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Home » Esteri

“Per noi è come una violenza sessuale”: a TPI parlano le donne americane a cui è stato tolto il diritto all’aborto

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Credit: REUTERS/Leah Millis

Direttamente da New York, ecco le storie delle donne americane che, dalla mattina alla sera, si sono viste negare il diritto all’autodeterminazione sul proprio corpo. La sentenza della Corte Suprema può cambiare la vita a 40 milioni di loro. E c’è chi, spalle al muro, decide di sterilizzarsi

Sono le 7.30 del mattino e Rachel (nome di fantasia), 24 anni, è pronta ad uscire di casa. Il suo cellulare squilla: «Hanno appena ribaltato la sentenza Roe v. Wade. Dobbiamo cancellare il suo appuntamento». Il Planned Parenthood Health Center di Glendale, in Arizona, l’avverte che l’operazione per interrompere la sua gravidanza non si farà. È la mattina del 24 giugno, e le cliniche di tredici Stati americani chiudono i battenti, cancellando gli appuntamenti di migliaia di donne come Rachel: l’aborto non è più un diritto protetto dalla Costituzione nel loro Stato.

S&D

«È devastante sapere che il mio stesso Stato non si sia preoccupato di ciò che pensavo fosse meglio per me, per il mio partner o per questo bambino. Sapevo che non avrei potuto dargli la vita che si meritava di vivere», osserva Rachel a TPI durante un’intervista telefonica. Rachel e il suo compagno sono una coppia giovane ed economicamente fragile: hanno ritenuto che non avrebbero potuto occuparsi di un altro individuo da crescere e accudire. Dopo lunghe riflessioni e con sofferenza, hanno deciso di interrompere la gravidanza. Il giorno dopo la sentenza della Corte Suprema, i due si sono messi in viaggio verso una clinica di Riverside, in California: sei ore di macchina che li hanno portati in uno Stato in cui l’aborto è ancora legale e in cui Rachel si è potuta sottoporre con successo alla sua operazione.

Drammi personali

Nel giro di poche ore, questa giovane donna è passata dall’essere una delle prime danneggiate dalla nuova regolamentazione a una delle prime “privilegiate” a poter andare in un altro Stato per portare a termine il suo aborto. Ma la verità è che Rachel ha potuto farlo solo grazie a una serie di donazioni ricevute da amici e sconosciuti online che hanno preso a cuore la sua causa. Se uno di questi elementi fosse mancato – la tempestività, quelle centinaia di dollari di differenza, la possibilità di avere una macchina con cui viaggiare – la sua vita sarebbe potuta cambiare drasticamente.

Intanto, nella parte sud-est degli Stati Uniti, anche Emily Eskine apprendeva l’esito della sentenza della Corte Suprema. Proprietaria di un piccolo business di pet sitting a Baton Rouge, in Louisiana, la 32enne ricorda: «L’unica cosa che mi è venuta in mente di fare è stata pensare alla sterilizzazione. In questo modo non potranno mai costringermi a portare avanti una gravidanza». Se per molti questa può sembrare una scelta estrema, per centinaia di donne americane è diventata la soluzione legale alle gravidanze non volute o pericolose per la salute loro e/o del bambino. Una clinica per donne del Texas, uno Stato americano fortemente contrario all’aborto, ha affermato di aver ricevuto centinaia di domande per prendere appuntamento al fine di richiedere la legatura delle tube o la sterilizzazione permanente.

Eskine, vittima di stupro, ritiene di non avere molte scelte, dato che non può contare su una base economica solida. «Piuttosto che essere costretta ad avere un figlio, vivere in povertà e lasciarlo crescere in un mondo in cui nessuno si preoccupa della sua sicurezza nelle scuole o se muore di fame, preferisco essere costretta a sterilizzarmi e magari pentirmene in seguito», riflette. La stessa situazione economica spinge Eskine a non considerare un eventuale aborto in un altro Stato al di fuori della Louisiana: «Se avessi bisogno di un aborto in questo momento e non potessi permettermi il viaggio o qualunque altro tipo di risorsa, sarei così disperata che cercherei di abortire in modo non sicuro, probabilmente», confessa parlando con il nostro giornale. «Allo stesso tempo, se non avessi il mio compagno (a supportarmi) e certe persone care nella mia vita, con tutto quello che ho passato, sono sicura che penserei al suicidio».

La svolta dei giudici

Le storie di Rachel e di Eskine sono rappresentative di quelle di altre migliaia di donne in tutti gli Usa le quali da quando è stata ribaltata la storica sentenza Roe v. Wade non potranno più abortire nel proprio Stato. Dopo i recenti dibattiti sulle armi, la nazione è nuovamente divisa in due. Stavolta si combatte sul diritto all’aborto: in alcuni Stati è ancora una pratica legale, in altri è diventato un reato perseguibile penalmente.

