il benessere del popolo».