Nel 1973, la sentenza Roe v. Wade ha dato alle donne degli Stati Uniti il diritto costituzionale ad abortire durante il primo trimestre di gravidanza. Quella decisione ha garantito cinquant’anni di libertà di scelta. Questo fino al 24 giugno scorso, giorno in cui la storica pronuncia è stata ribaltata dalla Corte Suprema nel caso Dobbs v. Jackson. Un nuovo precedente giudiziario è subentrato nel sistema di common law americano, stabilendo che la Costituzione non protegge il diritto all’aborto e che la decisione finale sulla sua legalizzazione debba essere rimessa ai singoli Stati.

Dopo neanche ventiquattro ore dalla sentenza, ben tredici Stati hanno adottato automaticamente delle leggi che criminalizzano l’interruzione di gravidanza. Secondo il Guttmacher Institute, altri tredici si uniranno a loro in tempi brevi. Mentre l’America è spaccata in due, il ribaltamento di Roe v. Wade costringerà milioni di donne come Rachel che vogliono (o devono) abortire legalmente a recarsi in altri Stati dove la pratica è ancora riconosciuta come un diritto della donna. Il problema è che non tutte se lo possono permettere economicamente.

«Questo fardello sarà indubbiamente più pesante per le donne povere, vittime di abusi e diversamente escluse, comprese le indigene e immigrate, le donne di colore e gli individui di genere non convenzionale», dice a TPI Danielle Pollack, policy manager presso il National Family Violence Law Center di Washington Dc. Le storie di Rachel ed Eskine infatti non sono degli episodi isolati, ma solo la punta dell’iceberg. Secondo uno studio del Guttmacher Institue, nel 2020 ci sono stati 930.160 aborti legali negli Stati Uniti. Nel 2014, lo stesso gruppo di ricerca aveva condotto un’analisi approfondita sulla composizione demografica delle pazienti che avevano interrotto la gravidanza in quell’anno. I risultati parlavano chiaro: il 75 per cento apparteneva ad una fascia a basso reddito o in stato di povertà e il 60 per cento aveva un’età compresa tra i 20 e i 29 anni; il 62 per cento si riconosceva come appartenente a una religione. Secondo un’altra ricerca del Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), il 28 per cento delle donne che abortiscono non ha un’assicurazione sanitaria in grado di coprire i costi della procedura abortiva e l’85 per cento è nubile. Inoltre, entrambi gli studi sono concordi nell’affermare che proporzionalmente le donne di colore fanno ricorso all’aborto con più frequenza. Il Guttmacher Institute ha anche stimato che «il 58 per cento delle donne americane in età riproduttiva, che corrisponde a circa 40 milioni di persone, vive in Stati ostili al diritto all’aborto».

Tutti questi dati raccolti nei recenti anni predicono uno scenario pericoloso riguardo all’ulteriore divario sociale ed economico che si potrebbe creare negli Stati Uniti dopo la decisione della Corte Suprema di non difendere i diritti riproduttivi della donna. Mentre negli Stati pro-life le appartenenti alle classi ricche avranno la possibilità finanziaria di viaggiare per interrompere la gravidanza, per le donne nella fascia di reddito bassa ci sono più probabilità che le loro scelte si limitino a tre: portare avanti la gravidanza; abortire illegalmente; sterilizzarsi.

Senza tutele

Un aspetto non sempre considerato di questa vicenda è l’effetto che la fine di Roe v. Wade avrà sulle donne costrette ad abortire per motivi di salute, loro o del bambino. Può essere il caso di una madre che porta in grembo una gravidanza non vitale, in cui il cuore del feto si è fermato. O quello di una gravidanza extrauterina, la quale se non trattata repentinamente può anche condurre a esiti pericolosi per la vita della donna.

Dopo la decisione della Corte Suprema, in Stati come il Texas i medici si stanno rifiutando di interrompere la gravidanza anche in queste situazioni, sebbene la grave compromissione della salute della madre sia l’unico scenario in cui l’aborto è legalmente giustificato nello Stato. Addirittura, alcuni farmacisti si rifiutano di dare alle donne il Misoprostolo, una pillola abortiva solitamente prescritta per gestire l’aborto spontaneo.

Ruth Halperin-Kaddari, ex vicepresidente della Commissione Onu sull’Eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw) e professoressa di diritto all’Università Bar-Ilan, in Israele, spiegato così a TPI il motivo di questo rifiuto da parte degli operatori sanitari: «Anche quando la legge consente l’aborto in caso di pericolo per la vita della donna, certi medici si rifiuteranno di eseguire l’operazione. Non sono disposti a eseguire la procedura per paura di essere poi citati in giudizio, magari perché la procedura non era giustificata o non rispondeva ai criteri e ai requisiti della legge». La pena minima in Texas per gli operatori sanitari coinvolti in un aborto illegale è di cinque anni di prigione, quella massima l’ergastolo. Così la donna è lasciata sola, spogliata del diritto di prendersi cura del proprio corpo, causando fortissime ripercussioni nella sua vita fisica ed emotiva. Drammaticamente, nel migliore dei casi dovrà portare a compimento una gravidanza e partorire nel dolore un feto senza vita; nel peggiore morirà.

Nella maggior parte degli Stati che hanno adottato leggi anti-aborto, non verranno tutelate neppure quelle donne la cui gravidanza sia stata conseguenza di uno stupro o di un incesto. Oltre alle dinamiche economiche da tenere in considerazione, alcune di queste donne verranno vittimizzate nuovamente, costrette a dover affrontare un forte trauma dinanzi la violazione del loro diritto di libera scelta riproduttiva. Sarah LeSueur abita a Lake Charles, nello Stato pro-life della Louisiana, e in passato ha subito una violenza sessuale. Conversando con il nostro giornale, si dice preoccupata per le conseguenze traumatiche che la sentenza della Corte Suprema potrebbe comportare nella vita delle vittime di stupro negli Stati Uniti: «Ritengo che questa decisione sia un’estensione della violenza sessuale. Le vittime di stupro subiscono una perdita di controllo del proprio corpo. Ora il nostro governo è diventato responsabile nell’infliggere (nelle vittime) lo stesso senso di perdita di controllo del corpo causato dai nostri aggressori. Le vittime di stupro, vecchie, nuove e future, si troveranno ad affrontare la stessa brutalità, se si permetterà che ciò avvenga. Il danno psicologico è inimmaginabile e imperdonabile».

Gli Stati Uniti sono tornati indietro di cinquant’anni – letteralmente, dato che l’ultima volta che l’aborto è stato considerato una pratica non costituzionalmente difendibile risale al 1973. La professoressa Kaddari sostiene che le scelte fatte negli ultimi mesi – dalle armi all’aborto, al consolidamento di un punto di vista religioso in un Paese costituzionalmente laico – sono dimostrazioni di un generale arretramento della democrazia e di una «crescita allarmante delle forze conservatrici». Le conseguenze si preannunciano tutt’altro che positive, secondo Kaddari: «Il regime restrittivo dell’aborto va di pari passo con la mancanza e la minore accessibilità ai contraccettivi e con l’assenza e l’inadeguatezza dell’educazione sessuale». Secondo l’ex vicepresidente Cedaw, la sentenza Roe v. Wade non solo si traduce in una forte discriminazione delle donne e dei loro diritti, ma è anche contraria ai principi dellOnu: l’aborto non può essere criminalizzato, e ogni Paese deve legalizzarlo almeno nei casi di stupro, incesto, di rischio per la vita o la salute della madre e di severe anomalie fetali.

Elezioni di mid-term

Mentre il presidente Joe Biden e altri esponenti democratici come Kathy Hochul, la governatrice di New York, si offrono di supportare e proteggere le donne provenienti da quegli Stati in cui l’aborto è ora illegale, per ora la vera differenza la stanno facendo le singole persone. Ad esempio finanziando le donne in cerca di aiuto (attraverso progetti di raccolta fondi o autonomamente) e aiutandole a viaggiare tra gli Stati per abortire legalmente ed in sicurezza. «In un momento in cui i nostri diritti ci sono stati tolti, c’è ancora chi non è disposto a cedere a questa ingiustizia che stiamo subendo», osserva Rachel.

A novembre le elezioni di metà mandato decideranno chi saranno i nuovi rappresentanti dei singoli Stati nel Congresso. Verranno eletti anche alcuni dei governatori: da queste elezioni, in altre parole, si deciderà se altri Stati americani adotteranno politiche più severe contro l’aborto, o se al contrario l’eventuale cambio di rappresentanza nei territori che già lo hanno criminalizzato ristabilirà l’equilibrio precedente il ribaltamento di Roe v. Wade. Attualmente, tutti gli Stati che hanno imposto dei limiti importanti all’interruzione di gravidanza sono di stampo repubblicano e conservatore.

Le donne pro-choice hanno incrementato le loro campagne di sensibilizzazione: le elezioni di novembre mostreranno se, tra i cinquanta Stati, la maggioranza si schiererà contro o a favore della libertà della donna di disporre del suo corpo, e loro non vogliono perdere. «Come femministe, questo è un campanello d’allarme molto chiaro, per tutte noi: ci ricorda quanto siano fragili tutte le conquiste del femminismo e quanto sia facile retrocedere, far crollare tutto ciò che abbiamo ottenuto», commenta la professoressa Kaddari.

Quando Rachel ha sentito parlare per la prima volta di un possibile ribaltamento della sentenza Roe v. Wade, ricorda di aver pianto, di essersi arrabbiata e di aver cercato di spiegare al suo compagno come quella sentenza avrebbe cambiato tutto. Per quanto lui le avesse assicurato di capirla, Rachel non ci ha creduto: «Non capirai mai quanto sia spaventoso avere una sicurezza e vedersela portare via; non avere accesso al proprio corpo; sentirsi dire cosa si può o non si può fare al proprio corpo. Ricordo che la notizia mi ha lasciato una sensazione di impotenza». Un’impotenza che, alcune, potrebbero sconfiggere a novembre.

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